La victoria estratégica. Fidel Castro
Havana, August, 10th 2010
L’isola grande mi cammina dentro mentre cedo la mano alla lusinga della speranza. Perché certi luoghi, certe persone sono compagnia silenziosa anche tra le pieghe di una cartina geografica o nella sigla di un biglietto aereo.
Cuba è uno di quei posti. Con la sua storia che tutti credono a grandi linee di sapere, che alcuni associano a luoghi comuni, che altri coniugano con la politica.
Se devo dare un colore a quest’isola è il verde e non il rosso.
Se devo dare una faccia è Fidel, non il Che.
Un’isola che si sposa e divorzia continuamente con i suoi grandi contrasti, natura patrimonio dell’Unesco, e un embargo che la piega da quasi cinquant’anni, povertà decorosa e alberghi a cinque stelle, la bottiglia di rum appoggiata al bancone dei locali come da noi il bricco del latte.
Camminando per l’Havana in un pomeriggio dopo la pioggia mescolata tra i turisti, ripercorrendo la storia di un quarto di secolo passata sulle case coloniali, tra le auto che regalano l’ebbra sensazione di un salto nel tempo, resto a un tavolino del Floridita a sorseggiare una bevanda a base di cocco e rum, ripercorrendo l’eterna rivalità patinata e ambrata tra Havana Club e Bacardi. Una guerra affascinante fatta di marchi registrati all’ombra del lavoro nei campi infiniti di canna da zucchero.
Fuori scorre la città vecchia, brulicante di gente, anche sotto la pioggia.
Mi incammino guardando il cielo farsi più chiaro verso il tramonto.
Imbocco una piccola calle e affaccio lo sguardo nella sala vuota di un ristorante: le pale del soffitto ronzano veloci, alcune cameriere sedute ai tavoli asciugano le posate e le ripongono in bell’ordine, tenendo lo sguardo fisso al televisore. Mi fermo, entro scendendo un paio di gradini e resto anch’io rapita dalle immagini, Fidel Castro, camicia verde d’ordinanza, presenta il suo ultimo libro a un gruppo di giornalisti venezuelani, una donna, alcuni uomini, di cui uno con la benda su un occhio.
La victoria estratégica, è il titolo di un volume di 900 pagine, corredato di foto, copie di documenti, al di là del credo politico o di come la si pensi, un pezzo di storia.
Per un attimo mi domando se sia un vecchio filmato, ma Fidel parla dei recenti incendi che hanno colpito Mosca.
Il comandante segue il filo dei suoi pensieri e sostiene: “La comunicazione è l’arma della rivoluzione” definendo “un periodo speciale” la rivoluzione, ma anche un grande sacrificio.
Sorrido pensando a come il passare del tempo modifichi le apparenze, segnando un volto di rughe, per esempio, ma non può cambiare il cuore.
Lui, l’uomo che ha lottato per “Cuba libre”, imbracciando fucili, infiammando le masse, sicuramente commettendo errori, e come lui stesso ha scritto, “la storia mi assolverà”, oggi combatte a parole la sua personale rivoluzione, la sua battaglia contro il tempo. Evocando il passato tra le pagine del suo libro, la sua vita, dalla lettera scritta da bambino a Roosevelt, ai giorni al Pico del Turquino.
Pagine che scorrono tra le dita, un giorno dopo l’altro, il tempo del ricordo, dove la parola è la sua arma.
“Il mio problema è il consenso del tempo. La nozione del tempo è sparita. Il tempo è un’invenzione dell’uomo” dice.
E mi piace pensare che consacrando le grandi conquiste al tempo entrano di diritto nella leggenda, sono fatte della stessa materia dei miti.
Per due ore il canale venezuelano trasmette le immagini di Fidel e le sue parole.
Osservo i pochi avventori come me fermi, in piedi, sulla porta che ascoltano, le cameriere che intercalano sospiri alle parole di quello che era un affabulatore di pensieri. Anche se la messa in onda dell’intervista avrà fatto saltare la quotidiana puntata di una telenovela sudamericana.
Finchè la giornalista, riprendendo le parole di Fidel, chiude ricordando che i tempi televisivi hanno uno spazio e che è stato ampiamente superato. Tutti ridono.
Esco che si è fatta sera.
L’indomani mattina sul Granma, il quotidiano di Cuba, si annuncia la presentazione del libro di Fidel Castro.
All’aeroporto Josè Martì acquisto una copia del volume. Che ha un peso, non solo per il numero di pagine, ma perché evoca giorni di morte, di paura, di lotte, di qualcuno che ha creduto che, “Sì, se puede”
Un uomo che non si è piegato a una guerra più grande, dove Cuba è stata una pedina.
E dopo 50 anni, dopo che all’ONU 182 su 191 paesi hanno votato contro l’embargo rimanendo un grido inascoltato, al di là di quello che può essere il credo politico, nella comodità delle nostre vite appena scalfite da quello che la TV porta per pochi minuti nelle nostre case, dalla guerra nel golfo come un video game, ai morti di Haiti, dagli sconvolgimenti climatici alla caduta delle torri gemelle, c’è un posto nel mondo che per la volontà di pochi subisce da anni il giogo dell’embargo.
È giusto che qualcuno decida per un paese, umiliandolo e attendendo la caduta della Fenice?
È giusto che dopo che è caduto il muro, dopo che Mandela ha lottato per la libertà dell’uomo, Cuba sia ancora colonia politica?
No.
Per questo dico,
Viva Cuba Libre.
E che sia libertà dall’embargo.
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