Karibu, Kwaheri
“In un salotto una vecchia signora parlava della sua vita. Era disposta a viverla tutta di nuovo per dimostrare che aveva vissuto saggiamente. Sì, pensavo io, la sua vita è di quelle che bisogna vivere due volte prima di poter dire che è stata veramente vissuta” Karen Blixen
Lo sguardo si fermò sulle collane vicino alla foto nella cornice d’argento: volti amici mascherati sullo sfondo di Venezia, una fetta di campanile.
Quanto tempo era passato e quanto era lontana l’Italia in quel momento.
Iris stava seduta sul bordo del letto le arrivò ovattata la voce dell’amica:
“Ma come? Non sei ancora pronta”
E così dicendo afferrò la gruccia con il vestito, facendo ruotare in giro di valzer le rose sulla stoffa.
I pensieri andarono a un altro ricordo.
Era l’ultima notte dell’anno.
Come era curioso, era Dicembre ed era il tempo giusto.
Ma durante l’anno quante occasioni si presentavano per rifesteggiare quella notte. Ogni volta che qualcuno tornava, ogni volta che si aveva voglia di incontrarsi.
E capitava così che si festeggiasse capodanno in primavera, o in qualche calda notte d’estate, questo dava loro l’illusione di aver imbrogliato il tempo, solo lo specchio si faceva impietoso sulle rughe e gli anni che passavano.
Avevano scelto l’Africa, qualcuno già si conosceva dall’Italia, altri amici si erano aggiunti, lasciati, ritrovati sul cammino e le loro case sulla costa con le lanterne cinesi accese la sera erano il rassicurante “Benvenuto”, Karibu, in Swahili.
Iris si vestì e attraversò l’ampia cucina, era curioso come le persone che c’erano state, avevano ancora un loro posto nel suo campo visivo, come calchi di gesso a Pompei.
L’aura che ognuno di noi lascia, un cuscino sgualcito, una gardenia sulla porta, il movimento degli scacchi, una mano che afferra un libro tra cento altri. Gli abbracci.
Passavano tutti di là, questo era curioso e sedevano al grande tavolo di noce che si era portata dall’Italia, venivano per una cena, per un consiglio, per ridere o per piangere e la casa li accompagnava con la sua benedizione.
Iris fece scorrere la mano sulle venature del legno, come vene sulla pelle.
Candele e giochi di luce, il profumo delle jacaranda e dei frangipane e quella tovaglia con le stelle di Natale che stonava in piena estate ma era il loro modo di augurasi “Buon anno”, perché prima non era stato possibile.
Ma quella notte era davvero il 31 Dicembre e chi era lì sarebbe andato al Mnarani Club.
C’erano molte persone e l’aria calda della sera africana avvolgeva con la dolcezza struggente di un kanga.
Le persone andavano e venivano, liquide nel suo bicchiere di vino e bollicine.
Anche i gesti delle persone o le loro manie o i loro difetti, fanno parlare di loro prima ancora di vederli.
Così faceva quella giacca fuori posto sul bracciolo di un divano.
Ne accarezzò il taglio con lo sguardo e sollevò gli occhi tra la gente fino indovinarne il profilo, di spalle, e sentirne la risata, come pioggia d’estate crepitante sulla terra arsa.
Iris appoggiò il bicchiere vuoto su un vassoio.
Si voltò e uscì.
Le voci della festa le arrivavano ritmate dal fragore dei fuochi d’artificio.
Mezzanotte che passa un anno e se ne va.
L’oceano ruggiva, giù sulla barriera corallina e la luna nuova africana dondolava tra le palme.
Kwaheri recitava l’insegna, Arrivederci.
Camminò sino alla sua casa.
Lentamente. La distrasse un bussare lieve.
Mentre guardava le rose sul vestito, pensò a giorni andati, ad altri fiori, per giorni tristi, per giorni dove Kwaheri faceva un po’ meno male di addio. A giorni di morte, che l’Africa a tutti quanti aveva chiesto il suo prezzo. Mesta la questua che tutti avevano pagato, l’assenza era il velo che scendeva come ad Amboseli, la nebbia, celando il Kilimangiaro.
Si affacciò alla finestra entrò il sole e il profumo di frangipane, come quella volta, Iris pensò, come ogni volta c’erano tutti, giù nel suo prato, nella sua casa che riecheggiava delle voci amiche.
C’erano in giorni di festa e muti in giorni di dolore.
Tornavano, a ondate e sedevano al suo vecchio tavolo di noce, dove sedeva anche lei, anche sola certe sere con un kanga sulle spalle, i cani con il muso appiattito sul pavimento drizzavano le orecchie quando avvertivano il rumore del vento fuori sulla pianura.
Il tè nella credenza e storie da raccontare, quando si tornava da Tsavo.
O dal lago Baringo, anche nei suoi ricordi restavano quei fenicotteri rosa in equilibrio perfetto, perfetto come bambole di zucchero su una torta di compleanno.
L’amica si affacciò alla porta, Iris fece scivolare la mano sul vestito.
“Andiamo? Non credo ti aspetteranno ancora a lungo”
Sul comò restava la foto del carnevale a Venezia, ma sembrava un’altra vita, le travi del tetto makuti avevano ancora l’impronta di chi le aveva tirate su, ad arte, come fosse una cattedrale, quella casa in Kenya.
E la casa conservava l’aura di chi l’aveva attraversata, per un caffè, per un consiglio, per stare a lungo o per brevi attimi.
Iris sentiva riecheggiare i suoi tacchi mentre attraversava la cucina e quando uscì sul prato vide le sagome delle acacie, le palme, gli alberi di casuarina, e i volti di chi aveva amato, che erano lì, come per un capodanno fuori data.
Lentamente si incamminò. La distrasse una mano che porgeva una gardenia.
E ancora l’ombra di un dèjà-vu, la distrasse un’assenza. Ma sarebbe stato molto tempo dopo.
Quello era il tempo dei frangipane.
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