martedì 29 maggio 2007

Khan el-Khalili, lo scrigno del sultano



Kemit, il paese dal suolo nero lo chiamavano gli antichi.

Il Nilo, è il suo figlio primogenito rovescia melma fertile, il limo sulle sue sponde, ricchezza di millenni.

La foce è il cammino rovesciato, giù nel cuore dell’Africa, Kampala, in Uganda.

Nilo Azzurro, Nilo Bianco.

Suo padre, John Hanning Speke, 1862.

Seduta sulla veranda del Mada Hotel sorseggio il tè, sullo sfondo scivolano le acque del Lago Vittoria, rigiro tra le mani una scatola antica di ebano intarsiato.

È Cesellato finemente con figure stilizzate e serpenti che si allungano ai lati, e un fior di loto, emblema di una terra di fascino e mistero.

Due piccoli babbuini saltano sul tavolo e fuggono arrampicandosi su una palma. Sobbalzo, afferro la scatola per non farla cadere e, appoggiando i pollici sui serpenti, scatta un meccanismo che fa aprire un cassetto, dentro trovo un biglietto polveroso, scrittura incerta e malferma, in inglese.

Al tramonto rileggo le poche righe che danno l’indicazione per percorrere il Nilo, dicendo che il prossimo biglietto lo troverò nel paese delle gobbe ondulanti, dove le dune hanno vinto, in un negozio di oggetti antichi, nel cuore del Cairo.

Chiudo gli occhi a fessura, Khan el-Khalili, il bazar voluto dal sultano Giorkas el-Khalili.

Mi trovo nel cuore dell’Africa e sento il tam-tam dei tamburi rimbalzare i loro suoni, messaggi di vita e di morte, saluti e domande, pericoli e pace, sui fuochi da campo che già ardono sulle ore da infilare nell’ago della sera, a cucire presto la notte nel suo mantello.

Sorrido pensando a una caccia al tesoro con il passato, l’ipotesi probabile è di non trovare nulla, ma l’eccitazione di scoprire una nuova porta, al di là della quale si profila l’alchimia che pervade ogni angolo d’Egitto, dalla Piana di Giza a Saqquara, dalle Moschee ai Bazar…

Arrivo a Kampala e con una feluca seguo il senso inverso del Nilo per alcuni chilometri. Tra zanzare e coccodrilli arenati sulla riva, osservo il volo basso di una cicogna.

L’aereo vola ad un’altezza che permette di vedere il suolo e sotto di me si stende l’Africa, il Kilimangiaro appare dal finestrino, avvolto di nubi, seguo la spaccatura della Rift Valley, su fino all’Etiopia, poi i laghi, Turkana e Baringo, giada e turchese, occhi di una terra che dorme.

Il deserto lo riconosco, si stempera di dune soffici, dai contorni incerti di un vento che le plasma ad ogni passo. Riconosco il blu cobalto del Mar Rosso, tagliato dalle rocce e da altro deserto, il silenzio è la sua voce.

Il Cairo mi accoglie calda, caotica e soffocante, ma per fortuna oggi è venerdì, giorno di preghiera.

Supero la calca pressante e ordinata di turisti in fila per la visita al Museo Egizio, telecamere, guide turistiche, sorrisi, magliette in simbiosi con cammelli leggo su scritto: I love Egypt.

Penso a quelle sale viste in un giorno di chiusura con Zaqui, una guida o un avventuriero di questo paese, ora lontano dagli ori di Tutankhamon, a riscoprire gioielli di storie chiuse in vasi canopi e Luxor in cartolina.

Passo oltre, mi fermo a mangiare in un piccolo chiosco, la sedia è legata al tavolino con una corda leggera. Decido di assaggiare il ful, piatto tipico, minestra di lenticchie servita con taméya, polpettine di fave, mentre osservo la folla rumorosa raccontarsi in arabo.

Amo questa lingua, è l’idioma dolce che fiorisce sulla labbra, ha il sapore di certi giardini esotici, oasi di vocali mancanti e acca mute.

Ho la strana sensazione che qualcuno mi preceda, mentre mi affaccio alla Moschea di Qalaun ascoltando il fiume di parole che ricade in lente cantilene sui fedeli prostrati, il volto rivolto alla Mecca.

Arrivo stanca al Bazar di Khan el-Khalili, mi aggiro per i vicoli tortuosi appoggiando la mano ai muri che respirano la storia di sette secoli. Vecchie radio gracchiano cantilenanti musiche ipnotiche, tra il via vai dei mezzi in strada, polvere e odore di spezie, ammiccanti caraffe di karkadé e fumo di narghilé. Passo oltre i negozi per turisti, tra falsi papiri, ori stagni, essenze di profumi e souvenir dozzinali, e infilo vicolo Midaq, dove Mafhuz ha ambientato i suoi racconti.

È nel suk dell’oro che una vetrina attrae la mia attenzione, vedo lo stesso disegno che decora il mio scrigno. Mi fermo, entro, parlo in fretta in inglese e mostro la mia scatola. L’uomo che sta seduto dietro il banco impolverato scambia un’occhiata con il ragazzo che sta sistemando alcuni oggetti in una vetrina, non rispondono alle mie domande, sono evasivi. Chiedo di vedere il gioiello che ha il disegno dei serpenti e del fior di loto, lo fa con malavoglia l’uomo dietro al bancone. Sono oggetti antichi, non brutte riproduzioni dei gioielli della Valle dei Re. Decido di ritentare il giorno dopo, e vado a comprare un abito tipico, è un vecchio sogno.

Dormo nel piccolo albergo tra le mura. Il mattino dopo percorro tante volte la stessa via e domando del negozio degli ori. Nessuno sa nulla. In quel posto vendono tappeti, da anni, mi dicono.

Lascio il Cairo con la mia scatolina, la sua lettera, le mie domande e nessuna risposta. Forse qualcosa in più potrei scoprirlo da Zaqui, archeologo tra polveri di passato. Faccio un paio di telefonate ad Alessandria, poi finalmente arriva un messaggio, Zaqui mi invita a cena.

A lume di candela a Bendasi.

Ma questa è un’altra storia.

Il Nilo è disteso, come un serpente d’acqua in mezzo al Sahara, oasi azzurre restano negli occhi, l’illusione di un miraggio di certi misteri che non si possono spiegare, laggiù dove le dune si muovono continuamente e non si riconosce più il posto dove ci si trova, dove gli occhi non vedranno due volte lo stesso profilo d’orizzonte. Forse accade così in ogni angolo di questa terra magica e misteriosa, chiusa in sarcofagi, arrotolata in papiri, quando scende silenziosa la notte dal Sinai. Carovane di cammelli ad attraversare la cruna di un ago, chimere, leggende, scrigni di pensieri, rapidi a oriente, prima dell’alba.



Cris, Dicembre 2002

sabato 26 maggio 2007

Discover Atlantis

Si narra che Poseidone abbia creato il luogo della leggenda che affiora dai dialoghi di Timeo e Crizia. Atlantide sembrava un vero e proprio paradiso terrestre, ma improvvisamente vi fu una degenerazione. Questo non piacque a Zeus, il padre degli dei, che volle punire l'isola.

Così si racconta.

Da millenni il mito di Atlantide affonda in noi come la lama del mistero. Civiltà scomparsa, leggenda, chimera, illusione ottica da tenere tra pollice e indice, il lembo di una mappa per l’isola che non c’è.

Eleuthera, striscia di terra sottile distesa tra l’Oceano Atlantico e il Mar dei Carabi. Passi di borotalco le sue spiagge nei ritorni di marea, colonie di granchi invadono la terraferma e piccoli colibrì assaggiano il nettare dai fiori di ibisco.

Un bimotore si alza da Rock Sound, vola su un mare a tinte pastello, liquidi anche i colori che si fondono in sfumature delicate. I miei occhi dietro un paio di occhiali da sole e un anello al dito, imitazione di Krizia, la firma di un cerchio d’oro intorno all’anulare, forse una promessa.

Atterro a Nassau, l’incontro con la città è una stretta di mano vigorosa, come il benvenuto di un vecchio amico.

La città di Nassau è una baraonda di gente, di stili, di atmosfere. Il suo cuore pulsa a Rawson Square, appena dietro il porto, tutta la storia dell’isola passa di qua, in un museo a cielo aperto, dove si respira il colonialismo inglese negli edifici rosa pastello, la Nassau dello shopping, del rum, dei locali è pochi metri più in là.

L’albergo, esplosione dei fasti per eccellenza, ha un nome che già è leggenda, Atlantis. Si profila davanti a me quando pago la corsa del taxi e vengo accompagnata all’interno del mito. Tutto è emblema di sfarzo e raffinatezza, nomi blasonati, sogni, cinema, sono passati di qua.

Attraverso le sale dell’immenso acquario, e camminando in un tunnel posto sul fondo delle vasche, seguo l’incedere di uno squalo, trema dall’alto il riflesso della facciata dell’Atlantis.

Nuoto con pensieri in salsedine a ripercorrere la storia tra i fondali disegnati perfettamente per creare suggestione, come la voce in cuffia che mi fa compagnia. Parla dal fondo del mare, un tono rinchiuso in conchiglia, monete del tempo e dell’acqua, le definiva Neruda. Gli scalini affondano tra coralli e alghe sinuose, dove nuotano tartarughe e pesci colorati come in un carnevale veneziano. Acqua.

Risalgo in superficie e resto nel grande giardino sorseggiando una soda con ghiaccio e limone. Ripercorro i bordi della vasca osservando i grandi pesci affiorare appena, custodi di un mistero ricreato. Resto impigliata con una manica del golfino e l’anello cade in acqua. Lo vedo luccicare per un attimo appena, arriverà sul fondo e sarà forse la chiave a ritrovare la terra perduta? L’Atlantide affondata? Penso a questo mentre torno in aereo e osservo il cerchio chiaro lasciato dall’anello sulle mani abbronzate.

Crizia e Timeo, nei dialoghi di Platone in fondo al mare, in fondo ad un oceano, Atlantico, come Atlantide, civiltà scomparsa.

Che fosse davvero l’ira di Zeus?

Spendo il pomeriggio a Governor’s Harbour a comprare cappelli di paglia e rum caraibico per gli amici, poi sulla spiaggia raccolgo conchiglie dalle sfumature rosa, monete di un tempo andato, custodi di un segreto che dorme in fondo al mare.

Riaffioro da una lunga apnea e mi distendo al sole, la mano aperta sulla spiaggia, l’abbronzatura cancellerà il segno lasciato dall’anello.

Bahamas è il timbro sul passaporto.

Viaggi nell’anima.








Cris, Luglio 2001

mercoledì 23 maggio 2007

Pittura naif, il cuore di Santo Domingo




"La nostra proposta artistica non pretende cambiare un popolo, bensì insieme ad esso poter essere partecipi dei suoi costumi, pensieri, realtà (...). Noi vogliamo dipingere in modo caraibico. Non sono nostri i colori grigi della Francia, nè i gialli cotti della vecchia Castiglia, nè tanto meno i rossi vellutati veneziani (...). In noi deve esserci la pittura del Caribe, dobbiamo essere i pittori della luce e del colore, perchè tutte le isole dei Caraibi sono baciate dal sole come nessun altro posto al mondo (...). Lo spazio deve essere immenso, come il celeste e l'azzurro oltremare, brillante come il giallo del sole lo è nella percezione psicologica. Deve essere uno spazio infinito come l'orizzonte, però vicino alla nostra realtà quotidiana (...). La nostra arte sarà posseduta dal movimento, segno di liberazione, di ricerca, di progressione".

Dal manifesto "Siete" 2003-2004
(Manifesto per una nuova arte del Caribe domenicano)

Dopo dieci ore di aereo in cui sono appesa alle nuvole e vedo sotto solo mare resto affascinata dai colori del Caribe, mi sembra di entrare in una cartolina dai toni che scivolano tra il celeste e il turchese, sposati a sabbie bianchissime, palme a tuffarsi in mare, cucina dal sapore creolo, magia, per l’altra metà dell’isola, Haiti, dove questi colori li fanno vivere nei quadri naif.

L’umidità è l’abbraccio soffocante che appiccica addosso i vestiti dopo aver lasciato la valigia in albergo, il Mar dei Carabi è l’altalena umida di onde a ripescarsi sulla riva, l’eco in una conchiglia, che conservo da molti anni su un tavolino, il filo diretto con il mare.

E dal mare che vivo l’esperienza più affascinante, mentre con una piccola barca mi dirigo alla Saona tre delfini si affiancano a pelo d’acqua, si rincorrono, lanciando richiami simili a dolci colpi di nacchere.

Sbucano dall’acqua e vi ricadono in argentee piroette sotto il sole perpendicolare di mezzogiorno.

Non si lasciano avvicinare, ma nuotano a una ventina di metri da noi che tendiamo le braccia tra le onde, poi si allontanano, veloci, lasciando appena la scia increspata del mare.

Santo Domingo respira al suo interno tra campi di tabacco e canna da zucchero, cartoline da sorseggiare al tramonto davanti alle guarapere, sono macchine costituite da piccole presse elettriche con rulli striati da un canale che raccoglie il Guarapo, succo colato dalla canna da zucchero, al quale si aggiunge un po’ di ghiaccio per raffreddarlo.

La musica merengue accende il sapore della sera, con il suo carico passionale ed erotico a La Romana, tra ristorantini, caffé e gli atelier degli artisti, splendida la vista sul Rìo Chavòn che solca la vegetazione fittissima.

Qui conosco alcuni artisti che dipingono la vita naif di questo quarto di mondo.

Si trovano ovunque, nelle camere d’albergo, nei negozi di souvenir e nelle improvvisate gallerie all’aperto, le spiagge.

Sono i coloratissimi quadri dipinti da artisti haitiani e domenicani che riproducono angoli di vita di questa isola sonnolente di aria al rum.

I capelli raccolti in piccole treccine, scalza, con un pareo legato alla vita ci provo anche io, traccio la linea con un gesso, morbidi i contorni e delicati i colori che sposto sulla tela, azul è il colore che amo e rubo al cielo per fonderlo con il mare.

I turisti passano, sento la Babele di lingue farsi compagna discreta, mentre dietro la mia tela racconto la mia vita, il mio viaggiare naif, Antoine fuma un sigaro e mi racconta di angoli bui di magia arrivata dall’Africa che copre l’altra metà dell’isola, Haiti, inaccessibile, violenta, Voodoo di antichi riti consumati nelle lunghe notti, mani scure, magia nera.

Di quei giorni sotto il tropico del Cancro ricordo tutto e niente, resta un quadro alla parete, di barche arenate, capanni sulla spiaggia, colori pastello.

Naif, un po’ come i miei ricordi. Cartoline. Se trovo i francobolli per spedirle.

Cris, Maggio 1999

domenica 20 maggio 2007

Malaika, makuti, mangrovie



- Dalla moschea di Kilifi

le preghiere si librano

entrano con me nella duka

a comprare zucchero - Kuki Gallmann



È una notte di Dicembre, che disegna merletti di ghiaccio ai vetri delle finestre.

L’aeroporto è quasi deserto, il buio riflette le immagini dalle grandi vetrate, il cielo è sereno quando salgo sull’aereo.

Dieci ore disegnano la rotta perfetta in verticale, sino a incrociare l’equatore, sulla terra d’Africa.

La notte sfuma leggera su un’alba all’equatore che non smette mai di sorprendermi:

una striscia di fuoco che taglia nettamente l’orizzonte.

Appesa al cielo la luna nuova africana

e

diecimila metri sotto di noi ardono i fuochi dei villaggi,

il cuore pulsante del Kenya che veglia.

È finita anche la notte più nera, sta nascendo il sole

e i cirri, con i loro pennacchi bianchissimi, si diradano nel blu.

L’aereo buca le nuvole e lo sguardo si fa abbraccio dell’ansa della laguna di Mombasa.

Fuori dall’aeroporto l’aria è umida, volano alcuni corvi tra gli alberi di Mango.

Appoggiata al sedile della vecchia Jeep osservo lo spaccato di vita quotidiana che mi viene incontro.

C’è traffico mentre attraversiamo il ponte, la gente scalza cammina nella polvere,

donne avvolte in kanga e kikoi coloratissimi,

profumo di frutta esotica al mercato.

I vestiti si appiccicano alla pelle, schermo con la mano la luce del sole,

mentre acquisto verdura e frutta, contrattando stancamente con i venditori.

L’aroma di spezie, le mosche sul pesce, il colore del nettare di frutta che imputridisce,

le facce sudate, e il cantilenare di una lingua che amo, lo swahili, dal sapore arabo.

Mi affaccio al negozio di un indiano, la duka è in penombra, la polvere aleggia sulla mercanzia più varia, stoffe, alimentari e oggetti cesellati in argento sotto il bancone di vetro convivono.

Compro del caffé, una miscela che arriva da Nairobi.

Fabrizio vive qui da anni, ha la pelle del colore della terra del Kenya, la testa di un elefante in osso, finemente lavorata, sulla cintura dei pantaloni kaki, e una sahariana aperta sul petto.

Ripartiamo senza dire tante parole, uno sguardo alle guglie della Holy Gost Cathedral,

poi l’ombra assente della foresta di baobab spogli in questa stagione.

Arriviamo all’imbarco per il ferry-boat che ci traghetterà sulla strada per Ukunda e poi Diani.

Una lunga fila di uomini e donne carichi all’inverosimile attende, con il loro carico di disperata povertà.

Ambulanti vendono schede telefoniche Kencell e copie di Taifa Leo, tenendo gli scellini arrotolati nelle mani.

Paghiamo il passaggio e saliamo sul ferry.

Fa caldo, dal finestrino entra l’alito umido di mezzogiorno, socchiudo gli occhi e li riapro, un ragazzo con la T-shit dei Metallica, biciclette appoggiate al parapetto, mentre il ferry attraversa lentamente il braccio salmastro di mare.

Malaika, questa malinconia che si diffonde con le note della radio.

Mangrovie, dalle lunghe radici e foglie impolverate di sale.

Come formiche scendono dalla parte opposta e ripartono, verso orizzonti lontani.

Sfilano donne avvolte nei chador, aroma di hennè sulle mani.

Poi la strada scorre via veloce, tra palme e baobab.

Un posto di blocco con rudimentali strisce di ferro con i chiodi, Fabrizio rallenta,

i poliziotti lo salutano,

la strada riprende.

Makuti i tetti degli alberghi, delle case e Diani si stende in spiagge bianchissime, dove già sento il ruggito dell’oceano

sulla barriera corallina.

Passiamo davanti al Blu Marlin fishing club, ma questa è un’altra storia.

Stanotte, cercherò il disegno di quattro stelle, la Croce del Sud



Cris 22.12.2003

lunedì 14 maggio 2007

Desnudo tendido con Picasso sentado a sus pies



Si colora di stanco la carta con il trascorrere delle stagioni, alberi di gesso e linee a carboncino a confondere la coniugazione dei verbi.
Che poi finiamo sempre con il rincorrerci nel passato, protesi al futuro, dimentichiamo il presente.
Noi, un presente imperfetto, calligrammi di pensieri, troppo arditi, e poco consapevoli che a volare bastano due ali.

Passato prossimo

Seduto in quell’ombra contempla tutti i loro giorni, raccontando di un tocco leggero, non è una carezza, è solo una presenza.
O un’assenza, ombra sulla pelle.
Lei, il viso voltato e fiori ancora alzati, dal calice pronto a raccogliere lacrime.

Fiori recisi, in un vaso.
Pronti a morire,
domani,
se è necessario.
Lui,
chiuso nei vestiti, solo una mano confonde una voglia,
presenza distratta, fuori campo di un desiderio erotico.
Lei nuda,
ancora spogliata da quegli occhi, che ne percorrono ogni morbida curva, soffermandosi sui muscoli, giocando tra i nervi.
Pelle
Pelle
E’ pelle a toccarsi, una mano, tutto un corpo.

A pelle

La forza smisurata, di un attimo bloccato, un fotogramma.
Fermo - immagine
Perché a noi non è dato sapere che resterà di quei fiori.
La voglia, è il desiderio inespresso, quel tocco che non arriva.

F-e-r-m-o immagine

Noi siamo in questo spazio in cui passa il nostro tempo, anzi siamo quotidianamente immersi nel nostro “non” tempo.
Arte moderna, non è importante cosa rappresenta, ma cosa comunica.
Fiori
Forse appassiranno.
Pelle e rughe.
Il sublimare dell’acqua.
Surrealismo?
Inghiottiti nel Cubismo che attende Pablo e suoi anni a venire.
Scatole cinesi, dove nascondere i sentimenti, ombre, grigio, grigio.
Il Futurismo in contrapposizione, in critica.
Ecco la chiave.
Un bozzetto che parla di oggi, datato 1901.
Desnudo tendido con Picasso sentado a sus pies
17,6 x 32,2 cm, acquarello su carta.
Eravamo lì, ecco perché si parlava di Futurismo, le somiglianze, le distratte vie di fuga.
I ritorni.
Siamo un presente imperfetto, chiusi nel guscio fragile di una piazza, Malaga o Parigi, gira su due dita il mappamondo.
Il cielo fa conta di nuvole oggi, rovesciando ombre sui palazzi, ingiallisce la carta dei miei bozzetti.
Camminiamo, in un tempo a parte, paralleli e meridiani e un altro volo, a poche ore da qui.

Clessidra

Contami gli attimi, perché solo quelli abbiamo.

“Aspettami alle Partenze, ti raggiungo lì, perché non verrò per restare, non ci saranno Arrivi, solo attese di Partenze”
-Bevi la mia voglia, in questo calice amaro.


Non ti serve spogliarmi, perché resto nuda, nel tuo sguardo e tu chiuso nei vestiti non sai toccarmi, a un passo da me.
Carezze ruvide, in carta vetrata a limare i pensieri, levigando sentimenti, parole, sesso.
Solo l’essenza. (o assenza…)
Poche gocce di noi sui polsi, dietro le orecchie.
Desnudo tendido…

-Parlami
“Ti sto parlando”

Silenzio, solo i rumori della piazza, la domenica mattina, un palloncino giallo, un cane buffo, seduti ad un lungo cafè, dove danzano camerieri e vassoi, noi trasparenti come bolle d’acqua in questo bicchiere.
Bolle d’acqua.
Che siano solo bolle d’acqua?
Quegli attimi fragili come uova di cioccolato.

-Parlami
“Ti sto parlando. Non senti questo silenzio, questa mia mano che è a un passo da sfiorarti, spoglia tutti i pensieri e raccogli le mie parole lasciate a metà, come monete sui piattini di un cafè.
Il resto di una vita, in bolle d’acqua. Non ho più niente da dire.
Lo sai.”
-Lo so.

Sapevano veramente?
Vendevano parole, avrebbero scritto libri.
Da lasciare in giacenza nell’anima.

L’anima è qualcosa che raramente lasciamo abitare agli altri.
Questo essere artista...al di là dell’immagine
I sogni e la realtà sono creta nelle mie mani.
Io parte di un tempo imperfetto, con un uomo dal vicino passato.
Aspettando quel movimento che si chiama Futurismo.

Il futuro è qui

Ieri era scritto.
Voci di monete.

Domani?
Sempre e mai?
Avverbi di tempo.
Io sono sogno, lui lo sa, e i sogni durano dal crepuscolo all’alba, come le amanti.
Io vesto le ombre.
Il proibito.
Lui non sa che domani potrei svanire, in altro sogno.
Oggi, oggi sono qui, appoggiata al sipario, come ali di farfalla.
Che vive solo un giorno.
A strapparmi le ali, per vedere al di là di noi.
Non immortali, come quei fiori, in primo piano, sul Desnudo tendido.
A fermare i suoi vent’anni.

-Quando devi andare, vai

Nessun saluto, nessun addio, perdersi così davanti a una vetrina, a un tratto mi sono voltata, non scoprendolo al mio fianco.
La folla lo aveva inghiottito.

Fermo immagine.





F-e-r-m-o immagine

Africa



Ricordo albe

come di perle rosa,

di aria frizzante accarezzarmi la pelle.

Ricordo di albe illuminate

dai fuochi da campo

e lontano sull’orizzonte

allontanarsi il mantello della notte,

e schiarirsi il cielo

fino a spegnere le stelle,

ad una, ad una.

Ricordo di albe africane,

di babbuini sulle acacie,

di orme fresche sulle piste.

Ricordo di albe

Sulla sagoma inconfondibile

del Kilimangiaro: il tetto d’Africa