Intercity notte: Bari centrale
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Le colline addolcivano il paesaggio, smorzando gli spigoli dei cipressi e delle parole non dette, dette troppe volte, avanzi di frasi nelle tasche, come vecchi scontrini all’uscita di un caffè.
I fiori dei peschi e i mazzi di ginestra accompagnavano il sentiero di terra sterrata, fatta di polvere di gesso, come i pensieri di creta, mutevoli nelle tue mani.
Attraversavo la campagna, come altre volte, ogni volta per tornare. E allora c’erano giorni fatti di pioggia negli ombrelli rovesciati, e foglie d’autunno, e giorni chiari e corti bianchi di neve. Giorni di grano e di notti lunghe con un papavero al posto del cuore.
La tua casa è là, appoggiata su una collina e da quella finestra grande ogni volta che mi affaccio mi stupisco di non trovare il mare sull’orizzonte. Questo mio pensiero ti fa sempre ridere.
Questo posto è come un soffione, sembra che il vento lo possa dissolvere e frangere in mille particelle, come un caleidoscopio di luci e ombre dove riposare.
Chiudo tra l’indice e il pollice, l’indice e il pollice un rettangolo bucolico che attraversa lo sguardo come cavalli al galoppo, mentre tu parli di una nuova musica, di parole sedute su un pentagramma come rondini pronte a volare.
Dalla camicia aperta l’iniziale di un nome appesa al collo, ne ripasso lenti i contorni sulla tua pelle.
Poi viene la sera, piano, annunciata e pianta dal tramonto, imbastita nell’orlo della notte con l’imbrunire.
Mentre guardo fuori dalla finestra, il riflesso di noi, come al di qua di uno specchio, in una bolla di vetro, come quelle sulle bancarelle dei turisti. E ti chiedi questo posto dov’è. A sud di ovest.
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Ci sono posti dove non è mai inverno, sarà perché qui le case hanno il colore degli agrumi, muri sfumati di limone e mandarino. E sarà perché i mandarini li puoi raccogliere ogni giorno, giù sul corso, aspettando il carnevale dei limoni.
Qui i tavoli dei caffè all’aperto ti accolgono a colazione con l’abbraccio morbido dei croissant appena sfornati e le montagne ti proteggono dal vento freddo.
Un mazzo scalzo di lavanda sta sulla finestra dove dorme il gatto, una ciambella al sole.
Qui in questa terra di Provenza e mare azzurro, mai nome fu più indicato per la costa che bagna, amo camminare tra i pensieri guardando il volo dei gabbiani e cercando un punto all’orizzonte, il faro di Menton della laguna di una malinconia in un tempo che piano volge a primavera.
Come queste case dai muri sfumati di limone e mandarino.
Così ti incontro dopo il giro strano di corse e di deserti. Perché a Parigi sarebbe stato scontato, mentre qui in questa terra dove il tempo scorre con lentezza e mi piace giocarmi il tempo di un caffè imbastito con una cena affacciati su una luna d’argento appoggiata sul mare.
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Barcellona
Ci sono posti che si affacciano nelle nostre vite, luoghi che restano impressi, come fotografie, che vivono nel ricordo, un mimo, la gente, gli ambulanti e le rose.
La Rambla si apre davanti a me, srotolando chilometri di messaggi che attraversano terre straniere, fino al confine di un’assenza.
Che pesa nel mio zaino, peraltro quasi vuoto, stamattina, uscita di fretta dal mio albergo in Plaza Real. La metropolitana, un’amica, il suono del cellulare che annuncia il tuo buongiorno, tra un cappuccino che mi manca e una poesia di Neruda.
I giorni dei libri e delle rose
È la festa di Sant Jordi.
Le fontane alzano un velo d’acqua che attraversato dal sole regala un caleidoscopio di arcobaleni.
Piove su noi una musica gitana e il volo di tortore mi fa alzare lo sguardo al cielo, tra le linee morbide di questi palazzi.
Tu, architetto ingrigito a seguire le linee di fuga verso pensieri orfani di parole. Tu che parli così poco.
Ci sono posti che restano dentro di noi, nel brandello di memoria, come una bandana legata al polso.
Oggi mi è venuta in mente Barcellona mentre corro sul lungomare, la musica in cuffia, le palme, il venditore di palloncini e quello delle rose, mare a sinistra, come consiglia un amico.
Corro e per la prima volta la avverto, la rabbia.
Sale nei muscoli su fino alla gola, che fa male pure respirare.
Stringo i pugni e corro, il mare oggi ha qualcosa di speciale, è immobile, sembra un lago, con le nuvole viola, sfilacciate come segmenti di pensieri, liberi.
Corro fin quando vedo il sole che buca le nuvole, un volo di gabbiani. Mi fermo, per riprendere fiato, le mani sui fianchi, un aereo solca il cielo con la sua scia, lo guardo per quello che è, solo un graffio nell’anima.
Mi giro, riprendo a correre, la città vecchia si sta svegliando tra le sue cupole e le linee ardite dei campanili. La rabbia è stato il prezzo della mia libertà. Ora, finalmente. Viva. Mare a destra.
Perché verranno altri giorni.
I giorni dei libri e delle rose
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E ho visto cose riservate ai sognatori,
ed ho bevuto il succo amaro del disprezzo,
ed ho commesso tutti gli atti miei più puri.- Jovanotti-
La sera aveva acceso la città di luci.
Passando per Central Park Viola teneva le mani in tasca e la musica in cuffia.
Viveva al 40 di Madison Avenue, vicino al Flatiron.
Un caffè a Little Italy con un vecchio amico che le venne incontro porgendole un vaso colorato con una piantina di basilico. Al posto delle rose.
Dissacrante.
Ci sono giorni fatti per essere ricordati con un cerchi sul calendario. E un numero. Da tenere dietro alla porta e giocare sul cuore.
Così, dissacrante.
Come la pelle vestita solo di parole.
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Ogni volta che parlo di te
tu fai parte o non parte di me
ogni volta che piango per te
tu fai parte o non parte di noi -A.Venditti-
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Il vecchio faro stava appoggiato sulla riviera di levante, incrostato di salsedine, con l’aspetto di un vecchio amico per le barche che entravano in porto.
La casa nel faro era piccola, con le finestre alte dove nei giorni d’inverno, quando soffiava il Mistral, il mare era pianto sui vetri.
Scegliemmo le stampe che riproducevano i quadri di Andy Warhol, a fare compagnia al vecchio buffet celeste comprato a un mercatino.
L’edera disegnava geometrie dispari intorno alla porta.
Una vecchia bandiera sbiadita e sfilacciata denunciava la nazione di appartenenza o di abbandono. Dipende dai punti di vista.
La sera il cielo non stava fermo, con quel continuo cadere di stelle e desideri da esprimere.
E quando la luna era piena la piccola strada bianca scendeva sino al mare e risaliva, nell’intermittenza della luce del faro. Per non perdersi.
A volte ancora spio quella casa dal buco della serratura: le stampe di Warhol sbiadite, il vecchio buffet senza una gamba.
E quel cielo inquieto come il mare sotto il Mistral che non ne voleva sapere di stare fermo.
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"E, infin dei conti, come dice un saggio persiano, -l'amore è una malattia dalla quale nessuno riesce a liberarsi.- Chi ne è stato colpito, non cerca di ristabilirsi; e chi ne soffre, non desidera essere curato"
P. Coelho
A Lory e Dario, “due strade incontrai nel bosco ed io scelsi quella meno battuta”, perché in fondo siamo tutti amici di Lupo...
Il tramonto aveva colorato di viola le montagne, una striscia rossa accarezzava l’orizzonte e in alto altissimo l’azzurro, una manciata di minuti prima dell’imbrunire, l’attimo più luminoso dopo il tramonto.
Il lago si beveva quello spettacolo capovolto. Capovolto come quelle sfere di vetro con un paesaggio e l’acqua e la neve, retaggio di un souvenir.
Mentre tenevo le braccia conserte, guardavo lontano, cercando una stella, ogni parte del mondo che ho visto aveva le sue stelle e le sue costellazioni, anche il taglio della luna era differente ai tropici rispetto all’equatore.
La croce del sud mi aspettava la sera fuori dalle tende, come gli ascari, come il tossicchiare dei leopardi, come quella manciata di cose familiari che fanno l’affetto.
I francobolli stranieri, i treni, la corsia di sorpasso in autostrada.
La vita srotolata con l’allegria di una tovaglia da pic-nic: un gioco, un rischio.
Ho comprato un albergo al Parco della Vittoria, andando per il Vicolo Corto, senza passare dal Via, pagandolo con i soldi del Monopoli e un intrigo con il destino, Parigi o New York, in base al fuso orario e alle mode.
La paura era l’azzardo, o forse nemmeno, la paura non esiste.
Esiste l’amore stemperato in un caffè, in una cucina lontana mille anni dei miei ricordi bambini. E la Lanterna vegliava un porto e una città addormentata sul porto.
Quel tempo dell’orologio, tre quarti d’eterno e un margherita disegnata sulla maglietta.
Lo strappo delle vele a strapiombo su un mare che non navigammo.
Lo sky-line del mio sguardo è l’orizzonte del mio pensare: agitato e come mari in tempesta solcati da galeoni fantasmi e l’anima distesa per poco, su una spiaggia bianchissima, giusto il tempo i asciugare tormenti e lacrime, che domani è già qui, il senso inverso di chi corre contro fusi orari differenti, così il tempo dura di più e puoi vivere due volte la stessa vita.
E vendere l’albergo di Parco della Vittoria per uno scoglio e due palme nell’oceano di mezzo della mia vita tra le parole e un nuovo romanzo da raccontare.
Ancora non so, se sia troppo presto o troppo tardi
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"La prima volta che bevi un te’ con uno di noi sei uno straniero; la seconda, un ospite onorato; la terza, sei parte della famiglia.” Haji Ali, il capo del villaggio di Korphe
Il deserto ha la capacità di avvolgerti all’improvviso, ti sembra di vedere ancora nello specchietto retrovisore i palazzi di Douz e all’improvviso tutto intorno è orizzonte. Senza un necessario punto di inizio o di fine.
Il sole allo zenit riflesso negli occhiali da sole, Massimo teneva il volante con due mani, la polvere si alzava intorno, coprendo con un velo l’auto, le valige, i giornali.
Iris guardava, cercava di cogliere un elemento di riconoscimento, come in un labirinto. Niente è uguale a se stesso come il deserto: eppure cambia in pochi secondi, lo stesso posto, il vento e le dune si limano, ne nascono di nuove, si cancellano i passi, ci si perde mille volte.
Il deserto.
Ricordo di ginestre, dipinte sulle tazze di quei mattini.
Tanti deserti che avevano attraversato, partendo dal Medio Oriente, lasciando quella guerra vista dalla terrazza di un hotel. Irreale.
L’aroma del tè, era il sapore sulle labbra, il bacio al gusto aromatico, immobile, ma che riconoscevi quando entravi nelle botteghe di spezie dei suk.
Su quella collina, si distendeva la terra fino al mare. La strada la conoscevano.
Sembrava anche più facile del deserto.
Bisognava camminarci, con il sole allo zenit, e la pausa per un tè. Tra sconosciuti, come con i Tuareg, tanto tempo prima.
Quando il deserto la sera era uno scialle caldo e rassicurante. Prima della notte.
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“Hai fatto tutta quella strada per arrivare fin qui
ma adesso forse ti puoi riposare
un bagno caldo e qualcosa di fresco
da bere e da mangiare
ti apro io la valigia mentre tu resti lì
e piano piano ti faccio vedere
c'erano solo quattro farfalle
un po' più dure a morire” Ligabue
Barcellona vestita di primavera nel pomeriggio rovesciato e afoso di Aprile, tra le tele di Picasso e ombrelli sfioriti dopo un temporale.
Cammino sola nel Barrio Gòtico, riflessa in una vetrina, il mio passare.
La prima volta camminarti accanto tra centinaia di persone, e passi e scarpe, sugli Champs-Élysées, arginando un’ombra.
I miei passi sulle tue orme ad Amsterdam, architetture ingiallite i pensieri come vecchie foto segnaletiche su un ritaglio di giornale, qualcosa di molto vicino al ricordo.
La mia vita è tutta in una valigia, di ricordi stropicciati, di passi scalzi che non lasciano impronte nell’anima.
“Mi sed, mi ansia sin lìmite, mi camino indeciso!” Neruda me lo raccontavi al telefono, io e Claudia sulla Rambla ad ascoltarti.
L’accenno di un tango, un mimo, la folla, i quadri e il tuo nome scritto tra le unghie e lo smalto, celato come in un mosaico di Gaudì.
Opera incompiuta, creta da plasmare, avanzo di rum nel bicchiere, buona notte alla luna e Gran Via era la strada più breve per arrivare al tuo cuore.
E per andare via?
La Diagonal, da percorrere senza voltarsi.
Chi dice che la Rambla finisce a Colòn?
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Mi duole in petto la bellezza: mi dolgono
le luci
nel pomeriggio arrugginito; mi duole
questo colore sulla nube – viola plumbeo
viola repellente; il mezzo anello della luna
che brilla appena – mi duole. Passò un
battello.
Una barca; i remi; gli innamorati; il tempo.
I ragazzi di ieri sono invecchiati. Non
tornerai indietro.
Serata grigia, luna sottile, – mi fa male
il tempo.
Ghiannis Ritos
A Manu, Cap.71
Il cielo plumbeo si faceva riflesso nel fiume che scorreva lento. Acqua di Po.
Biglietti stropicciati nelle tasche, i tacchi al passo della musica in cuffia. Manciate di coriandoli sulla strada, mazzi di papaveri, fiori di campo di un Carnevale distratto.
Quattro Re, nelle mani. E un Asso di Cuori. Figli dell’inverno
Di chi con il cuore arrotonda sempre per difetto.
Modì stava seduta vicino alla fontana e tutto intorno si chiudeva su di lei la piazza dalle linee severe e le soffitte avevano i tetti bordati di neve, come ricami alle finestre. Cristalli di freddo, merletti di brina. La sua corte dei miracoli.
Manù era il viso conosciuto tra la folla, ferma al semaforo con la mano alzata a salutare.
Il pomeriggio passava nelle trame delle tovaglie bianche dei tavolini di un bar. E il Lavazza non era solo un caffé.
“Certo che se pensavi di passare inosservata ti è riuscito male” Manù era così, dissacrante.
“Tu che di solito hai lo smalto coordinato con la borsa, sembra che ti sei vestita al buio” continuò.
Modì osservò che l’amica aveva ragione.
“Sono distratta in questo periodo” disse
Distratta,
distratta,
distratta
Si sentiva come in una di quelle sfere di vetro che se agitate fanno nevicare. Così si sentiva.
Le carte coricate sul dorso avevano la risposta, ma non sempre quello che crediamo giusto per noi è anche il meglio per noi.
L’Appeso e il Carro.
“Ragazze volete farmi chiudere?” il commento bonario del cameriere.
Come annegare certe storie in un cappuccino. Dissacrante e disarmante.
Risero.
Fondi di caffé per cercare la via. Quando il passaporto era più affollato dell’agenda, e “zaino in spalla in Costa Rica” uno di quei buoni propositi mancati.
Via San Tommaso, la gente acquistava i primi presepi, nell’aria: Dicembre.
Il tempo passava per le mani, e il fiato si faceva corto dietro una sciarpa di lana.
Ai duecento all’ora sull’autostrada della vita.
Modì andata e ritorno.
E la torre caduta sulla scacchiera di un tempo imperfetto.
Manù in quello scorrere lento di giorni tra case bianche e azzurre, la Grecia nel cuore.
Finiva la piazza e si apriva il ponte sul Po.
Suonarono a lungo le campane della Gran Madre.
Poi un rintocco sulla collina: la Gran Madre parlava e i Cappuccini rispondevano.
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Prepara le carte e le cerate che ce ne andiamo via da questa terra. Metti nel sacco un anejo, uno jen jen imbalsamato e una foglia di tabacco. Stacca quel ritratto del Che e regalalo a un turista, ora che solo un souvenir resta del sogno socialista.
R. Goracci
L’autunno stava appeso ai rami neri degli alberi come un ultimo frutto maturo sotto la pioggia battente mentre il silenzio si accompagnava tra le vie strette dei vicoli del centro, tra le case vecchie e muri color pastello che colavano il rimpianto coloniale. Odore di sigari.
Il trolley camminava docile nella mano bianca.
La bocca si faceva di fumo.
La porta del locale cigolò nell’aprirsi, i pochi avventori sollevarono lo sguardo distratto. Le pale del soffitto muovevano l’aria umida. Un complessino nell’angolo accordava gli strumenti.
Il rum nei bicchieri aveva il colore caldo di un abbraccio. Quel sapore caldo di un paese orgoglioso, di uomini curvi a tagliare la canna da zucchero, di sere a spiare la luna tra le palme.
“Ho ordinato anche per te” disse lui a giustificare i due bicchieri.
Lei spostò la sedia, appese il cappotto e l’ombrello.
Appoggiò il viso tra le mani e sorrise. Come certe Madonne dietro gli altari.
Sorseggiarono il rum nei bicchieri.
Quando uscirono della pioggia restavano solo le pozzanghere, mentre il mare allungava le sue onde sul Malecòn.
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L’isola grande stava sotto la carezza degli alisei, un quadro naif il mare color carta da zucchero, le barche pastello, da sembrare irreali, o al più un bellissimo acquerello.
La pioggia si faceva coperta leggera e teneva la gente in casa, così le sue strade erano deserte, bagnate di onde trasparenti e rintocchi di gocce. Un canto nuovo, ritmo sull’ombrello, al tempo con i tacchi. La senti? È la pioggia che sale dal mare e profuma di salsedine e di legna bruciata.
L’isola grande si raccoglie intorno alla sua piazza, le luci per la festa, i tavoli dei caffé all’aperto, vuoti. Come se tutti fossero presi da mille impegni, come l’ora della siesta, come quando un acquazzone ti sorprende e svuota le vie.
Leone se ne stava accucciato sotto la tettoia di un ristornante. Sonnecchiava.
Viola aveva l’orlo dei pantaloni intriso d’acqua e la pioggia le bagnava i piedi nudi, ma la pioggia d’estate non è mai fredda. Il cuore accordato con un diapason di un maestro d’orchestra maldestro e sbadato.
Lui stava nel suo studio. In fondo al molo.
Gli aerei atterravano, si sentiva il rumore dei motori. Quando si atterra le isole sottovento non sono altro che una manciata di scogli, perle annerite dal tempo. L’isola grande aveva la sagoma familiare di una tartaruga.
Pioveva. Ancora. Lavando via ricordi e malinconie dalle corolle chiuse degli ibischi.
Camminava sotto la pioggia che le si faceva compagna nella sua cantilena. La sua vita vergata fitta, in un passato prossimo. Che non sapeva mai se lui tornava o andava.
Lo studi stava in penombra, le finestre bagnate di pioggia e di mare, lacrimavano una vecchia canzone, la foto in cornice di un viaggio in Africa, aveva fermato un attimo, di terra rossa e elefanti a Tsavo. Tanto tempo prima.
Lui la accolse nel suo abbraccio, respirando l’umidità degli abiti e il suo profumo. Come al Café de Paris, quell’inverno che aspettava già Natale.
Stavano così, fermi al centro della stanza, lui le accarezzava la schiena, chiusi in una bolla, solo lo scroscio della pioggia sul molo che ora crepitava fitta, confondendo i contorni delle baracche sulla sabbia, delle barche, del paese in lontananza.
Pioveva forte sul molo, crepitando sulle tettoie. Ancora.
E il mondo si era come fermato.
Solo l’intreccio di mani in penombra disegnava la voglia di labbra cercarsi.
Un acquazzone si rovesciava per le vie.
Mentre l’ombrello se ne stava appoggiato fuori, sulla veranda. Chiuso.
Come gli ibischi delle aiuole della piazza.
L’isola grande respirava l’abbraccio degli alisei.
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Lui
Sei
il mio vestito della festa.
Sei
lo spazio bianco tra le righe vergate fitte e gli errori della mia vita. Vedi quello spazio ha ancora tanto da dire.
Sei
il giro di tango sensuale quando gli orchestrali se ne sono già andati. Suonano per noi le vie deserte, i passi, i petali caduti.
Sei
la mia rabbia per i tuoi anni acerbi incamminati a vedere il mondo, che io già conosco, e aspetterò paziente che tornerai a raccontarmelo.
Sei
il riso sul sagrato della chiesa, cibo per i passeri.
Sei
una stazione del mio viaggiare. E vorrei che fossi nata in tutti i posti dove andrò.
Sei
il tempo buono, nuda sul mio petto e sei anche la tempesta di occhi in pioggia, di “mai più”, di porte sbattute.
Sei
nella mia vita pur sapendo che non è il nostro tempo.
Sei
la mia debolezza, il mio peccato, il mio perdono. Il mio rimpianto.
Perché, dimmi, io e te, cosa siamo?
Lei
Noi siamo il tempo di due tazzine di caffé posate su un tavolino all’aperto, al centro di una piazza.
Zucchero?
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Il profumo del mare saliva i gradini umidi e entrava nella stanza in penombra.
L’albero di limoni sotto alla finestra mostrava generoso i suoi frutti.
Un limone, nel palmo della mano, a ricordare che il mondo è tondo nel giro inverso di passi stanchi che Viola ancora sapeva riconoscere. Li sapeva riconoscere ancora prima di udire la voce, e avvertiva i segni di un volto familiare sotto la carezza delle dita.
Passi.
Giù dal borgo dei pescatori che caparbi ancora sfidavano il tempo, rattoppando le reti in uno scampolo di Provenza posata sulle spalle, come lo scialle della sera, lo sguardo sul mare.
Di lì passava il bene e il male, il passato e il futuro.
Le strade fatte di pietra, consumate per il lento passare. Passare e passare ancora.
I gatti raccoglievano i raggi obliqui del sole che si appoggiava al tramonto.
Passi.
Tormentati sulle scale, rincorse di cuore, perdonami l’anima in un bouquet di margherite.
Danza allegra di petali, per un gioco antico.
M’ama, non m’ama.
Indovinare la voce prima che la mano si sia posata sul legno della porta, prima che il rumore delle scarpe sul tappeto dei ricordi lasci arresa l’anima. In balia delle onde quando soffia il vento di terra.
Aspettando che si alzi la luna dal mare. Viola ne disegnava il contorno perfetto.
Luna piena di Marzo.
Ora come allora.
Gli ulivi nel vento attendevano.
Lama sottile, mistero stentato, neanche Dio poteva fermarsi a riposare sulla sedia del tempo.
Uno scorpione tatuato sulla caviglia, tenuto stretto dalle maglie di un cavigliera.
Legami mai spezzati di un dio all’altare germogliato dalle mani.
Sei allacciato alle mie scarpe mentre spengo sigarette a metà su promesse mancate.
Chi sei?Che vieni al mio altare quando è luna piena di Marzo.
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La Grande Mela ha un cuore che per Natale si veste di magia. Le bocche si fanno fumo, le mani nelle tasche e improvviso si veste di luce l’albero di Natale a Rockfeller Center. Perpetuando quello che è per davvero il miracolo della 34th Strada.
Ci sono posti che ci restano addosso come un vecchio maglione, comodo, cucito sulle nostre passioni, così è New York per Martha Gilbert.
Grand Central è affollata come sempre, vestita a festa, di un tempo fatto di attesa. Mentre i treni si alternano e il tabellone di arrivi e partenze scandisce il presente. Di chi è già andato via, ma lascia nell’aria il gusto di un bacio.
Andrè la sorprende sempre, con l’aria malinconica di chi è solo di passaggio, senza radici. Come un albero di Natale che per un po’segna il passo nelle nostre vite, il quarto di secolo di un momento.
Le mani a scaldarsi sui bicchieri di Starbucks, al ritmo di un jazz ancora nelle orecchie, ascoltato a Central Park, la musica della terra, di ogni angolo di questa città che ti racconta favole nuove, ad ogni angolo di via.
Per mano sulla Quinta, nel fiume di persone riflesse nelle vetrine.
Si pattina sulla pista del Rockfeller. Giri di valzer come in una corte viennese, di un tempo antico.
“Ieri hanno acceso l’albero di Natale”
“Lo so. Ci pensavo. A migliaia di chilometri da qui. Le tue mani nelle mie, nelle tasche del cappotto”
Martha sorride. Pensando che la magia è la stessa ogni anno solo lì.
Che pensare a quell’albero che si accende da Parigi o da Milano, è come guardare una cartolina.
Che se ti allontani e da una finestra di una casetta del Queens guardi lo skyline di New York, mentre una busta di plastica agitata dal vento porta la scritta I Love NY, non è la stessa cosa. L’alchimia di quel luogo è solo lì. Ed esserci è sentirsi addosso questa città, come un maglione caldo, come due mani nella tasca del cappotto, come scoprire un angelo, dietro una sciarpa di lana.
E far nevicare da una sfera di vetro. Agitandola.
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