Sai, Ninin
-è un giorno bellissimo
comincia da un battito.
Le ciglia si aprono
e davanti agli occhi questo spettacolo- F.Renga
1945
La neve era caduta tutta la notte. Silenziosa.
È curioso come si possa capire che nevica dall’assenza di rumori, e dal riverbero particolare della luce fioca dei lampioni sulla strada.
Con questo pensiero Ninin si alzò dal letto, camminò sul pavimento di mattonelle rosse, spiò tra le fessure delle persiane: stava nevicando. Una conferma alla sua muta domanda, o meglio al sospetto che le attraversava i pensieri appena sveglia.
Tutto il gelo salì lungo le caviglie, facendole ricordare che era scalza. Tornò nel letto abbracciando le ginocchia vicino al cuore.
La mattina aveva il sapore di legna bruciata nella stufa, accompagnata dal borbottare dell’acqua nel bollitore per il tè.
La filovia non sarebbe passata.
Ninin guardò l’abete decorato di biscotti alla cannella e mandarini, si avvertiva l’aroma di spezie e agrumi, che evocavano terre tiepide, dove il sole si attardava a lambire il mare, luoghi lontani e stranieri raccontati dal nipote Luigi che a Tripoli era stato prigioniero degli inglesi.
L’occhio cadde sul pacchetto incartato in semplice carta da pacchi, guanti che aveva lavorato a maglia nelle lunghe sere d’autunno, per ricambiare il gesto gentile dell’ispettore della finanza che aveva portato arance e mandarini dal sud.
Già, ma con quella neve la filovia non sarebbe arrivata, lasciando il peso dell’assenza come impronte sulla neve, il chiaro scuro di una vita che chiedeva i vuoti a rendere.
Ninin le mani bianche e le dita affusolate a riempire le carte e i valori bollati, a fare e rifare i conti di una piccola fabbrica di famiglia, i capelli raccolti, come si conveniva, che scioglieva solo la sera, alla presenza di un’immagine sbiadita di una Madonna vestita di azzurro, la sola ammessa a vedere quegli anni farsi maturi e poi prossimi a sfiorire, nell’abito di un lutto già imbastito nell’orlo di un altro, che sì il nero era il colore del tempo.
Stretta in un cappotto lungo, andava alla vicina bottega, in fondo alla strada, pareva un grillo, le braccia esili come zampette a portare i sacchetti della spesa, e le orme sulla neve.
Riposte le provviste nella credenza, ravvivò il fuoco e fissò una ciocca di capelli che dispettosa era scivolata dall’acconciatura.
Un grosso gatto grigio se ne stava appollaiato alla finestra appannando i vetri con il respiro.
Continuava a nevicare.
Mezzogiorno fu annunciato dal lento scandire dei dodici rintocchi.
Davanti ai portoni e nei cortili si spalava la neve.
Ninin rimestava il mestolo nella pentola e distratta guardava fuori dalla finestra, aveva smesso di nevicare, ora un cielo livido come lavanda pesava gravido sui monti e sulle distese bianchissime della campagna.
La ragazza misurava l’attesa in un’equazione con il tempo, le mani strette nella mani e lancette dispettose ad accompagnare i gesti quotidiani.
Il pranzo silenzioso intorno al grande tavolo, ora troppo grande. Ora che i figli di suo fratello si erano fatti grandi, che erano partiti. E il tempo restava come avanzo in una clessidra.
Appassire come un giglio davanti ad un altare, di giorni ad aspettare una lettera, un passo familiare, una voce conosciuta che il solo gioirne la faceva arrossire.
Così se ne andavano gli anni, fatti di speranze tra ricami e merletti chiusi nel vecchio armadio, anche loro, ad aspettare.
Le lancette del campanile alzate come braccia esultanti, dieci minuti alle quattordici, la campana del vespro.
Se ne andava Ninin con il capo coperto dal foulard nero che davvero pareva un grillo, sulla strada che portava in chiesa.
Lo stesso percorso a ritroso.
La casa avvolta nella penombra, già i primi lampioni a gettare luce chiara nel riverbero della neve.
Venti minuti alle diciassette, ora le lancette sembravano braccia arrese di uno spaventapasseri lasciato nei campi.
Lettere mai spedite, parole non dette.
Uno scampanellio destò d’improvviso l’interesse di Ninin, avevano spazzato le strade dalla neve, era il rumore che annunciava la filovia.
Afferrò uno scialle a lo avvolse intorno alle spalle, nello specchio osservò che i capelli fossero in ordine, nell’acconciatura severa. Attese, il tempo di una lettera, di passi, nella giostra di emozioni sentì il colpo del batocchio, che chiamava, urgente, tutto il ritardo e la fretta stava sotto il peso della mano che lo urtò contro il portone.
Aprendo la porta Ninin fu nella falce di luce chiara proveniente dai lampioni, era l’ispettore della finanza che controllava il deposito di zolfo.
Si scusò per l’ora, per il ritardo, per la neve.
Appose le firme al registro. Sorrise.
Ninin gli chiese di aspettare, entrò in cucina, prese il pacco con i guanti e uscì.
Allungò le mani che nel dono sfiorarono quelle di lui.
Poche parole.
Si avviarono alla porta, nell’ombra lui le sfiorò la guancia con un bacio.
Ninin rimase con la mano sulla guancia, come se scottasse di una febbre che anche nei giorni a venire il solo sfiorarla l’avrebbe avvolta come un abbraccio.
Sentì il rumore della filovia che tornava in città e mentre l’orlo nero del vestito raccoglieva fiocchi di neve portò la cesta con la legna vicino alla stufa, dove ora sonnecchiava il gatto grigio.
Una luce chiara ornava la finestra e la cucina sembrava una di quelle palle di cristallo che se agitate fanno cadere una neve finta su un paesaggio naif.
L’attesa aveva lasciato ora il passo al tempo delle domande, impellenti, che si affacciavano al cuore, alle labbra.
E volgeva il capo a sera, di un giorno bellissimo. Bellissimo.
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