giovedì 25 giugno 2009

Notturno per Chopin


Scatto 12

Bianco e nero.

La campagna conta i filari contorti delle viti, la pioggia appena passata e le nuvole addensate all’orizzonte. Accantonate sulla riga del cielo che si appoggia sul mare.

Là sul mare c’è una nave. La controfigura di un ricordo.

Camminano vicino sul sentiero scosceso, in basso le onde si infrangono con fragore nei giorni d’autunno, o vengono a riva una dopo l’altra, senza fine, come un rosario da sgranare.

Lui, chi ha già vissuto prima e prima ha sbagliato, consumato in cenere di sigarette appoggiato alla balaustra a scrutare l’orizzonte di parole, con la compagnia di sette note. Una musica che suona da lontano.

Un pianoforte.

Lei, di riflessi acerbi, lo sommergeva come le onde, annegando pensieri e lacrime. Che non si sapeva più da che parte fosse l’orizzonte.

Quel filo immaginario, rigo di carta musica dove appendere le note ad asciugare. Sì. Bemolle. Mollemente caduto tra le parole gravide di polvere.

Arrival-Departure

Valigie, squadrate dove mettere tutto, dopo l’amore, dopo lei che gli riempie i quarti dell’orologio, seduta in un ritardo.

Chiudere tutto, con cura, le porte, le finestre. E non lasciare impronte sulla neve.

Il glicine s’è vestito di una stagione nuova. E poi è sfiorito.

Ancora lei a riempire i quarti delle ore, con brocche riempite alla fontana della piazza, scendendo muta tra il pentagramma di un notturno per Chopin e le campane a mezzogiorno.

Le formiche attraversano in file ordinate il sentiero scosceso. Alto sul mare.

Lui aspetta. Lei aspetta.

Il tempo esatto.

Una foto scattata in viaggio verso Budapest, sull’orizzonte un temporale. Livido il cielo e un campo di scalze margherite, vestite di giallo.

P-A-R-T-I-C-O-L-A-R-I

Scatto 12

Una sigaretta.

Bianco e nero.

Un transatlantico, un Prometeo, la guerra. Forse per questo le oche gridavano forte, sotto il campanile. La scorsa notte.

Mano nella mano. Per un lunghissimo attimo.

Tanto tempo fa. Un’altra vita.

Il glicine s’è vestito di una stagione nuova. E poi è sfiorito.

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giovedì 18 giugno 2009

La luna di Manhattan



“Dall’alta finestra vedo

uomini, case, giardini,

l’arcobaleno, un trattore arancione

un gatto,

un secondo arcobaleno.

E tu?” Ghiannis Ritos

Il cielo blu cobalto se ne stava appeso come certi soffitti di cartapesta nei presepi, all’ombra delle chiese, o a teatro di tragedia rappreso anche il sangue dell’attesa.

Partenze.

Sudavano i pini e l’ombra respirava l’aroma di un mezzo pomeriggio immobile, il mare faceva capolino al fondo di quelle strade dritte a finire tra le onde.

Attese.

Sigarette tra le labbra con la voglia di spegnerle presto a perdersi in baci ritrovati. Come Doisneau. Acrylic on canvas. Come in un film. Un attimo prima dei titoli di coda, quell’ora più luminosa prima del tramonto.

Storie stropicciate di schizzi a matita e parole dimenticate su un pentagramma per un pianoforte scordato, scordato anche di noi. Non dimenticarmi mai.

Una finestra come un oblò a Manuel Antonio. Sull’oceano. Dove volgi lo sguardo?

Sai, di qui salpavano per l’America, giro di “DO” mentre ti bevi la luna di Manhattan, questa sera che il sonno tarda a venire e seguo la scia di un transatlantico, di tanti anni fa.

Una scala come un’elica, il Bristol. Il DNA dei ricordi.

Serbo ancora l’ancora da affondare in una lacrima. E due dita sul mento.