domenica 20 maggio 2007

Malaika, makuti, mangrovie



- Dalla moschea di Kilifi

le preghiere si librano

entrano con me nella duka

a comprare zucchero - Kuki Gallmann



È una notte di Dicembre, che disegna merletti di ghiaccio ai vetri delle finestre.

L’aeroporto è quasi deserto, il buio riflette le immagini dalle grandi vetrate, il cielo è sereno quando salgo sull’aereo.

Dieci ore disegnano la rotta perfetta in verticale, sino a incrociare l’equatore, sulla terra d’Africa.

La notte sfuma leggera su un’alba all’equatore che non smette mai di sorprendermi:

una striscia di fuoco che taglia nettamente l’orizzonte.

Appesa al cielo la luna nuova africana

e

diecimila metri sotto di noi ardono i fuochi dei villaggi,

il cuore pulsante del Kenya che veglia.

È finita anche la notte più nera, sta nascendo il sole

e i cirri, con i loro pennacchi bianchissimi, si diradano nel blu.

L’aereo buca le nuvole e lo sguardo si fa abbraccio dell’ansa della laguna di Mombasa.

Fuori dall’aeroporto l’aria è umida, volano alcuni corvi tra gli alberi di Mango.

Appoggiata al sedile della vecchia Jeep osservo lo spaccato di vita quotidiana che mi viene incontro.

C’è traffico mentre attraversiamo il ponte, la gente scalza cammina nella polvere,

donne avvolte in kanga e kikoi coloratissimi,

profumo di frutta esotica al mercato.

I vestiti si appiccicano alla pelle, schermo con la mano la luce del sole,

mentre acquisto verdura e frutta, contrattando stancamente con i venditori.

L’aroma di spezie, le mosche sul pesce, il colore del nettare di frutta che imputridisce,

le facce sudate, e il cantilenare di una lingua che amo, lo swahili, dal sapore arabo.

Mi affaccio al negozio di un indiano, la duka è in penombra, la polvere aleggia sulla mercanzia più varia, stoffe, alimentari e oggetti cesellati in argento sotto il bancone di vetro convivono.

Compro del caffé, una miscela che arriva da Nairobi.

Fabrizio vive qui da anni, ha la pelle del colore della terra del Kenya, la testa di un elefante in osso, finemente lavorata, sulla cintura dei pantaloni kaki, e una sahariana aperta sul petto.

Ripartiamo senza dire tante parole, uno sguardo alle guglie della Holy Gost Cathedral,

poi l’ombra assente della foresta di baobab spogli in questa stagione.

Arriviamo all’imbarco per il ferry-boat che ci traghetterà sulla strada per Ukunda e poi Diani.

Una lunga fila di uomini e donne carichi all’inverosimile attende, con il loro carico di disperata povertà.

Ambulanti vendono schede telefoniche Kencell e copie di Taifa Leo, tenendo gli scellini arrotolati nelle mani.

Paghiamo il passaggio e saliamo sul ferry.

Fa caldo, dal finestrino entra l’alito umido di mezzogiorno, socchiudo gli occhi e li riapro, un ragazzo con la T-shit dei Metallica, biciclette appoggiate al parapetto, mentre il ferry attraversa lentamente il braccio salmastro di mare.

Malaika, questa malinconia che si diffonde con le note della radio.

Mangrovie, dalle lunghe radici e foglie impolverate di sale.

Come formiche scendono dalla parte opposta e ripartono, verso orizzonti lontani.

Sfilano donne avvolte nei chador, aroma di hennè sulle mani.

Poi la strada scorre via veloce, tra palme e baobab.

Un posto di blocco con rudimentali strisce di ferro con i chiodi, Fabrizio rallenta,

i poliziotti lo salutano,

la strada riprende.

Makuti i tetti degli alberghi, delle case e Diani si stende in spiagge bianchissime, dove già sento il ruggito dell’oceano

sulla barriera corallina.

Passiamo davanti al Blu Marlin fishing club, ma questa è un’altra storia.

Stanotte, cercherò il disegno di quattro stelle, la Croce del Sud



Cris 22.12.2003

Nessun commento: