In Frave
“La casa la fece costruire il Gran Masten alla fine
del Settecento quando divenne un particulare, qualcuno che aveva terra di suo,
buoi, mucche, galline e conigli e tante moggia da avere bisogno di altre
braccia.
(…) la lunga sequenza di stanze una appresso all’altra.
Una costruzione a due piani più il granaio dalle finestre schiacciate a diretto
contatto con il tetto, il fienile e le stalle si allungavano di fianco fino ad
arrivare alla strada.”
Rosetta Loy, Le
strade di polvere
La
telefonata arriva nel primo pomeriggio a interrompere il nulla che le ore di
afa costringono a una siesta forzata, le pale del ventilatore a soffitto
giravano l’aria e il vecchio pendolo scandiva lo scorrere del tempo.
-Cugina!-
-Robertino?
Che sorpresa.-
-Solo
tu ormai mi chiami Robertino.-
-Dai,
che mi telefoni solo per sentirmelo dire. Che mi racconti?-
-Ho
comprato l’ultima quota del casale in Frave, ora è mio, voglio ristrutturarlo e
farne un agriturismo.-
-Me
lo faresti rivedere prima di iniziare i lavori?-
-Quando
vuoi.-
-C’è
ancora la fermata del treno a Sant’Anna?-
Ride.
-Sì.-
-Domani
pomeriggio? Mi vieni a prendere alla stazione?-
-Sarò
lì.-
La
campagna mi scorre dal finestrino, assolata di grano da mietere e vigne,
colline dolci e terra bianca di tufo.
Il
treno si ferma in una piccolissima stazione di mattoni rossi con le finestre
sbarrate e i vetri rotti, come bocche spalancate e un urlo appeso a un quadro.
Tutto è immobile, solo il frinire delle cicale, il lontano abbaiare di un cane
e questa locomotiva ferma, come in un libro di Baricco.
Robertino
è appoggiato alla portiera della sua auto con le braccia conserte, gli occhiali
da sole, le maniche della camicia arrotolate al gomito e i pantaloni scuri. Mi
viene incontro sorridendo. Ci abbracciamo.
L’auto
lascia presto la strada asfaltata per imboccare il vicolo di sabbia e polvere
che attraversa la campagna. I pilastri del grande cancello con i battenti
aperti, avvolti dai rovi e dall’edera, ci accolgono.
“In
Frave” ha resistito la scritta in pietra.
Ci
fermiamo nel grande cortile. Oggi la casa mi sembra più piccola, o forse siamo
noi che siamo cresciuti. Il grande tetto spiovente copre tutto il cortile
interno e la balconata del primo piano, la pantalera. Il pozzo con il secchio
arrugginito sulla destra, il fienile, le stalle, poi la grande vigna.
Robertino
prende le chiavi dal cruscotto.
“Topo, topolino…dov’è
la chiave?
Sotto il trave.
E il chiavino?
Sotto il cuscino”
Usciamo
nel sole, le nostre ombre ci seguono docili. Quando apre la porta i ricordi ci
vengono incontro e nessuno dei due parla, un nodo stringe la gola mentre
attraversiamo le stanze che si aprono una dentro l’altra, come un caleidoscopio
chiaro-scuro di ombre. I nostri passi sono l’unico rumore, insieme al tubare
delle tortore.
La
grande cucina, il camino, e con gli occhi dei ricordi riempiamo i vuoti
rimettendo a posto i mobili che non ci sono più, come in una casa delle
bambole.
Ecco
il tavolo e le sedie, dove si sedevano i grandi, la porta della cantina che
odorava di muffa e di vino, nonno pipa
seduto con una coperta sulle ginocchia. Chissà perché i vecchi hanno sempre
freddo, anche d’estate.
Saliamo
la scala che porta al piano di sopra, il lungo corridoio che percorrevano di
corsa, perché avevamo paura che qualche “mostro”, della nostra fantasia
bambina, tirasse fuori una mano da quei mobili scuri e ci afferrasse.
Ricordo
la punta bianca delle mie scarpette con il fiocco blu, e una gonna rotonda,
come la corolla rovesciata di certi fiori di campo.
Usciamo
sul balcone.
-Vedi,
laggiù vorrei fare la piscina.- dice a un tratto Robertino, strappandomi ai
ricordi.
-Certo
avrai da fare molti lavori.-
-Lo
so. Ma queste vecchie case se non ricevono manutenzione poi finisce che l’odio
le butta giù.-
E
so a cosa si riferisce. A beghe di eredità, di una casa frazionata come un
puzzle, a eredi che non vogliono vendere, a case che alla fine crollano.
-Come
sta tua sorella?- domando.
-La
cura che hanno provato a Grenoble pare arresti per un po’ la malattia. Ma è un
processo degenerativo.-
-Lei
ti ha venduto la sua quota?-
-Sì.
Avevo già la maggioranza della proprietà, dopo la morte dello zio, non le
conveniva farmi la guerra.-
E
penso alla tristezza di certi funerali che facciamo per i vivi, ai rami
tagliati dell’albero genealogico come il reattivo del’albero di Karl Koch.
-E
tu? Come stai?- mi chiede.
-Sto
bene.-
Lo
guardo, mi guardo, le rughe che accarezzano gli angoli degli occhi, come chi è
sopravvissuto a una pestilenza, portavamo addosso le cicatrici della vita, come
bolle di vaiolo.
Poi
scendiamo e tira fuori dalla ventiquattro ore i progetti di come verrà quel
B&B che affaccia sulle Langhe.
-Ti
va un caffè?- mi chiede.
Annuisco.
Risaliamo
in auto e mentre ci allontaniamo il vecchio casale si fa piccolo nello
specchietto retrovisore, fino a scomparire, l’ultima immagine che mi balena
dalla porta dei ricordi è dei grandi che ballano nell’aia, una festa di
matrimonio e noi bambini che giochiamo a nascondino.
Le
cose più belle, le abbiamo già vissute.
“Solo
ciò che si racconta vive” mi torna in mente un aforisma di Lalla Romano.
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