lunedì 25 aprile 2011

I giorni dell’oltre


- Claire: Mi spiace essere arrivata tardi.

- Lorenzo: No Claire... quando si parla di amore non è mai troppo tardi.

dal film "Letters to Juliet"

-Baghdad

Le sirene che annunciavano un bombardamento quella notte suonarono a lungo. Un ululato che tagliava il buio. Dall’albergo dove stavamo noi giornalisti la guerra veniva servita come sullo schermo di un cinema, le bombe esplodevano e bagliori verdi ricordavano un gioco di un videogame. Ma era tutto vero. E il giorno dopo ci accompagnavano a vedere, a riprendere.

Quando vivi in un posto così e la morte è come un biglietto spiegazzato che tieni in tasca, non sai domani se colpiranno il tuo albergo, se la jeep su cui viaggi salterà su una mina, se esploderà un carico di tritolo vicino a te. Quando vivi così l’amore assume contorni nitidi, forse amplificati, esce dai bordi come il colorare distratto di un bambino.

In cielo brillava la luna, era Marzo ed era quasi piena.

Ci furono giorni di tregua e giorni in cui non potevamo uscire e mandavano i nostri reportage in Italia, e parlavamo.

Parlavamo.

Di noi, della vita.

Una sera andammo a festeggiare la Pasqua sul mare.

C’era una leggenda che conoscevo, la storia di un amore che si legò sul mare, anche Neruda e Matilde cedettero a questa lusinga.

Seduti su una spiaggia che non saprei ritrovare ma che è nei miei ricordi così nitida, la mia mano nella tua e un anello buffo, da bambini, quello che in quel quarto di mondo potevamo trovare, e una promessa.

“Prometto di esserci, da adesso” la mia mano nella tua.

La tua mano nella mia: “Prometto di esserci, da adesso”

Ci aveva sposato un mare scuro, nero, ma calmo che Nettuno ci portava ai piedi, lentamente, un’onda dopo l’altra.

Che buffi che siamo in quel ricordo. La sabbia alzata dal vento era il velo della sposa e le alghe i fiori di un bouquet che si riprese il mare.

Era luna piena di Marzo.

C’era la guerra che non dava certezze che ci portava in una dimensione irreale. Il tempo dell’oltre era quello. Al di là dello specchio. Come Alice.

Quella sera mi domandasti: “Ancora non so se sei arrivata troppo presto o troppo tardi”

Come nel film, Romeo & Giulietta “È talmente tardi che tra poco dovremo dire che è troppo presto!”

Giri di parole sulla linea di fuga dell’orizzonte, discepoli sulla via di Damasco.

I sentimenti non bastano a legarsi sulla terra, e le preghiere sono poche per il cielo.

Cosa devo risponderti? Che viviamo di un tempo imperfetto, che coniugare al condizionale è d’obbligo.

Per sempre e mai, sono avverbi di tempo.

Ma dimmi, quale tempo passa tra le tue mani? Dove inizia il cerchio che cinge il tuo anulare e dove finisce?

Baghdad, stava distesa oltre l’alba, saccheggiata, violata, fatta a pezzi.

Chi avrebbe ricostruito il suo tempio?

E il mio? Candele genuflesse e nessun altare su cui pregare.

Questa guerra nel golfo è tua, io sono venuta solo perché per un gioco del destino mancava una giornalista quel giorno e io potevo partire. Senza rimpianti.

Ma ora te la lascio, questa guerra, non sono più in competizione con te.

Ho comprato tappeti che mani sapienti hanno annodato migliaia di nodi, per farne il disegno che gli occhi vedono. Tieni la kefiah legata sul capo come un turbante, come parole ridondanti e inutili. La tua personale rivoluzione delle idee.

Una bandana al polso, vecchia e scolorita, il mio passaporto per l’Europa.

Le arance, mi mancheranno le arance, di questi mercati, rosse come il tramonto che vedevamo dalla terrazza dell’albergo.

Farò scalo a Parigi, poi Nizza e l’Italia.

Dove conto di fermarmi e di scrivere.

Se mi fai avere il tuo indirizzo ti manderò una copia di questo libro. Che nel bene e nel male mi hai aiutato a scrivere. Nel bene e nel male.

Troppo presto o troppo tardi? E se il tempo non fosse giusto? Alice festeggiava i “non compleanni”quel tempo mi piace. Mi troverai lì, i prossimi anni.

Iris

Da: Lettere da Baghdad

martedì 19 aprile 2011

Passaporto per Tel Aviv


“Lei lo ha scritto, sopportando di non sentire mie notizie per mesi pur sapendomi in zone di guerra…aspettando i miei ritorni, ascoltando ogni volta le mie preoccupazioni, coccolando i miei sogni e le mie follie.

Senza mollarmi mai anche quando lo avrei capito cento volte” Gino Strada

Quella notte era stata stretta a lui per ore, fino a quando l’alba l’aveva scoperta ancora sveglia.

Avevano tutto della vita, gli anni più belli, l’incoscienza, le storie da raccontare, l’incapacità di fare compromessi, per loro la vita era bianco o nero, il grigio era per gli indecisi.

Forse solo il tempo non avevano. Il tempo di stare insieme, di approfondire, di parlarsi.

Reporter in terre di confine, di guerra, a caccia della notizia, lo scoop, per il quale si giocavano tutto, la vita, l’amicizia, l’amore.

Tutto aveva un prezzo, anche il dolore.

Mentre fuori il cielo si faceva più chiaro si strinse un po’ di più all’uomo che dopo poche ore sarebbe partito. Sarebbe tornato? Ecco, cominciava a fare la sentimentale.

Una china pericolosa dalla quale non sarebbe risalita facilmente.

Aspettava, immobile che lui dicesse qualcosa, le sarebbe bastata una parola, mendicata fino all’ultimo.

Suonò la sveglia. Si alzarono in silenzio.

Il cielo grigio dalla finestra, il caffè, da girare piano.

Massimo prese la borsa e la mise a tracolla, gli occhiali da sole sul naso scoprivano un po’ del mare agitato dei suoi occhi.

Iris stava appoggiata alla porta.

Lui portò due dita alla fronte per salutarla.

“Ciao” disse lei.

Per chi lavora in posti dimenticati da Dio, tra mine antiuomo e cecchini pronti a sparare dirsi “arrivederci” suona come una condanna, come un sinistro presagio.

Giornalisti entrambi, andavano e tornavano dalle terre di confine, insieme e mille volte da soli.

Lei restò per un po’ a soppesare nell’aria la sua assenza: il segno della testa sul cuscino, l’accappatoio vicino al suo, le tazze della colazione che parlavano di loro.

Uscì, camminando a passo svelto.

C’era un posto che amava, una spiaggia incastonata dalle rocce calcaree, figlie di una dinastia estinta, del mito e del tempo.

Guidò con gli occhi annebbiati di lacrime, e per la prima volta sentiva pesante come un macigno quella partenza.

La spiaggia era deserta, le onde accarezzavano appena la battigia, e il lungo disegno di alghe lasciava indovinare i capricci della maree.

Lei gliel’aveva regalata a Massimo quella spiaggia.

Non un libro, o un disco, o qualcosa di utile. No, al ritorno dal loro viaggio a Creta gli regalò quella spiaggia, raccontandogliela come la porta di Atlantide, favoleggiando antichi fasti.

Per chi la scommessa con la vita la tiene sempre bene in vista, quel regalo era un azzardo, qualcosa di tangibile. Come l’amore? Si ritrovò a pensare Iris.

Già l’amore, quando pensi che sia come tirare via un manifesto sperando di trovare sotto un nome, un volto, e sempre più spesso c’è solo una facciata di mattoni.

Quando tornò a casa trovò le chiamate dal giornale.

Richiamò.

Massimo era stato fermato alla frontiera Israeliana.

Qualcuno doveva fare il suo lavoro.

A lui ci avrebbero pensato poi, male non gli avrebbe fatto restare a pensare in qualche cella squallida, in un posto dove essere il nemico non è certo un lato positivo, soprattutto se sei suo prigioniero.

Iris partì, controllò il passaporto, il visto e anche lei con la borsa a tracolla si avviò all’aeroporto.

“Tu pensa solo a fare quel reportage, che Massimo lo riportiamo indietro noi” l’ammonì il caporedattore.

Sorrise. Avrebbe fatto entrambe le cose. Ma avrebbe scelto lei in quale ordine.

Lo sapevano entrambi.

Bianco o nero.

Ma sapevano che il tempo era qualcosa di inafferrabile? E ogni attimo poteva essere l’ultimo.

mercoledì 13 aprile 2011

La casa dello scultore


Più ti guardo e meno lo capisco
da che posto vieni
forse sono stati tanti posti
tutti da straniera
chi ti ha fatto gli occhi e quelle gambe
ci sapeva fare
chi ti ha dato tutta la dolcezza
ti voleva bene
quando il cielo non bastava
non bastava la brigata
eri solo da incontrare
ma tu ci sei sempre stata -Ligabue-


La strada a ritroso quel giorno sembrava più lunga, forse perché quando si torna i ricordi hanno un peso diverso e la valigia è decisamente più pesante.

Quando l’aereo toccò terra il mio sguardo seguì la linea di fuga dell’orizzonte, quel boschetto di cipressi quando arrivavo erano il mio benvenuto.

Sfilavano i luoghi conosciuti dal finestrino e avvertii la sottile morsa della malinconia, di quella luce, il verde degli ulivi e il blu del mare dove le onde gonfie di maestrale andavano ad infrangersi sulla scogliera del faro.

Tornavamo a turno da luoghi remoti e reportage assurdi, in un gioco a scacchi con la vita.

Ma tornavamo sempre, a turno, da Tel Aviv, da Baghdad, dai deserti a confine con l’anima.

E a turno uno di noi era all’aeroporto.

La casa era avvolta dalla penombra del pomeriggio estivo. Aprii le persiane, entrò l’odore del mare, di alghe e di bassa marea.

Giù al porto i traghetti per la Grecia se ne stavano ormeggiati sotto il sole, come capodogli spiaggiati.

Il pianoforte in angolo, alzai il telo che lo copriva; appoggiai l’indice su un tasto. Una nota si diffuse nell’aria. Curioso, la tua vita se ne stava tutta in un giro di do. Così simile a un no di una voce spezzata.

La mia era un si bemolle, mollemente appoggiato al tuo cuore.

Come quando ti ho conosciuto, il bosco dei violini.

Ti ho portato a vedere la mia casa sul mare una notte

che anche le campane si stavano zitte

La casa dello scultore: ne accarezzavo i calchi di gesso e di creta, ormai ruvida e rigida come la tua immobilità adesso.

I miei passi echeggiavano tra quelle stanze vuote, fuori i bambini giocavano a pallone, li sentivo correre e ridere.

Leila arrivò come arrivano le stagioni, in un giorno prestabilito, cerchiato di rosso sul calendario, di luna nuova e vento caldo di scirocco.

Il mare azzurro dei suoi occhi dietro le lenti scure degli occhiali da sole. Come lo conosceva bene anche lei il deserto.

Le parole veleggiavano increspate dai “ti ricordi?”

Lasciò scivolare le dita tra i tasti del pianoforte come la stretta di una mano. Dita e tasti. Tasti e dita.

Un intreccio.

Mi sedetti su una poltrona tirando su le ginocchia sotto al mento, il mare era al di là della finestra.

Le scarpe della sposa che avevano camminato solo quel giorno

Dopo molto tempo entrai nello studio. Non ti piaceva la luce diretta, le imposte stavano chiuse, quel giorno non mi andava di assecondarti, e il sole inondò il tavolo ancora ingombro di bozzetti, di disegni e vecchi appunti, una grafia conosciuta.

Hai, donne vestite di nero agli angoli della tua bocca. I pensieri affondano nelle rughe che disegnano il tuo viso bronzeo e scolpito nella pietra del presente.

Leila mi raggiunse.

“Dobbiamo mettere in ordine” il suo senso pratico è il coraggio di oggi, l’ottimismo per domani.

E la casa diventa un tempio di giorni, di ricordi, di progetti.

Mi hai regalato il tempo, tra le lancette di un orologio e dodici rintocchi.

Quando una voce argentina, piove su di noi, inaspettata.

“C’è un caffè per me?”

E la sera sulla terrazza affacciata al mare le note si accompagnano al tempo presente.

Apro distratta la prima pagina del libro che hai lasciato sul tavolo, e leggo l’incontro di Aleida March con il Che:

“tutto accadde perché io ero molto più innamorata di quanto pensassi: così semplicemente mi arresi, senza difese, senza dar battaglia”.

giovedì 7 aprile 2011

Departure


La valigia sul letto è quella d'un lungo viaggio,
e tu senza dir niente hai trovato il coraggio,
con l'orgoglio ferito di chi poi si ribella,
ma quando t'arrabbi sei ancora più bella.

E così su due piedi io sarei liquidato,
ma vittima, sai tu, bilancio sbagliato.
Se un uomo tradisce, tradisce a metà,
per cinque minuti e non eri più qua.
Julio Iglesias
A tutti quelli che sono partiti con me…in un modo o nell’altro

Ero in ritardo, lo sapevo giocando un’equazione tra le lancette dell’orologio e i chilometri che mancavano all’aeroporto.

La strada però era libera e mi lasciava il tempo per pensare, la distrazione che gioca la mente quando sei solo e il mondo a cui sei affezionato ti scorre a fianco dal finestrino, come quella campagna a primavera, fatta di macchie di colore e verde tenue, di cielo chiaro e nuvole lontane.

Come i pensieri in voli pindarici tra i “se” e i “ma” della vita che poi non portano da nessuna parte.

Sicuramente avevo dimenticato qualcosa nel fare la valigia, c’era anche l’equazione di presente o forse è più giusto dire di assenza fratto tempo.

L’aeroporto era affollato, come sempre, mi piace questa frenesia fatta di valigie e trolley che seguono diligentemente i proprietari, i loro passi e le strade che partono tutte per il cielo per poi risposare la terra all’atterraggio.

Quando arrivo al banco del check-in vengo accolta da un applauso, i miei amici mi prendono bonariamente in giro, per fortuna il volo è terribilmente in ritardo.

Una valigia gialla uguale alla mia spunta da dietro una colonna, chi può essere se non l’amica dell’Africa?

Guardo fuori dalle ampie vetrate e vedo gli aerei parcheggiati, gli autobus che spostano le persone e il cielo che si fa buio, solo una striscia rossa oltre gli alberi ricorda che là, a occidente, è tramontato il sole.

Andrea mi appoggia una mano sul braccio, “Tutto bene?” “Sì rispondo” e sto bene davvero.

Guardo il gruppo di amici che sistema le valigie, tiene in mano i passaporti, fa le ultime telefonate.

Penso ai casi curiosi che ci hanno fatti incontrare, l’amicizia che la vita ti offre sottoforma di incontri casuali. Come se tutto avesse un suo disegno da seguire.

Siamo qui stasera diretti a una casa a 6000 chilometri da qui, Villa Bahati. L’indirizzo del nostro lento passare. Vivere, sopravviverci.

Abbiamo tutti in salotto la stessa fotografia, in quel giardino, tra le palme e gli alberi di casuarina.

Sorprenderci e capire che questo è il momento giusto per partire.

Passiamo il controllo passaporti.

Dopo l’eccitazione iniziale, ce ne stiamo sonnacchiosi nella sala davanti all’imbarco.

Andrea e Isabella studiano una cartina geografica, ne leggo alcuni nomi e ritorno al mio libro.

Francesca misura a grandi passi il pavimento con il cellulare appeso all’orecchio.

Dario se ne sta davanti alla vetrata che riflette tutti noi come uno specchio. Lorella, lo so, ancora non le va giù che l’abbiamo convinta a non portare la piastra per i capelli.

Sorrido. Mio fratello vorrebbe fumare e gioca con l’accendino. Pam si è appisolata.

Quando chiamano il nostro volo mi fermo al bar a bere l’ultimo caffè decente con Claudia e Roberto.

Quando sono all’estero è il profumo di caffè che mi fa sentire italiana.

Apro la bustina di zucchero, appoggio la tazzina alle labbra.

“Nessun rimpianto?” la voce di Claudia.

“Sì, tanti. Ma la vita continua”

Prendiamo il bagaglio a mano, i quotidiani.

Mi hanno lasciato il posto vicino al finestrino. Appoggio la testa al vetro, ne sento la carezza fredda.

Una carezza.

Sul sedile vuoto lascio cadere la borsa. Prendo l’agenda e comincio a scrivere.

Quando la realtà supera di gran lunga la fantasia strane cose iniziano ad accadere.

Chiudo gli occhi per un po’mentre l’aereo si stacca dalla pista e punta verso il cielo.

Tra qualche ora mi sveglierà l’alba africana sopra Mombasa.

L’eterno cerchio della vita.

lunedì 4 aprile 2011

Parigi, 102 Boulevard Pasteur

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

Federica era in taxi, le mani strette nelle mani, bianche esangui e il viso perfetto di porcellana, o forse si era fatto di avorio in quel pomeriggio parigino. Invecchiato, all’improvviso.

Le labbra disegnate a cuore, come ciliegie mature, da raccogliere. La linea dell’eyeliner le sottolineava lo sguardo, a mettere in evidenza due occhi chiari, immobili come un lago.

Parigi sfilava dal finestrino mentre seguivano il lungo Senna, la Tuilerie, e la Tour Eiffel svettava in lontananza, l’intreccio morbido di acciaio a disegnarne il profilo.

Le mani strette in grembo, gli occhi obliqui, abituati al pianto, che era un singhiozzo muto in fondo alla gola, come in un film si vedeva proiettata in una realtà che non le sembrava la sua.

Un errore, sicuramente avevano fatto un errore.

Massimo non poteva essere morto.

Il taxi rallentò, svoltò a destra nel vicolo e si fermò.

La giovane donna ne scese con tutto il peso della croce sulle spalle.

Si sentiva come un attimo prima di mezzanotte, quando sai che il conto alla rovescia viene scandito da migliaia di persone, come a Time Square e poi piovono coriandoli, e parte la musica, e allora tutta quell’adrenalina, ti si scioglie in petto e non sai perché vuoi solo piangere.

Meno dieci.

Alzò lo sguardo verso la finestra dove tante volte suo fratello l’aveva salutata.

Meno nove.

Quanto ci mette il cervello a comandare alle gambe di muoversi?

Meno otto.

Le mani a cercare le chiavi.

Meno sette.

Le chiavi cadute a terra, le mani che tremano.

Meno sei.

La porta che si apre e lei che entra nel cerchio di ombra dell’androne.

Meno cinque.

Lo sguardo sale le scale prima dei piedi.

Meno quattro.

Le scale due alla volta.

Meno tre.

La porta dell’appartamento socchiusa.

Meno due.

I Carabinieri che si voltano vedendola entrare.

Meno uno.

Lo sguardo di Iris, la compagna di suo fratello: la Maddalena dopo che hanno crocefisso Gesù. Allora Federica capì e la bella maschera del suo volto di attrice si frantumò come un calco di gesso.

Zero.

Massimo disteso sul letto. La testa reclinata sul cuscino in una posizione innaturale.

Federica rimase immobile. La morte aleggiava nell’ombra, quasi a scusarsi di ciò che aveva fatto, come il vizio di un bambino distratto che fa cadere il vaso delle caramelle.

La finestra era socchiusa, il vento sollevava leggermente la tenda e i tetti di Parigi occhieggiavano, tra le soffitte e i camini. Poi c’era il cielo.

Federica tornò a posare lo sguardo nella stanza, sul tavolino: la cornice d’argento con Massimo e suo Padre sullo sfondo del lago Vittoria. Un foglietto piegato a metà. La siringa con l’ago scoperto. Le fece male il solo vederla, come la Bella Addormentata punta dal fuso.

“Massimo” le sembrò di urlare, ma la voce era appena soffocata. Le mancava l’aria.

“Massimo” questa volta gridò e le fecero male i polmoni quando l’aria li attraversò.

Poco dopo era tra le braccia di Iris: che non aveva più lacrime, solo quello sguardo di Madonna addolorata. Chi poteva consolarla?