mercoledì 13 aprile 2011

La casa dello scultore


Più ti guardo e meno lo capisco
da che posto vieni
forse sono stati tanti posti
tutti da straniera
chi ti ha fatto gli occhi e quelle gambe
ci sapeva fare
chi ti ha dato tutta la dolcezza
ti voleva bene
quando il cielo non bastava
non bastava la brigata
eri solo da incontrare
ma tu ci sei sempre stata -Ligabue-


La strada a ritroso quel giorno sembrava più lunga, forse perché quando si torna i ricordi hanno un peso diverso e la valigia è decisamente più pesante.

Quando l’aereo toccò terra il mio sguardo seguì la linea di fuga dell’orizzonte, quel boschetto di cipressi quando arrivavo erano il mio benvenuto.

Sfilavano i luoghi conosciuti dal finestrino e avvertii la sottile morsa della malinconia, di quella luce, il verde degli ulivi e il blu del mare dove le onde gonfie di maestrale andavano ad infrangersi sulla scogliera del faro.

Tornavamo a turno da luoghi remoti e reportage assurdi, in un gioco a scacchi con la vita.

Ma tornavamo sempre, a turno, da Tel Aviv, da Baghdad, dai deserti a confine con l’anima.

E a turno uno di noi era all’aeroporto.

La casa era avvolta dalla penombra del pomeriggio estivo. Aprii le persiane, entrò l’odore del mare, di alghe e di bassa marea.

Giù al porto i traghetti per la Grecia se ne stavano ormeggiati sotto il sole, come capodogli spiaggiati.

Il pianoforte in angolo, alzai il telo che lo copriva; appoggiai l’indice su un tasto. Una nota si diffuse nell’aria. Curioso, la tua vita se ne stava tutta in un giro di do. Così simile a un no di una voce spezzata.

La mia era un si bemolle, mollemente appoggiato al tuo cuore.

Come quando ti ho conosciuto, il bosco dei violini.

Ti ho portato a vedere la mia casa sul mare una notte

che anche le campane si stavano zitte

La casa dello scultore: ne accarezzavo i calchi di gesso e di creta, ormai ruvida e rigida come la tua immobilità adesso.

I miei passi echeggiavano tra quelle stanze vuote, fuori i bambini giocavano a pallone, li sentivo correre e ridere.

Leila arrivò come arrivano le stagioni, in un giorno prestabilito, cerchiato di rosso sul calendario, di luna nuova e vento caldo di scirocco.

Il mare azzurro dei suoi occhi dietro le lenti scure degli occhiali da sole. Come lo conosceva bene anche lei il deserto.

Le parole veleggiavano increspate dai “ti ricordi?”

Lasciò scivolare le dita tra i tasti del pianoforte come la stretta di una mano. Dita e tasti. Tasti e dita.

Un intreccio.

Mi sedetti su una poltrona tirando su le ginocchia sotto al mento, il mare era al di là della finestra.

Le scarpe della sposa che avevano camminato solo quel giorno

Dopo molto tempo entrai nello studio. Non ti piaceva la luce diretta, le imposte stavano chiuse, quel giorno non mi andava di assecondarti, e il sole inondò il tavolo ancora ingombro di bozzetti, di disegni e vecchi appunti, una grafia conosciuta.

Hai, donne vestite di nero agli angoli della tua bocca. I pensieri affondano nelle rughe che disegnano il tuo viso bronzeo e scolpito nella pietra del presente.

Leila mi raggiunse.

“Dobbiamo mettere in ordine” il suo senso pratico è il coraggio di oggi, l’ottimismo per domani.

E la casa diventa un tempio di giorni, di ricordi, di progetti.

Mi hai regalato il tempo, tra le lancette di un orologio e dodici rintocchi.

Quando una voce argentina, piove su di noi, inaspettata.

“C’è un caffè per me?”

E la sera sulla terrazza affacciata al mare le note si accompagnano al tempo presente.

Apro distratta la prima pagina del libro che hai lasciato sul tavolo, e leggo l’incontro di Aleida March con il Che:

“tutto accadde perché io ero molto più innamorata di quanto pensassi: così semplicemente mi arresi, senza difese, senza dar battaglia”.

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