Da Montmartre a Montparnasse andavamo a piedi
“Si deve appartenere al proprio tempo. Ogni epoca ha prodotto i suoi capolavori che non sono i nostri” Jean Planque
Jean Planque lavorava per la Galleria Beyeler, lo conobbi al mercato delle pulci di Losanna, l’occhio attento di chi sa riconoscere un Dubuffet, bozzetto stropicciato tra vecchi ritagli di tempo e cianfrusaglie inutili.
Falsi, riproduzioni curiose, pezzi superflui.
Vecchi.
Non antichi.
Si fermava con minuziosa curiosità sulle cornici, alzandole in controluce, cercando qualcosa di prezioso o dimenticato.
Ha raccolto per anni una collezione di piccoli capolavori, figli minori di grandi geni, Degas, Picasso, Monet.
Cammei, scolpiti come parole sul guscio duro e fragile di conchiglie.
Dalla tasca del cappotto mi porse un foglio ingiallito, piegato in due.
- Questa è Sabine- mormorò.
Si trattava di un falso, certo, anche se la firma in calce era davvero ben fatta.
Mi spiegò che cercava l’originale, non per denaro, poteva valere poche centinaia di franchi, ma per la storia che celava.
Un amore tormentato, una passione di un tempo andato.
O forse la suggestione di chi per anni cerca di svelare misteri là dove sulla tela sono semplici macchie di colore.
Sabine lavorava da un pittore, per qualche soldo, amata ad ore. La sera serviva ai tavoli nel quartiere di Montmartre, i capelli raccolti alti, fissati sulla nuca, a mostrare gli zigomi acerbi in contrasto con il corpo, morbido, minuto.
Lui, il pittore, amava dipingerla sproporzionando il gioco degli zigomi, una provocazione, come i lunghi colli di Modigliani.
Le regalava uno sguardo di superbia, gli occhi erano così chiari da sembrare la superficie increspata dei mari del nord. Lineamenti duri a sposare l’abbondanza delle forme, la generosità delle curve tra le lenzuola. Dopo.
Pre-cubismo?
Dicevo, la sera lavorava in un bistrot, si respirava odore di sigari, gli scrittori ebrei stavano sempre in un tavolo vicino alla finestra dai vetri appannati, parlavano piano, fitto tra loro.
Cercavano ispirazione. Si diceva.
Intanto nei loro bicchieri restava l’aroma di assenzio.
I pittori sorseggiavano vino scadente e cercavano donne facili con cui fare nottate. O forse solo la notte.
Nei vicoli i gatti miagolavano, magri, affamati e le risate dei locali ondeggiavano tra le fiammelle delle candele e lische di pesce, avanzi di povertà.
A volte qualche ragazzo un po’ brillo cercava di abbordare Sabine, ma c’era sempre chi sapeva, chi li zittiva.
-Come? Non era al corrente? Lei era la modella nella stanza del pittore.
-Excusez moi- mormoravano abbassando lo sguardo.
Poi lo rialzavano, immaginandola a fare muffa su una tela nella cornice erosa dai tarli. Magari appesa al Louvre. Pittori.
Fece un provino per Le Chat Noir e la scelsero per una parte, le scrissero.
Arrivò la lettera e la padrona di casa la portò su nella soffitta, sotto i tetti di Parigi, dove viveva, apostrofandola:
-Dì un po’, non avrai creato qualche problema? Io qui la Gendarmerie non ce la voglio-
Sabine non sapeva leggere. Infilò la lettera all’interno della cornice di uno specchio senza aprirla.
Sfumò l’occasione di una vita.
Il teatro rimase immobile, chiuso in una scatola, così l’eco di giovani passi fruscianti in taffettà, il parterre silenzioso, gli applausi in tasca, musica ferma di un carillon spezzato.
Ci fu la guerra e di quelle tele non si parlò più.
Poi un incendio a cancellare la parentesi parigina.
Qualche fortunato deve conservare i ritratti appena abbozzati di Sabine.
Perché un amico mi ha mostrato la lettera nello specchio.
Nulla va guardato con superficialità tra le bancarelle dei mercatini di cose vecchie.
Da Montmartre a Montparnasse andavamo a piedi.
Contando il resto di una vita in avanzi di monete straniere al mercato. Soldi sulle dita, abaco di pensieri.
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