Tredicesima fermata, Istanbul bus
“Molte volte i miei compagni avrebbero deciso di tornare indietro,
ma non io,
perché volevo vedere i confini del mondo” Alessandro il Grande
L’autobus era affollato, dal finestrino il mare era la via di fuga per lo sguardo e la moschea blu sullo sfondo con le sue cupole, uteri rovesciati mesti alla preghiera, racchiudeva segreti bisbigliati.
Il ragazzo con l’orecchino parlava al telefono e mi sorrideva.
Tenevo la macchina fotografica appoggiata sul petto.
Un gruppetto di ragazzini stava seduto vicino al finestrino, avevano una radio che trasmetteva le note ipnotiche di una canzone araba, che si faceva carezza sensuale di acca mute strisciate, aspirate, in un crescendo di ritmo e volume, mi ricordava l’intercedere del sirtaki, ascoltato a Santorini anni prima, con il suo crescendo in onde doppie e parallele, come la voglia.
Notti che non andava a dormire nemmeno la luna.
Salì l’uomo che vendeva il caffè turco, leggimi il futuro nei fondi di caffè, mentre ripenso a una papessa nel mazzo dei tarocchi rovesciata su un tavolino di un bar all’aperto.
L’ultimo caffè bevuto all’aeroporto, l’aroma sulle labbra, come un bacio.
Fu allora che lo vidi, per un attimo il suo sguardo si fissò nel mio e il déjà-vu dei giorni passati mise insieme il puzzle dei ricordi e un’ombra sfocata sulla spalla destra, sbavatura di una fotografia?
Scese alla fermata numero 13, ma c’era troppa gente e mentre mi facevo largo nel corridoio affollato la maglia s’impigliò nella gabbietta delle colombe di un mimo seduto vicino all’uscita.
Il caldo, la musica, mi girava la testa.
Scesi alla fermata successiva e corsi indietro, schivando il fiume di persone che affollava la strada, donne con il chador che ridevano, uomini che sorseggiavano il tè, le bancarelle degli ambulanti con le arance rosse, tonde e lucide e i datteri carnosi.
Migliaia di nodi i tappeti intrecciati al telaio e lunghe ed estenuanti trattative con i clienti, accompagnati dall’intercalare la bes.
Dovevo comprare i semi di coriandolo.
Pochi giorni prima c’era stato un attentato, proprio lì, dietro al mercato, ma ora nessuno sembrava curarsene. Non la ragazza che si faceva tatuare le mani con l’hennè, sposa di Maggio, pensai a quei disegni posarsi sensuali sulla pelle dello sposo nudo. E certe lune sedute al bordo del pozzo nei piccoli cortili che si schiudevano nel cuore dei palazzi.
Donna, dammi da bere
Lo rividi davanti all’Hammam, ancora il suo sguardo per un attimo.
Io sono già stato qui
Non concederti, voltati, soddisfami.
Se il vento spira da ovest ascolta la voce dei defunti.
Il Maestro era lì.
“Hai accettato, dunque” disse.
“Perché mi hai mandata fino qui?”
“Perché comprassi i semi di coriandolo”
Camminammo tra la folla che sembrava non vederci, o forse eravamo davvero invisibili quella notte.
Il Maestro si fermò sulla piazza, con un ampio gesto della mano disse:
“Rammenta chi sei e il potere che hai”
Poi si incamminò lungo il colonnato.
Lo seguii.
“Aspetta, io non so cosa cercare, non so da che parte andare”
“La strada ha trovato te, e sarà lei a condurre i tuoi passi, perché saresti arrivata fino a qui? Imparerai la voce della luna e il pianto degli alberi, il lamento del lupo e i segreti del vento”
Mi afferrò per le spalle e suoi occhi di brace entrarono nei miei, sfiorò la mia fronte con le dita, dischiudendo il velo che si squarciò sull’abisso e oltre, al di là del presente sospesa tra volti, parole, immagini, come in una giostra.
Quando riaprii gli occhi il Maestro non c’era più.
Nella borsa il sacchetto di tela con i semi di coriandolo.
La luna faceva capolino tra i tetti.
Mi incamminai verso est.
Senza voltarmi.
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