New York è una finestra senza tende
New York è una finestra senza tende, di Paolo Cognetti Editori Laterza
“Roosevelt Island l’isola che tra di noi chiamavamo l’isolaccia: e lì, ogni sera, fumavo l’ultima sigaretta davanti a uno spettacolo messo in scena soltanto per me, la vita quotidiana dentro i dodici piani di finestre illuminate del palazzo di fronte”
La prima volta che ho sentito la voce di Paolo Cognetti era una sera d’inverno e Radio3 Fahrenheit trasmetteva l’intervista all’autore sul suo ultimo libro: New York è una finestra senza tende, ricordo che pioveva e guardando fuori dal finestrino dell’auto vedevo specchiarsi in mare le luci tremolanti dei palazzi.
Mi ha incuriosita questa visione di New York, senza segreti, spogliata e trasparente dove la vita passa attraverso le finestre dei palazzi ed è come vedere un maxi schermo dove per cambiare canale non serve il telecomando ma basta spostare lo sguardo, viene messa in scena la vita, lì davanti solo per chi è spettatore.
Leggendo il libro avvertivo l’affetto e la familiarità con cui l’autore parlava della città, come uno che ritorna.
E mi ritrovo con un bicchiere di cartone pieno di caffè, quelli che compri da Starbucks.
Ma in fondo New York fa sempre questo effetto, come di un posto che sai di aver già visto, un déjà vu, o forse perché è stata per anni lo sfondo di film, di fumetti che ci hanno accompagnato nel tempo a renderla così familiare.
Mi ha colpito il primo fotogramma, quell’intreccio di immagini e associazioni di pensieri che fanno la tua prima istantanea di un luogo.
Io di New York sono affezionata a un ricordo, che non è il mio primo ricordo di quella città, ma l’immagine che mi ha raccontato un amico, che non me ne vorrà se la descrivo: una busta di plastica con la scritta I Love NY che sventola da un ramo di un albero, vista dalla finestra di una casetta nel Queens, e lo skyline di New York sullo sfondo.
Paolo racconta delle scale antincendio dei palazzi e le cisterne dell’acqua sui tetti, come il suo primo mattone, che a fine libro diventano cisterne arrugginite e sulle scale antincendio l’autore beve la città, nella sua tazza di caffè, come Hemingway racconta di Gotham come un buon posto per scrivere.
Gotham raccontato come nelle parole di Sulla Strada: “Io gli correvo dietro come ho fatto tutta la vita con la gente che mi interessa, perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi”
Gotham e le sue storie commoventi, come quella del pennacchio dell’Empire che sarebbe dovuto servire per far attraccare i dirigibili.
Avrebbe attirato più fulmini che dirigibili e oggi è la mano che cerca di afferrare sogni in cielo.
Perché questa città che ci racconta Paolo è l’emblema del sogno, questa città con le finestre a ghigliottina, granito e acciaio e fili come ragnatele a raccontare il ponte di Brooklyn.
Central Park come la racconta Salinger, quando si ghiaccia il laghetto, viene spontaneo domandarsi dove vanno le anatre, qualcuno le porta via, forse semplicemente volano via e basta.
Paolo fa parlare di New York dagli autori che ha amato e le loro voci si rincorrono regalando istantanee che a volte non ci sono più.
Perché New York è anche questo: un luogo dove le cose iniziano e finiscono a velocità impressionante.
Whitman, Ginsberg, Melville, Miller, Salinger, Moody, solo per citarne alcuni, raccontano un pezzetto di questa città e si fanno coperta patchwork di pensieri da tenere sulle spalle, da solo, la notte di capodanno a Time Square quando piovono le note di Imagine di John Lennon, perché in fondo Paolo ce lo spiega bene, a New York non sei mai da solo.
La città che ci racconta lontano da quella Manhattan che siamo abituati a conoscere e che personalmente amo, come pattinare a Bryant Park o fermarmi affascinata a Grand Central.
L’autore sceglie di raccontarci l’altra metà del cielo, perché come dice lui quando attraversi il Ponte è come cambiare casa o quartiere.
E cammino con le mani in tasca tra le pagine verso il molo, dove con lo sguardo si abbraccia la baia, il ponte di Verrazzano e come dice Paolo, è l’unico posto della terraferma dove guardare in faccia la statua della Libertà.
Questa città che ha fatto da sfondo ai fumetti della Marvel, che sembra le quinte di uno spettacolo, con i grattacieli così belli da sembrare irreali e quel vuoto che tutti cogliamo come una grande ferita, là dove si alzano le torri gemelle, quel giorno che la loro caduta ha rappresentato la fine dei sogni. Perché anche i sogni finiscono.
Ed è bellissima l’immagine in metropolitana della ragazza che legge un libro, guarda in basso a destra e sorride: in basso a destra per ricordare, in alto a sinistra per immaginare.
Una città che è una finestra senza tende.
E il caffè di Starbucks, freddo, nel mio bicchiere di cartone.
Da leggere.
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