Bar du Cap
Le pagine si erano aperte a caso: le cose si perdono per essere ritrovate.
Viola scendeva i gradini di pietra rimanendo nell’ombra che regalavano i palazzi nel primo mattino, disegnando ombre lunghe, giù verso il mare, dove strideva la voce dei gabbiani, che giravano in cerchi e si lasciavano trasportare dalle correnti d’aria calda.
Il vento agitava i panni stesi e le bandiere, scompigliava i capelli che con un gesto di resa la donna lasciò cadere, disordinati sulle spalle e sul viso.
“ école de danse” c’era scritto su un manifesto, ballerine in tutù, come un quadro di Degas, anemoni al mercato dei fiori.
Arrivò a Quai Bonaparte, tra i turisti e le stampe provenzali, cicaleccio in sottofondo, frinire di cicale, sigarette sulla linea dell’orizzonte.
Lui era seduto, nascosto da un improbabile cappello di paglia e le pagine riciclate di Nice Matin.
Viola sapeva che aveva chiuso un cerchio, fatto di parole, tante parole, dette, ridette, non ascoltate, tenute insieme dal filo sottile dei ricordi, imbastite con vocali allungate di acca mute, o minuziosamente lavorate come un pizzo macramé, ma sempre parole.
Il tempo aveva dato il giusto accordo alle sue rughe, accentuate dall’abbronzatura, lui aveva solchi disegnati nella pelle, per far fiorire scalzi mazzi di lavanda all’abbazia di Sénanque.
Quando ti muovi alla velocità della vita, scontrarsi è inevitabile.
Una voce lontana mille anni e una manciata di incontri, tanto bastava a cambiare la vita, il segreto stava nella capacità di percorrere sul giusto binario un’alternativa al presente, un patto col diavolo, e lo smacco al tempo che si beffava di loro.
Tutto quel giorno aveva il suo posto perfetto, nel disordine del quotidiano, tutto ruotava intorno a loro irreale, come l’attimo prima di una tempesta. Gravitavano nell’orbita esatta, senza bisogno di punti cardinali.
Il Bar du Cap era una piccola isola fatta di tavolini in ferro battuto con morbidi cuscini azzurri posati sulle sedie, che invitavano a fermarsi, avvolti dall’ombra discreta degli ombrelloni e sopra di loro, su in alto, il cielo, anche lui quel giorno, distrattamente azzurro.
Viola si chinò su di lui posando un bacio lieve sulla guancia, tenendo sollevati i capelli sul viso. Profumava di fragole e mughetto, pensò lui salutandola.
Parlavano francese, del mercato de fiori, di un pittore locale che avrebbe esposto quella sera. Giravano intorno alle parole, come i cucchiaini nei loro caffé ormai freddi. Terribili caffé.
Ma loro parevano non accorgersene.
La trama sottile che li univa e li divideva al tempo stesso faceva di loro un ritratto ad olio di amanti perduti. D-I-A-M-A-N-T-I grezzi. Pezzi di carbone ardente gli occhi e un puntino luminoso sulle spalle. Quello che i Tarocchi tra le mani di Viola avevano da dire, loro lo sapevano già.
Così sorrideva mesta, Visage au tratt oblique, tenendo la mano di lui, o forse era lui a tenerle la mano.
“Quante cose possono fare due mani?”
“Due mani possono fare anche un domani”
La passione li plasmava come creta in mani sapienti.
All’alba Viola si affacciò sul piccolo poggiolo, i quotidiani stropicciati, il suo pigiama, e fogli sparsi, scritti di una grafia che conosceva, “non hai lasciato pagine bianche”.
La Francia, come molti altri posti del mondo, il loro curioso rincorrersi, come amanti perduti sui campi elisi.
Un luogo, tutti i luoghi.
Il richiamo del muezzin. Per esempio. “Allah si è svegliato senza di me”. Pensò sorridendo Viola.
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