sabato 16 agosto 2008

Sii dea, sii rupe, sii sarcofago. Oh mia Eniathia





“Iniziava quindi un triduo di lamentazioni, accompagnate dal suono dei flauti ricurvi e dalle urla cadenzate dei Galli, i sacerdoti delle divinità. I discepoli di Attis”
La seta mossa appena dal vento si drappeggiava sugli scogli lasciando intravedere il piccolo piede bianco. Scalza Eniathia rapita dalla furia delle onde.
Lo Scoglio del Tonno era un luogo che amava da bambino, quando raccoglieva conchiglie fossili, figlie del tempo e dell’acqua.
Le commesse del centro stavano sedute sui gradini dei negozi.
Noi eravamo invisibili.
Gli alisei modellavano le rocce sottocosta di grotte e anfratti, il rantolio del mare di mezzogiorno.
E le cicale si stavano zitte. Zitte, zitte.
I solchi lasciati sulla strada dalle ruote dei carri, le monete perse dai viandanti, canti antichi, avanzi degli dei, ossi di seppia. I passi scalzi di polvere.
Mangiavamo frutti di mare nascosti nella cucina di un ristorante.
I muretti a secco definivano i bordi della strada bianca. Si levava l’odore di fumo. Lontano, nella campagna bruciavano le stoppie. Da qualche parte un campanile piangeva. Indovinammo mezzogiorno, contando i rintocchi.
I passi scalzi sul molo, ricci di mare a pungere le dita di un bambino. I panni stesi nei vicoli, il cicaleccio delle donne. Ricordi.
Il tempo ci invecchia e le rughe spaccano la pelle come mosaici sbiaditi. Le tre Grazie a fare l’autostop sulla 16 bis.
Il fruscio delle serpi nei muretti vegliavano quel tempo dell’attesa e il veleno ai bordi delle coppe e gli spiriti arresi nei sarcofagi sul mare a far crescere alghe putride.
Le amanti che vanno a chiedere scusa anche a dio.
Sacerdotesse e schiave immolate alla parola di incensi e zolfo dalle spaccature della terra.
Egnathia si protendeva sulla rupe come fosse l’ultimo dei suoi giorni, amante ritrosa a sottrarsi alle lusinghe dell’Adriatico. Mare Nostrum.
Amante perduta Eniathia, dal nome gentile, di sesso sottocosta, incrostato in otri dei venti del sud, ora giacevano a 30 metri. Figli degli dei.
Parlavi come Neruda nei tuoi gesti attenti dopo l’amore.
Segreti fusi in statue d’oro, preghiere e sillabe a tremare parole smozzicate.
Dove giacciono oggi le bianche colonne, le tue braccia tese oh Egnathia?
La musica pioveva dalle finestre “Donna se vuoi, sai tenere in pugno anche gli eroi…”
I piedi bianchi sul limitare degli scogli, solo un attimo, poi i bambini si tuffavano nel riverbero accecante. Maschera e boccaglio per una nuova caccia al tesoro sul litorale egnatino. Come i pirati alla TV.
Tombe sconsacrate sul bordo del mare e impietoso il lavoro del vento. Ma non si cancella il tuo passo di pietra.
Ancella al vespro che si affaccia alla sera, tu sulla porta di un tempio sconsacrato: la voglia.
Sacrificami alla parola arresa. Nessun altare su cui pregare.

venerdì 1 agosto 2008

Villa Elina e “Broccolino”, nel nome del padre



Si vedeva dalla strada, non servivano indicazioni.
Era avvolta dai campi grano e capovolti mazzi di papaveri ai bordi dei fossi.
L’abbraccio protettivo e misterioso di quegli alberi grandi, pini marittimi ed eucalipti la celava un po’agli sguardi indiscreti.
La ricerca di ombra dalla calura, i giochi dei bambini, i gelati, il lavoro paziente al tombolo.
Quando parcheggio davanti all’ingresso Donna Marita è già lì, seduta sul muretto con un fazzoletto sulla testa e la mano a proteggere lo sguardo dal sole.
Ha fianchi appesantiti dai 4 figli, e gambe gonfie per la cattiva circolazione.
Mi accoglie con un abbraccio che sa di mare e torta di mele. Un po’ si commuove e scuote le mani al cielo mentre fa scivolare via il pesante catenaccio che tiene chiuso il cancello. Lei ha la chiave. Resta l’unica custode e la memoria del tempo. Di anni e segreti tra queste mura.
La ghiaia scricchiola sotto i nostri passi sul viale ombroso di Villa Elina.
Due scale laterali si alzano sulla porta principale. Le finestre sono sprangate con pesanti assi di legno, a chiudere un segreto che filtra dai vetri come pulviscolo luminoso.
Il segno pesante di chi ha vissuto qua.
Facciamo il giro intorno.
Sta collassando su se stessa la struttura di ferro della serra.
“Le orchidee non erano fiori per questa terra di calura, ma in inverno fiorivano era l’estate la loro incognita. Donna Carmen però le adorava” Marita ricorda e attraverso le sue parole alzo il lembo di una tenda pesante, il sipario calato e scuro sul passato remoto.
La cisterna dell’acqua ha lunghe colature di calcare e ruggine. Ninfe decapitate le statue di pietra avvolte di edera, di muschio e di muffa.
Qua e là fioriscono i ciclamini selvatici.
Ci sono i sigilli alle porte. Ma anche i segreti hanno le loro serrature.
Entriamo da una piccola porta celata sul muro. Donna Marita non ha solo la chiave. Ha la maniglia e la appoggia sul muro dove c’è un foro. E la parete cede sotto la pressione della mano sapiente. Mi guarda come a condividere un segreto.
Di porte così e passaggi segreti crollati queste ville ne hanno a decina e se non conosci il gioco rischi di rimanere murato per sempre in uno specchio, dietro una colonna a fare il fantasma in notti di luna piena e fuochi fatui.
La scaletta di pietra scende per una rampa poi un’altra porta e si accede alle cucine.
Rifugi di guerra, cunicoli di fuga in anni di incursioni.
L’aria è calda e ci accoglie la penombra.
Restano appesi a chiodi grossi e arrugginiti pesanti utensili curvati dal tempo e dall’usura.
Nicchie che fungevano da dispense. Contenitori scavati nella pietra.
Una sedia appoggiata al muro. Una gamba spezzata. Grosse ragnatele filano dal soffitto.
Altre scale, fino al salone di rappresentanza.
“Doveva essere sempre lucido questo pavimento” la voce di Donna Marita mi fa abbassare lo sguardo sulle mattonelle di marmo chiaro, venate appena da striature nere. Sentii per un attimo il rumore dei tacchi e la sinfonia di un orchestra del tempo che fu. Come un carillon interrotto.
Quadri bui di antenati impettiti ci osservavano.
Per ognuno di loro Donna Marita ha una storia. Qualcuno lo aveva anche conosciuto.
La storia che più amavo era quella di Elina.
Il suo quadro era appeso in quella che un tempo fu la biblioteca.
Era ritratta quando doveva avere avuto 16-17 anni. I capelli sottili biondi sfioravano le spalle. Il viso era sostenuto da un collo alto che sbucava dalla camicia austera che si stringeva sul suo petto florido. Sembrava un bucaneve appena sbocciato.
Sedeva impostata come si conveniva nei ritratti di famiglia. Un cane, un setter stava molto più quieto ai suoi piedi.
“Era un’irrequieta. Si innamorò di un giovane squattrinato. Ma lo fece per far la ribelle, perché si annoiava tra cipria e balli in giardino. Scappò con lui e andarono in America. A Broccolino”
“Brooklyn, Donna Marita. Era Brooklyn”
“Eh. Io cosa ho detto. A Broccolin”
Rido, e un tintinnare di argento e calici mi fa voltare. Da una finestra rotta entra una folata di vento che fa oscillare il lampadario di cristallo.
Marita mi osserva di sottocchio un po’ offesa. “Posso continuare o non vi interessa?” domanda.
Faccio cenno di sì con il capo.
“Ah, la famiglia non si riprese mai da quel gesto. La signorina Elina, l’unica che portava il nome della trisavola, finire così. Immigrata a vendere il pesce dall’altra parte dell’oceano”
“Ma non tornò più qui?”
“No. Il padre l’aveva ripudiata. Non potè tornare, nemmeno per il funerale. Una volta le cose andavano così.”
“Chi l’ha dipinta? Il pittore intendo, è ancora vivo?”
Donna Marita ci pensa un po’ su, poi fa cenno di sì con il capo.
“Ma è vecchio. Vive in una casa di riposo. Ha l’alzaimer”
Mentre torniamo indietro sento pesante il ricordo, un po’ di malinconia che non riesco a spiegarmi.
Le porte si chiudono dietro di noi. Ma i ricordi, il loro parlarne, il risvegliarsi di anime, mi fa compagnia mentre entro in casa di Marita.
Ora è in pensione. Era stata a servizio della villa quando era giovane. Mi offre una fetta di torta e mi dice di farmi vedere più spesso, che alla sua età non si sa mai.
Decido di tentare e cerco il pittore del ritratto.
L’inserviente della casa di riposo mi accompagna nel giardino. Un signore magro, con pochi capelli bianchi e gli occhi attenti osserva altri anziani giocare a Burraco.
“Signor Fiorenzo, c’è una visita per lei”
Mi osserva incuriosito. Decido di andare subito al dunque. Gli racconto di Donna Marita, di Elina e gli domando se sa dove vive e se è ancora viva.
Sospira. E un sorriso scopre i denti mancanti.
“Quanto tempo. Lei mi fa ricordare quanto sono vecchio” sospira ancora, tossisce, si guarda intorno con fare cospiratore e poi mi dice: “L’ultima volta che venne qui fu per la festa della Madonna, l’8 Settembre. Ci vengono ancora gli americani. Cioè quelli che da qui sono emigrati.
Era una bella donna distinta. Il marito era diventato un pezzo grosso, là in America. Erano partiti come pescivendoli, poi il mercato passò nelle sue mani. Eh, che bella soddisfazione. Aveva perso la villa e i suoi tesori, che per me altro non erano che debiti accumulati e la facciata di apparenze.”
Poi si interruppe, fu scosso da una tosse violenta.
Riprese: “L’ultimo indirizzo che ho è 46 Broadway & Rector St a Nuova York”
“È sicuro?” domando.
“Certo, sono vecchio, ma il passato me lo ricordo bene. So che pensano che sia malato. Alzaimer lo chiamano. Ma a me sta bene così. Non devo preoccuparmi troppo in questo modo. Alla nostra età qualcosa lo dobbiamo pur avere. A me han dato questo Alzaimer.”
Resto ancora un po’. Quando sto andando via mi raggiunge la sua voce: “Ci andrà? Andrà a Nuova York?”
Torno indietro e lo guardo curiosa, “può darsi” rispondo vaga.
Fiorenzo annuisce. “Entri al Flatiron c’è un quadro che le piacerà all’ingresso”
Sento che sa molto di più di quello che mi dice, come sa bene che si è guadagnato un’altra mia visita.
Mentre lascio questa terra di ulivi e mare, di terra generosa e antiche ville, lo sguardo dal finestrino dell’aereo che sorvola Palese abbraccia un angolo di Italia che so gli emigranti han portato tatuato sulla pelle.
New York mi si para davanti agli occhi mentre il taxi percorre la strada dal Queens.
Manhattan, è la mia isola che non c’è, un posto magico.
Il cielo è chiaro, dalle feritoie sull’asfalto le fumarole si levano come anime inquiete.
Mi fermo a comprare un hot-dog. I miei preferiti sono su Canal Street, ma anche qui nella zona di Wall Street non sono male.
L’indirizzo è vicino a Trinity Church.
Ho un tuffo al cuore, c’è davvero il nome di Elina.
Mi apre la porta una cameriera orientale e mi spiega che la signora Elina è al piccolo cimitero attiguo a Trinity Church, va sempre lì a dare il pane secco ai passeri.
Quando la raggiungo non ho dubbi. Il collo alto avvolto da rughe come collane di perle. I capelli bianchi, le braccia coperte dall’intreccio di vene sottopelle. Un bucaneve avvizito.
Le parlo in italiano.
Mi propone di prendere una bibita. Ci sediamo in un locale all’aperto.
Non bado all’espressione curiosa del cameriere quando domando due limonate. Né agli sguardi stupiti degli avventori che mi vedono parlare da sola.
Prima di tornare in Italia entro al Flatiron.
Un portiere mi saluta ossequioso.
Scorgo un quadro. O meglio, una finestra. È Villa Elina. C’è una coppia ferma sul cancello. E nel viale giocano dei bambini, sullo sfondo una festa. Riconosco Elina in quella coppia, e indovino sia il marito l’uomo che le è accanto.
Anime.
E Broccolino, nel nome del padre.
Mi incammino lentamente verso la villa, la ghiaia scricchiola sotto i piedi.