domenica 24 giugno 2007

Zucchero e cannella su La Stampa


Venerdì 22 Giugno su Torino Sette in allegato con La Stampa è stata pubblicata questa recensione su Zucchero e Cannella, che verrà presentato il 27 Giugno presso la libreria Via Massena 28 a Torino ore 21,30.


















lunedì 18 giugno 2007

Parigi-Dakar, fermo posta Hotel de Ville









“L’amore colto al volo su un marciapiede, la giovinezza insolente su uno sfondo di grigiore quotidiano, ovviamente parigino…Ma nella mano sinistra del ragazzo c’era la sigaretta, che lui non aveva gettato via al momento del bacio. Eppure sembrava quasi consumata. Si sentiva che aveva tempo, che comandava lui. Voleva tutto, baciare e fumare, provocare e sedurre. Il modo in cui la sciarpa s’infilava nella camicia aperta tradiva la soddisfazione di sé, la disinvoltura ostentata. Era giovane.” -Philippe Delerm-

So che ci si innamora, disperatamente a Parigi e di Parigi.

Dalla borsa un’immagine scivolò mentre cercavo l’agenda, restai a fissare una riproduzione del“Bacio” di Doisneau, l’Hotel de Ville, rimanendo nella porta girevole di un albergo, guardai lontano la Tour de Montparnasse profilarsi all’orizzonte.

Al terzo giro un portiere discreto mi domandò se andava tutto bene, riportando indietro i miei pensieri da certi ricordi in bianco e nero.

Fermo posta, Hotel de Ville.

Fuori la vita scorreva sotto i colori grigi di una pioggia leggera, che bagnava i marciapiedi, le sedie vuote dei bistrot all’aperto, le fontane. Gli ombrelli fiorivano mentre sollevavo il bavero dell’impermeabile.

Burberry e Chanel, la tua giacca, la mia sciarpa a spasso sugli Champs-Elysées, la memoria di una foto, affogata in un cappuccino, di buoni propositi.

Per mano.

E’ curioso, gli amanti in questa città, dico. E’ curioso, sai li vedi, si sfiorano appena le mani, di giochi lenti come lo sciogliersi delle candele sulle tovaglie damascate, le finestre sulla strada.

Li osservavo e mi ricordavano vecchie foto d’epoca, chiaro scuro, dentellate, dai contorni incerti.

Chiunque abbia vent’anni potrebbe essere il protagonista del "Bacio", anche noi.

Non ho mai capito se quella sigaretta era consumata o spenta, trattenuta con delicatezza tra le dita, da assaporare come la rabbia al rum di certi pomeriggi di Marzo piegati su di noi.

Storie da un penny e Bourgogne, da sorseggiare lentamente, un aperitivo al Quartier Latin, al Café du Flore, ritmo morbido, quasi un tango sulle labbra, respirato piano, ubriachi del troppo esserci.

Una scommessa, un viaggio, Parigi-Dakar, un sogno legato stretto intorno al polso, come una bandana, di quei vent’anni.

Certi viaggi nascono dentro molto prima della partenza, e quel giorno lo sapevo, mentre compravo Le Figaro ai Giardini de Luxemburg.

Avevamo vent’anni e la fretta di uscire dai jeans, poi solo la radio, a tutto volume.

Avevamo vent’anni, ed era Parigi, di una Ville Lumiere a incantare ogni passo, tacco punta, arabesque.

Come il poster di una ballerina, appeso alla porta dell’armadio.

Tacco, punta, arabesque, volano via colombi ingrigiti, anche loro dal sapore chiaro-scuro.

La cena veloce nella soffitta sulla Senna, dove sono nata io. I poster di James Dean stinti alle pareti, come strappi nei jeans, briciole di baguette comprate calde, dal fornaio, all’angolo e le confetture dell’Epicerie, in rue St-Louis-en-l’lle, profumo di ciliegie nel cuore di Parigi.

Da raccogliere.

L’amore dopo aveva il sapore di avanzi di brandy e cartine stropicciate, Parigi si disegnava alla finestra, guardavo la Tour Eiffel salita tante volte con gli amici. Il Louvre era un altro ricordo.

Amavamo quelle domeniche d’Ottobre vuote di turisti a perderci tra sotterranei e sale, sorpresa ogni volta di trovare La Mona Lisa ancora là, a dispensare sorrisi.

Io non avrei potuto morire così, per questo non ti permisi di ritrarmi.

Le foto invecchiano, ingialliscano, sono sostituite da altre, i ritratti sono impietosi, fermano un momento in cui magari sei stato felice e ti obbligano a sorridere per l’eternità, come lei, Lisa.

Notre Dame rimboccava l’aria della sera con la voce rauca dell’isola, coperta della notte, avevo freddo uscendo dal Louvre, la tua mano sulla fronte.

Scottava.

Ora non ricordo se era calda la tua mano o ero io la malata.

La febbre tutta la notte, il verdetto a beffarsi di me, malaria.

Un cerchio rosso sul calendario, su un anonimo numero nero.

Arrivò e tu partisti.

Sarei arrivata dopo.

Fermo posta Hotel de Ville, lettere con francobolli stranieri, passaporti timbrati, departure.

Dakar si distendeva tra i palazzi altissimi e la sua periferia di disperazione.

Il Senegal è un paese che non dorme mai, sotto la luna guardavo i profili frastagliati dei baobab spogli, ardevano i piccoli fuochi ai lati della strada.

Dove andava tutta quella gente? Mi domandavo mentre il taxi mi portava in albergo, sfilava dal finestrino l’eterno caleidoscopio di divario tra le zone povere e le lunghe strade delle ambasciate.

Dormii poche ore tra lenzuola umide, e il chiassoso via vai del corridoio.

Il mattino dopo avevo appuntamento con uomo che mi avrebbe accompagnata nella zona dove presumevo tu fossi, mentre parlavo francese spendendo i miei CFA in un terribile caffé e i titoli di giornale.

Bocar mi aspettava vicino al mercato dove conciano le pelli di serpenti, sentivo l’odore acre e il martellare ritmico sulle squame mentre mi avvicinavo.

L’uomo che mi avrebbe portata verso la foresta di baobab e la savana era anziano, capelli grigi, il volto accennato di una barba incolta, gli tesi la mano mentre scopriva un sorriso giallo e qualche dente mancante.

La piccola auto sobbalzò sulla strada dissestata, mentre alla radio trasmettevano notizie di quella giornata di corsa, dal finestrino entravano nuvole di polvere rossa che lasciavano macchie indelebili, sui vestiti e nell’anima.

Bocar continuava a guidare, statua d’ebano, impassibile.

I bambini correvano agitando le mani alle auto che attraversavano i villaggi senza fermarsi, auto in panne, gruppi in attesa, cronometri, team agonizzanti.

-Sei in ritardo- erano le tue parole.

Percorsi gli ultimi 80 chilometri della Parigi-Dakar capendo la passione di chi corre, io ai 200 all’ora nella vita.

Non aveva importanza arrivare per primi, ma arrivarci al Lago Retba, meglio conosciuto come Lago Rosa per l’intensa colorazione fucsia delle sue acque, soprannominato il Mar Morto del Senegal, dato che le sue acque salatissime contengono una percentuale dieci volte superiore a quella delle acque dell’oceano.

L’arrivo della Parigi-Dakar, dove l’acqua costa più della Coca-Cola.

Nel lago galleggiammo ubriachi di niente e polvere.

Elle, c’era scritto sul mio costume.

La notte nel piccolo lodge la coperta di lana grezza mi pungeva attraverso le lenzuola, sentivo tornare i brividi della febbre mentre guardavo il tuo sonno tranquillo.

Tornando a Parigi chiesi al taxi di fermarsi, eravamo stanchi, il cielo era grigio, tu non capivi, ma non facevi domande, pagasti la corsa.

Sul marciapiede ti chiesi di baciarmi.

Eravamo lì, nei nostri vent’anni, un bacio davanti all’Hotel de Ville.

Tra passanti curiosi, forse a ricordare un’immagine in chiaro-scuro che aveva fatto il giro del mondo.

Noi, noi, infondo, avevamo fatto solo la Parigi-Dakar.

E nessun fotografo, su quel fermo immagine.



Cris -Ho percorso gli ultimi 80 KM della Parigi-Dakar, con un gruppo di amici nel Dicembre del 2001 per portare aiuti nel Sud del Senegal.
Di Parigi sono perdutamente innamorata...



giovedì 14 giugno 2007

Polignano a mare







Le lame aperte sull’orizzonte, un po’ più in su del mare,
un po’ più in giù del cielo
Bassa marea
Arma del delitto
e
risacca su ciottoli,
sgonfie meduse, vocali allungate di acca mute, in sacche amniotiche,
vertigini le consonanti di tunnel orizzontali, linee metropolitane.
Le lame delle forbici, impugnate nell’atto esatto di spezzare l’alchimia del destino,
sfilate dalle tasche
di lupi mannari
e
posate sull’orizzonte,
lì,
all’imbocco di una cala, un po’ più in là della paura.
Forbici
per tagliare in rombi il volo caduco di aquiloni, scampoli di cielo,
origami, barche di carta.
Forbici
Con ancora l’impronta per vaneggiare notti arcuate,
e urli strozzati,
ipnotiche ed arrendevoli notti di gialli,
la crime novel
E
Pino Pascali
tagliava via quel che avanzava di un orizzonte



venerdì 8 giugno 2007

El pianista del Café Numancia







Tormentati i tasti

sotto le sue mani,

nel gioco bianco e nero,

in accordo di do, indomito e ribelle,

di lei, il corpo disegnato ad ogni ritorno perduto di nota,

avvolta di fumo, di bollicine di vino sulle labbra,

Café Numancia, da dividere in scalzi mattini,

rose bianche sui tavoli

a chiedere perdono

e

candele in ginocchio.

Mezzanotte

tormentate le dita di donna

a intrecciare le sue,

senza accordo,

ultima nota del suoi vent’anni,

ribelli,

maldestri,

colpevoli.

Rose rosse,

a camminare funambolo senza pensieri,

che l’azzardo è ardito,

cadendo in ricordi di lettere sgualcite a ripercorrere l’asola vuota degli anni,

latta da prendere a calci che la vita

ha sempre in mano il capo a cui appendere denti come fili di perle,

che a sorridere non servono più.

Corsa in metropolitana e ad ogni stazione seguire sullo schermo quella storia spezzata,

immaginando i segmenti perduti per sempre

e gondole spaiate, che le note scivolano dispari,

e chi resta dietro,

è solo.

Velette bianche e guanti a nascondere il tremito delle mani.,

e le gardenie non san parlare, sul doppio petto blu.

Sola, una nota appesa al di là di lui,

si bemolle,

quando la vita gli ha opposto un no,

che lui non ha saputo suonare,

ballata per pianoforte incompiuta.

E’ rimasto così, nota nell’aria di un pentagramma dispari.

Chi rimane dietro, non ha mani da stringere.

L’amore in spartiti

del pianista del Café Numancia

(Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)