Dakar: Dis-cromie di deserti
Quando attraverserai il deserto
fidati solo della bussola ma di nessun altro
Viola conosceva il silenzio che solo i deserti sanno tessere. Amava quella polvere impalpabile che lasciava macchie indelebili sui tessuti: il segno tangibile di essere stati lì.
Con le mani cercava di allargare la cartina sgualcita e fragile e l’Erg algerino le si parò davanti: giallo, assolato, tanto da far portare una mano a riparare gli occhi. Quando i ricordi tessono trame, come fili di ragno.
Una cartina. La fiducia totale di chi legge, in chi scrive. Un linguaggio universale. Che poi Timbuctu sia un miraggio, uno scherzo del deserto che frappone fra te e la meta dune e dune di polvere. Che un gigante possa soffiar via sussurrando ai piedi delle Montagne Blu.
A Dakar arrivava per intervistare chi aveva sfidato la strada e la morte. Anche.
Dakar era un altro punto di arrivo.
Bengasi, Douz, Tamanrasset erano avamposti da collezionare. Medaglie, ricordi. Piloti in marcia contro nuovi mulini a vento.
Viola lo sapeva bene. Per questo teneva Dakar come un asso nella manica. Sapeva che gli dei a volte sanno essere benevoli e la città era davvero vicina.
Una notte soltanto la separava dal deserto, memoria instabile del tempo. Ladro di impronte. Che non starai due volte nello stesso luogo. Non perché non lo riconoscerai. Ma perché sarà diverso a ogni risveglio.
Le prime auto da corsa sfilarono che non era ancora l’alba. La notte lacerava certezze.
Fantasmi accompagnavano il ticchettio che reggeva il mondo
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