lunedì 9 ottobre 2017
lunedì 13 marzo 2017
Dis-Amore
Era
una domenica pomeriggio sul lago, di quei giorni che non è più inverno e non è
ancora primavera. Il sole che era stato fedele compagno lungo il tragitto ora
si nascondeva in una ragnatela di nuvole. Io e il Falco camminavamo in silenzio
lungo la sponda soffice dove l’acqua del lago era appena increspata dal vento,
un gruppo di anatre sfilò davanti a noi lasciando una scia che andava
allungandosi per un po’, per dissolversi dopo poco. Mi ricordai del mio
professore di fisica quando spiegava questo fenomeno, ma era una vita fa,
quella stessa vita dove il mio amico avevano iniziato a chiamarlo il Falco, per
via dello stesso disegnato sul giubbotto di pelle nera. E quel soprannome gli
era rimasto appiccicato, nel tempo.
Camminammo
per un po’, lasciando che i pensieri si esprimessero in parole, raccontando di
noi, del lavoro, degli hobby, per poi scendere nel personale. Il cuore, le
relazioni. Come se questi argomenti avessero bisogno di ricreare confidenza per
essere sviscerati, anche se con Falco ci sentivamo spesso al telefono.
Ci
fermammo in uno di quei bar con la vista sul lago, che quando è piena stagione
non trovi mai posto, anche se ci sono solo gli ombrelloni e i tavolini di
plastica con la scritta di qualche bibita che ne fa la pubblicità. La ghiaia
scricchiolava sotto i piedi, ci sedemmo restando ad assaporare il tepore che
saliva dalla terra, poco più in là una coppia di motociclisti studiava una
cartina stradale. Mi piace quando la gente sa ancora usare le cartine e non si
affida solo al navigatore, ma io sono una nostalgica, io ho fatto la Parigi
Dakar, ma è un’altra storia.
Si
avvicinò il gestore, stava in maniche di camicia, aveva appena finito di
mettere a dimora una pianta di rose, con la moglie, ci aveva salutati all’arrivo
con un cenno della testa, poi si era lavato le mani alla fontana e ora
aspettava le nostre ordinazioni.
Mi
guardai intorno: le aiuole curate, un vecchio calcio balilla sotto un pergolato
che evocava il rumore della pallina, tra i ricordi, un cartellone sbiadito con
i gelati di una nota marca, a ricordare che siamo stati giovani, da qualche
parte. Sul tavolino accanto un posacenere con dei mozziconi di sigaretta, su
uno c’era il segno del rossetto, raccontavano di chi era passato di lì, il
nostro lento, distratto esserci.
Arrivarono
le nostre ordinazioni sorseggiai il bicchiere di acqua tonica, mentre il Falco
girando il cucchiaino nella tazzina del caffè concluse il discorso iniziato prima,
sul lago.
-Così
ha vinto lei.-
Per
dire che lei, l’altra, la moglie, era rimasta con lui, l’uomo che amavo.
Ecco
sarà per deformazione da scrittrice, ma “vinto” non è proprio il verbo che
avrei usato.
“Vinto”
mi sembra così dannatamente legato a una competizione, chessò una corsa di
cavalli, una gara sportiva, la Parigi-Dakar, no, non si vince, si deve arrivare
a Dakar. O meglio si doveva, ora non si corre più in Africa.
Mi
si parò davanti l’immagine della Vlora, la nave simbolo che portò quell’esodo
di uomini dalla ex Jugoslavia, quando
nel porto di Bari alzavano l’indice e il medio a formare una “v”, in segno di
vittoria. E lasciavano chi guardava sgomento: cosa avevano vinto?
Ecco,
Falco, se devo tenere il verbo della tua domanda, e so che non si risponde a
una domanda con un’altra domanda, ma dimmi, di cuore, cosa ha vinto?
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Etichette: pensieri e cammei
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