L’ombra umida del mare di ponente
Le navi se ne stavano immobili, attraccate ai moli, dove i gabbiani si fermavano a riposare. In attesa di partenze improbabili si imbarcavano sulle cime tese, clandestini di un restare là. Dove non furono mai.
Gli aerei passavano alti lasciando a noi una manciata di scie e l’interrogativo della loro rotta da indovinare. Una manciata di scie nelle tasche e bottiglie abbandonate, vuoti a perdere e lettere, messaggi a mare, da tirar su con un congiuntivo.
Un cane stava accucciato su un mucchio di vecchie corde arrotolate su stesse, come un grosso serpente, da far esibire al suono ondeggiante e ipnotico di un flauto.
Rotte di caduti venti occidentali.
Il cane osservava il via vai dei mezzi pesanti sulle banchine del porto, vestiva i panni di cane guardiano dei grossi silos di grano. Abbaiava agli uomini, mentre una fila disordinata di gabbiani rubava dai sacchi vicino al deposito.
L’uomo passò di là allungandogli una carezza attraverso le sbarre del cancello.
Il cielo si stava coprendo di una sottile velatura, c’erano ancora due ore di luce prima del tramonto.
Poi la notte avrebbe inghiottito tutto, anche le ombre leggere e umide che l’alito del mare appiccicava alla banchina.
Le navi incrociavano nelle acque del porto seguendo le rotte per l’America.
Già l’America che aspettava distesa al di là della nebbia che si levava sull’oceano.
Quell’America che l’uomo teneva in un cassetto da una vita, un indirizzo scritto di inchiostro sbavato sul retro di una busta ingiallita.
Viaggi di carta. Leggeri e impalpabili come le scie di aerei. Porcellane d’ossa.
E l’America. Di là del mare.
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