domenica 30 settembre 2007

New York Public Library


















New York, Luglio 2007
I romanzi Zucchero e cannella di Cristina Cardone
e Benvenuti a Castleville di Maurizio Di Credico
sono stati donati alla Public Library.
I leoni di pietra, Patience e Fortitude, all'ingresso vegliano le parole scritte...

sabato 15 settembre 2007

Las Meninas










“E se non stai buono” aggiunse Alice “ti faccio andare nello specchio” Lewis Carrol

Dentro la cornice nera come fuliggine c’è la prova dell’illusione, fatta di realtà virtuale e presunta.
La sala è buia, il quadro è al centro della scena, ma dov’è la scena?

Las Meninas

Museo del Prado e una pioggia battente all’uscita mentre Foucault appoggiava la pipa alle labbra, lasciando disperdere nell’aria onde di tabacco trasparente.
Quell’ora incerta, di luce obliqua, molto prima del tramonto rovesciata da un cielo di piombo a tuffarsi in una pozzanghera.
I pensieri in ordine e un’occhiata alle finestre alte, solo custodi di un mistero, un enigma, un gioco forse, si trattava di cogliere la giusta strategia.

Partire

Mille chilometri di terra aspra rubata al mare.

Il mare

Il mare

Il mare

Barcellona viveva di un violoncello solo per Maisky sulle Rambla, e bozzetti di Picasso come souvenir.
Foucault e Théophile seduti su vecchie sedie impagliate giocavano a scacchi, tagliando in rombi la prospettiva di un tempo imperfetto e pittori distratti.

Distratti,

distratti.

Las Meninas, fatta a pezzi di cubismo nel gioco di colori di Picasso.
Dov’è la soluzione, per finire la partita?
Prendiamo tutti i personaggi e buttiamoli a terra come carte di tarocchi, l’Infanta, Maria Augusta, i nani, il pittore, il cane, Nieto, i sovrani, i due servitori scatola cinese, camera oscura, dipinto nel dipinto.
10 personaggi.
Davanti al quadro, dentro, dietro la tela.
Spettatori confusi, senza posto a teatro, a vagare le sale di un palazzo, come il gioco di un caleidoscopio di colori e sala degli specchi.
Las Meninas, fermo immagine su un angolo di corte, di vita andata, erosa dai tarli.
Seduti per ore davanti a un quadro, Foucault e Théophile con il marchio della croce di Santiago sulle dita, cammino coraggioso di luce perpetua.
Misurazioni matematiche e cambi di prospettiva, dov’è la coppia riflessa nello specchio?
Non è davanti allo specchio.
Non siamo noi gli spettatori, ma la coppia regnante, celata nello specchio che li nasconde finchè
Nieto solleva la tenda e li mette in luce.
Presto venite, noi siamo al posto dello specchio.
Dentro o fuori dall’immagine?

Prigionieri

Noi siamo in questo spazio dove passa il nostro tempo.
Cercando disperatamente di sfuggire alla morte.
Foucault si fermò sulla soglia, Margherita, sua nipote, sedeva sul grande tappeto, aveva figurine nelle mani e narrava:

Sono stanca di parlare con la bambina nello specchio. Non vuole darmi le sue carte con il Re e la Regina, ecco ora le volto le spalle così non la faccio più amica.

Noi siamo gli spettatori e la malinconia produce un distacco tra il personaggio e chi lo guarda.
Foucault ebbe un’intuizione, fuori Parigi era allagata da un temporale, pensò che sì, ne avrebbe discusso con Théophile, non appena fosse entrato nello specchio.
Noi, in questo tempo imperfetto.



Foucault 1926-1981

Théophile Gautier 1811-1872

Las Meninas 1656-1657




lunedì 10 settembre 2007

September morning







“I can’t watch”

(Quanto dura la fiammella di una candela?)

“Ore 8,46 il volo American Airlines 11 colpisce in pieno la Torre Nord a Manhattan

Ore 9,03 il volo United Airlines 175 si schianta contro la Torre Sud

Ore 9,59 la Torre Sud (la seconda ad essere colpita) crolla, collassando su se stessa

Ore 10,28 crolla la Torre Nord

Ore 11,02 Mayor Rudolph Giuliani order the evacuation Lower Manhattan”

Il meglio che possiamo fare è sopravvivere.

È quel che ci hanno detto.

Sopravvivere è il meglio che possiamo fare.

Attacchiamo e ci ritiriamo, e causiamo la morte.

Ma non si è mai abbastanza preparati all’orrore.

Coriandoli di anime 58 gradi Fahrenheit, di impiegati in camicie bianche a tuffarsi sull’oblio di fumo.

Vuoti d’anime a perdere.

La terra si sgretola, e l’unico suono sinistro è l’urlo angusto delle sirene dei soccorsi.

Oggi, quando esci dalla metropolitana a Battery Park e alzi lo sguardo tra i grattaceli, dando le spalle a Ellis Island capisci senza bisogno della mappa che là dove si alzano quelle gru, là dove un vuoto innaturale si fa largo tra i palazzi, sì là c’era il World Trade Center.

I venditori ambulanti spiegano le T-shirt con la scritta I LOVE NY.

I turisti giapponesi scattano foto.

Ground Zero

La bocca spalancata sull’inferno, la voragine di milioni e milioni di metri cubi di cemento, acciaio, il simbolo della potenza, il vanto, l’illusione, il sogno.

Il dolore.

Quello che ti prende la bocca dello stomaco e ti vela gli occhi.

E lo sguardo al cielo troppo azzurro, troppo azzurro.

Dov’è dio?

Ruggivano i leoni di pietra, Patience e Fortitude, davanti alla Public Library.

“2986 morti, tra cui i “bravest of bravest” 342 pompieri e 70 poliziotti”

Il meglio che possiamo fare è sopravvivere, così dicono.

C’è un silenzio innaturale nell’antico cimitero di St. Paul’s Chapel.

La donna anziana all’ombra dei sicomori tiene gli occhi socchiusi nella luce chiara del primo pomeriggio.

Sbriciola del pane secco per i passeri, poco alla volta perchè a terra non si sporchi.

Peter Huggenford, 1795, c’è scritto sulla vecchia lapide.

Gli anni in cui Battery Park era il porto per l’America, quell’America da sognare.

“Tu vuò fa l' americano
mmericano! mmericano!
ma si nato in Italy!” ritornello che rimbalza.

I transatlantici si fermavano a Ellis Island dove la terza classe era costretta a severissimi controlli.

E “Broccolino” nel nome del padre.

L’America del Rockefeller, 14 piani ogni due mesi.

L’Empire.

Il Chrysler.

Battere i record costruire in altezza per conquistarsi un po’ di cielo da coltivare.

“Colpire New York, è come colpire i bambini” hai detto su quella che oggi è Liberty Street.

Libertà.

Quella promessa da una statua, un simbolo.

Libertà.

Quella di milioni di anime venute giù tra calcinacci e macerie a ricoprire il piccolo cimitero di St. Paul’s, alle spalle del World Trade Center.

(Quanto dura la fiammella di una candela?)

La vecchia signora accenna un sorriso e domanda:

“How are you?”

Poi, senza aspettare risposta racconta brandelli di ricordi.

Di un dramma, di terra senza ritorno.

Un figlio da piangere, anima in pulviscolo tra migliaia di anime in quel piccolo cimitero, vecchio come le sue lapidi dove non si legge quasi più nulla, dove le ossa sono polvere.

E la polvere delle torri lo ha ricoperto dopo il crollo.

Terra, alla terra.

Non è mai stato costruito uno scalpello che possa distruggere un sogno.

E il sogno sopravvivrà alla cenere.

Sai, sai perfettamente che nulla sarà mai più come prima.

Che il mondo si è fermato, la Borsa è crollata.

Poi più niente.

“14 Settembre 2001, il sindaco chiese al Reverendo di St. Paul’s di suonare le campane a mezzogiorno.

-Come fare? Manhattan è senza luce-

Poco dopo il Reverendo con due uomini del servizio d’ordine salì il buio campanile e a mezzogiorno in punto fecero suonare la campana.

12 rintocchi

I soccorritori si fermarono, tolsero i loro caschi e stettero in silenzio.

In segno di rispetto.”

La donna aspetta.

A Battery Park c’è il simbolo in bronzo che si è salvato dal crollo delle torri.

Lì brucia una fiamma perenne.

Ora so quanto può durare una candela.

“I can’t watch”

“Don’t watch, run. It’s going to come down”

domenica 9 settembre 2007

The ruins of Gede. La "Preziosa"







“Denys Finch-Hatton non possedeva altra casa in Africa, che la mia fattoria: là viveva, fra un safari e l’altro, là teneva i suoi libri e il suo grammofono (…)

Con lui, sedersi su una cassa da imballaggio, in una casa vuota, sembrava la cosa più naturale e cara del mondo. Mi recitava una poesia:

Devi mutare il tuo canto luttuoso

In un ritmo gaio;

non verrò mai per pietà,

ma per piacere.”

-Karen Blixen-

A Malindi su un promontorio che si spinge verso l’oceano Indiano c’è una colonna di blocchi di madrepora, la Croce Pradao, costruita da Vasco de Gama che all’ingresso del Mida Kreek di Watamu riuscì a nascondere le sue navi.

Nelle stive aroma di indian saffron.

La magia di quei luoghi rivive fra le rovine delle moschee di Gede, la Preziosa.

Il sito è circondato da due cerchie di mura che hanno resistito al tempo.

I blocchi di corallo non hanno subito alcuna alterazione dal XVII secolo.

I baobab si protendono al cielo, nella vegetazione lussureggiante, le scimmie urlano dalle cime dei rami. Le lucertole frusciano tra le rovine e tavolozze di colorate farfalle fioriscono sull’erba: kipepeio intonano i bambini.

Ricordo il Kenya e i suoi laghi, i deserti sconfinati del nord, al confine con la Somalia, dal finestrino di un bimotore.

Il paesaggio quasi lunare intorno al Lago Rodolfo, un mare di giada su spiagge di soda.

Baringo e Nakuro, stretti nelle giacche a vento, a spiare il volo di fragili flamingo, ballerine di carillon.

Un bouquet di piume chiare, strette in una piccola mano d’ebano, quante sfumature può avere il rosa…

Ora, seduta su questa veranda guardo un punto impreciso davanti a me, in quello spazio sconfinato, quel deserto che scopre la bassa marea, ascoltando, lontano, il ruggito dell’oceano sulla barriera corallina.

I dhow lasciati in secca, le vele latine sgonfie come meduse sulla riva.

Aspettando l’alta marea dall’imbarco del Malindi Fishing Club, e partenze per la pesca d’altura.

Turisti.

E le prime barche dell’Hemingways Club, una vecchia sfida.

Di marlin e improbabili storie di pescatori e pescecani.

Rum nei bicchieri.


Malindi, Luglio 2002



venerdì 7 settembre 2007

El Mir, quadrilatero romano

















Sul petto aveva ancora l’alone indiscreto di un sole distratto, alti i gradi cuciti sulle spalle, veglia delle sei scendendo i gradini della Consolata.

Consolami il ricordo di antichi fasti la tua cattedrale di silenzi

Quattro campane a intonare l’Ave, alternato ai passi pesanti degli anfibi dell’esercito attraversando un ponte, venivano incontro i sampietrini, tagliati perfetti in quattro angoli di pietra.
L’ombra del duomo vestiva avanzi di colonne romane, prima lettera ai Corinzi, delineando il quadrilatero disteso all’incrocio di vie e piccole piazze, già tovaglie dei caffé all’aperto.
Carovane di cammelli cercavano di passare dalla cruna di un ago; ero nelle gobbe ondulanti, fatte di mari interni che navigammo, su barche alla deriva con la prua a oriente.
Bianche polene addormentate su vermiglie arene, di mari in infuso di ibisco, schiave di nuovi dei decaduti.

Cucimi il silenzio su labbra d’albicocche secche comprate al mercato de la Boqueria, leggendo Neruda sulle cartine dei cioccolatini

Avanza l’uomo in uniforme e forse il coprifuoco stanotte spegnerà le candele rosse del ristorante libanese, El Mir.
Joan Bayèn ha scritto sul menù: Cap i pote.
L’odore dolciastro di melassa inciampa l’orlo del bicchiere, brucia piano la fiamma nei narghilé e arabi affondano nei puf le loro litanie, sans papier, clandestine voci di minareto.

Fa che ti perdoni il ricordo glorioso di città antica in veste di festa, vello d’oro, giorni di eroi stanchi, o noi stanchi di loro.
Fa che ti consegni al ricordo come passato fiorente e colto in macerie di torri.
Quadrilatero, oggi il loro resto, monete dispari.
Perdonami lacrime di cera sulla tua città che brucia, vinta, saccheggiata, data alle fiamme eterne anche l’ultima conquista imperiale, una storia già sentita. Troppe volte.
Lasciami deserto questa cenere a cadere su un monastero. Il mio silenzio


-Dove andiamo a cena?
-Hanno chiuso l’Imbarco numero sei.
-E l’Idrovolante è volato via.