Visualizzazione post con etichetta Bari e dintorni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Bari e dintorni. Mostra tutti i post

domenica 23 dicembre 2012

Un racconto di Natale: Vigilia di Natale in Via Sparano



C’è una tradizione qui al sud, alla quale non potrò rinunciare e il giorno in cui me ne andrò mi mancherà da morire; è lo scambio degli auguri il giorno della Vigilia di Natale nella pedonale Via Sparano.
Ci si ritrova tutti lì, quel giorno la regola è: “a pranzo non si mangia” in attesa della cena della Vigilia.
Mi sono sempre domandata: ma se stiamo tutti in centro chi sta a casa a cucinare?
In un posto se non ci sei nato non puoi capire, puoi solo provare a raccontare…tra capitone e baccalà, mercati rionali aperti tutta la notte del 23.

In ufficio avevano finito, fatti gli auguri di rito, tagliato il panettone, brindato con bollicine italiane e bicchieri rossi di carta, non restava che tuffarsi nella festa, o almeno in quello che la precedeva.
Lei lo pregò di accompagnarla.
Lui sospirò, prese il cappotto e la seguì verso l’ascensore, raccogliendo gli ultimi scampoli di “auguri” dalle scrivanie, tra zucchero a velo dei dolci avanzati e mezza bottiglia di bollicine da finire.
-Ha anche smesso di piovere.- disse lei quando scesero in strada, trascinati da una folla scomposta e festante. Dove andassero non era dato sapere, scorrevano, come un fiume.
-E dai sorridi.- lo provocò lei. Lo prese sottobraccio con fare protettivo: -Ti salvo io dal Natale.-
Lui capitolò con un sorriso, a lei “no” non si poteva dire.
Il problema era lui. Si rivide bambino quando la sera del 24 rimaneva sveglio ad aspettare l'arrivo di Babbo Natale. Adorava il Natale; quando prese ad odiarlo fu colpa di un coniglio.
Ci sono episodi dell’infanzia che ognuno di noi si porta appresso, momenti belli ed episodi raccapriccianti. Lui trascorreva molto tempo con i nonni e con loro condivideva la passione per le passeggiate, l’amore per la natura e l’allegra voglia di essere utili dei bambini, dando una mano nell’allevamento di conigli dello zio nelle vacanze estive e in quelle natalizie. Nulla di trascendentale, un piccolo allevamento amatoriale di provincia, di chi vuole mangiare sano, una sorta di visione bucolica del cibo.
La tragedia era in agguato quel giorno di Natale, quando sulla tavola fece il suo bell’ingresso uno stufato di coniglio alle olive. Ora, un bambino che viene dalla città, che si porta addosso quella sorta di allergico-a-tutto, che supera le sue paure e per giorni porta acqua e cibo a quei simpatici animaletti dalla pelliccia fulva, dal musetto in perenne movimento, come può reagire trovando il suo “amico”a tavola. Nel senso che lui era il commensale e il coniglio la pietanza.
Uno shock.
E su questo un bravo analista ci avrebbe cucito su una storia tragica, tirata fuori magistralmente dalle pagine di Dickens come un coniglio dal cilindro di un mago distratto.
E come lo aveva ben definito l’autore inglese nei Racconti di Natale: quella sorta di inafferrabilità, di perdita che è il ritorno dello spiritello dell’infanzia “ora una cosa con un braccio, ora con una gamba, ora con venti gambe, ora un paio di gambe senza una testa, ora una testa senza un corpo.”
Nell’equazione dove Scrooge sta allo Spirito del Natale, e la “x” variabile indipendente, per lui era un coniglio.
Per la via tutti si salutavano e si scambiavano gli auguri, non si sarebbe sorpreso a vedere anche le renne.
-Guarda faccio nevicare.- disse lei agitando una sfera di cristallo con la neve finta.
Le sorrise. Già, a lei “no” non si poteva dire. Le sorrise.

domenica 7 agosto 2011

Bari. Binario due ovest



“Spero che non ti sfugga che questa città l’hanno resa moribonda per averle distrutto una struttura teatrale che la immetteva in circuiti internazionali, scambi culturali, confronti con altre espressioni artistiche, e speriamo che si sia trattato di un incidente. Ma se poco poco la cosa è dolosa, c’è davvero da preoccuparsi e attrezzarsi seriamente per salvarla, ammesso che si sia ancora in tempo per riuscirci…” F.Pirro
Una falce di luna se ne stava appesa, tra il campanile della cattedrale e il faro.
Il mare era illuminato dalle luci delle lampare e la notte aveva quel respiro caldo, come l’abbraccio di un amico, il posto dove stai che ti si è cucito addosso come un mantello.
La volante si era fermata all’imbocco del mercato del pesce, l’odore di mare, alghe e salsedine entrava prepotente dai finestrini abbassati.
“Sindaco, era meglio se continuavi a fare il tuo vecchio lavoro”
La scritta sul muro era vergata con una bomboletta spray, c’erano ancora le colature, decisamente non un murales e un lavoro fatto di fretta.
La seconda scritta offensiva in pochi giorni.
I due militari scesero dall’auto scuotendo la testa, un bell’impiccio, ora chi lo diceva al sindaco?
-Maresciallo, guardi la vernice è ancora fresca-
L’uomo più anziano annuì, era stata una telefonata anonima a farli arrivare lì, ma di certo da lì a qualche ora pure i giornali avrebbero riportato la notizia.
Ecco, manco a dirlo si avvicinò una Vespa con a bordo due uomini, che accostarono, uno dei due fotografò la scritta, e salutò il maresciallo. Appunto la stampa è sempre la prima o la seconda ad arrivare sui luoghi giusti, che le soffiate arrivassero pure a loro?
-Via, per cortesia- intimò l’uomo agitando una mano.
-Maresciallo, stiamo a fare il nostro lavoro-
-Ecco, appunto, pure noi-
-Pensa a un’intimidazione?-
-Direi un consiglio, un amichevole consiglio- e lo disse con aria sarcastica.
Dalla città arrivavano le note della musica.
-Maresciallo, che ne dice, una ruota di focaccia?- domandò il giovane ufficiale.
-Dai andiamo- disse il maresciallo invitando con una mano i due giornalisti.
I loro passi riecheggiavano nelle vie strette, tra turisti e avventori dei pub.
Il colpo di pistola suonò sinistro, seguito da un secondo.
I due militari corsero avanti, le persone scappavano.
I giornalisti corsero anche loro.
Una motocicletta con un uomo a bordo con un casco integrale passò tra la folla. A tutta velocità.
-Non sparare, non sparare- intimò l’uomo più anziano.
Arrivati sul luogo della sparatoria trovarono la vetrina infranta del panificio, sangue a terra, ma nessuno sembrava ferito.
-Ecco, lo sapevo niente focaccia- disse il giovane militare. Il maresciallo gli lanciò un’occhiata torva.
Si raccolse un capannello di persone. La motocicletta era arrivata improvvisa, l’uomo con casco era sceso tenendo la pistola in mano sparando, era successo tutto all’improvviso. Ma chi avesse colpito e perché non si capiva. Si affacciarono anche alcune signore gridando che non si stava più tranquilli, che nessuno difendeva l’anima vecchia di quella città abbracciata a un santo e a un campanile. Veramente c’erano più santi che chiese in quel quartiere, ma il maresciallo preferì tenere per sé la considerazione.
I giornalisti scattarono qualche foto e salutarono i militari.
Poco dopo si alzò anche un elicottero e la zona fu presidiata.
Ma non si dipanava la matassa su chi avesse colpito chi, dato che pur essendoci sangue a terra, non risultavano feriti. Si trovò un solo proiettile, conficcato nella vetrina.
I colpi esplosi però erano due, li avevano sentiti distintamente.
Quindi, un colpo doveva aver colpito qualcuno.
-O qualcuno si è difeso e ha sparato e il sangue a terra è del motociclista- lo disse a voce alta guardandosi intorno, il maresciallo, ma nessuno raccolse la provocazione.
I rilievi durano diverse ore dopodichè la città tornò a dormire, tra il campanile e il faro.
Sul mare la luna stava appesa in angolo. Come un’attrice che sta uscendo di scena.
-Caffè?- propose l’ufficiale più giovane.
-Sì, che qui abbiamo fatto notte vediamo se sta qualcosa aperto-
Il mattino vestiva la città con l’aurora, un velo rosa avvolgeva l’istmo del borgo vecchio, pareva proprio una città del medio oriente, a vederla così dal mare.
Ripassarono davanti alla scritta sul sindaco, il maresciallo pensò che doveva mandare qualcuno a cancellarla.
Arrivò in quel momento una segnalazione: “Un uomo sul binario due ovest, stazione centrale, cadavere”
-Vuoi vedere che?- il maresciallo non terminò nemmeno la frase, partì a sirene spiegate.
Era un ragazzo, appena vent’enne, la moto era fuori dalla stazione. Era l’uomo che la notte aveva sparato nella città vecchia.
Era un segno dei tempi, delle cose che andavano cambiando, delle guerre tra clan rivali e nuovi capi che pensavano di poter inventare un nuovo mercato, dopo gli anni bui degli scippi, dei vicoli blindati, del contrabbando delle sigarette.
Una città che aveva fatto sentire la sua voce, rialzando la testa, ricostruendo il vecchio e facendo cadere il nuovo, tra polveroni non solo di macerie cadute, ma anche di polemiche e guerre politiche.
La città che si era ripresa il suo orizzonte, tra il faro e il mare, giù a sud, sempre più a sud.
Ma ora le cose stavano cambiando, di nuovo, lo dicevano le scritte sui muri e le locandine che in una notte avevano tappezzato il vecchio borgo: riprendiamoci la città vecchia.
Il silenzio era forse il solo a far paura, ancora, al ritmo di focaccia blues e concertini improvvisati, la sera sulle piazze. Una ghironda di colori.
A chi conviene che torni se non il buio, quanto meno l’imbrunire di una città che sembrava essersi salvata?

domenica 31 luglio 2011

Alla taverna del Maltese, storie, patorie



Serenella
coi soldi cravatte, vestiti, dei fiori
e una vespa per correre insieme al mare.
Al mare di questa città
alle onde, agli spruzzi
che escono fuori dalle nostre fontane.
E se c'è un pò di vento,
ti bagnerai,
mentre aspetti me
al nostro caffè. A. Minghi

“Rivedersi dopo oltre vent’anni con amici che non hai più cercato.
Di giorno basterebbero pochi minuti per un saluto di circostanza, ma di notte è un’altra cosa.
Di notte Bari può catturare e trasformarsi in un irreale cinema della memoria” G.Carofiglio




Il campanello squillò, una, due volte.
Viola guardò l’orologio sulla parete, le 23,30.
Uscì sul terrazzino, l’aria era ancora umida di pioggia, mista all’aroma dei gelsomini che si arrampicavano al muro antico, pieno di crepe, dove avevano dimora le piante di capperi.
-Antonio, che ci fai qui a quest’ora?-
-Scendi, c’è uno scoop che ti prendi la prima pagina.-
-Ma, piove, è tardi- protestò lei.
-Muoviti, vuoi fare la giornalista? Ecco impara che le notizie non ti arrivano alle nove del mattino sulla scrivania-
Viola rientrò, prese una felpa che si buttò sulle spalle e scese.
-Dai sali- Antonio le allungò il casco.
-Ma dove dobbiamo andare?-
-Monopoli, Massimo ha avuto una soffiata, stasera arriva un carico da mille e una notte-
-E tu con quello in testa te ne devi venire?- lo apostrofò Viola alludendo al cappello Panama che Antonio indossava.
La città era stranamente vuota per colpa del temporale, la strada scivolava via veloce e l’asfalto liquido assorbiva le luci dei lampioni.
Alla Vela giocavano a carte.
Il grande teatro se ne stava nero e triste, come un eroe vinto.
Il Dona Flor chiuso. Da tanto tempo. Restava l’aroma di un Alexander sulle labbra. Cacao al posto di noce moscata. Così li preparava Antonio. Perché a lei piaceva non troppo speziato.
Sul lungomare Viola osservava il profilo della città distesa alle sue spalle, in quel bagliore argenteo, tra la cattedrale e il faro.
Un cartellone pubblicizzava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri.
Il mare era inchiostro nero, stranamente tranquillo, al di là dei frangiflutti.
-Perché Massimo non ci ha aspettati?- domandò lei, alzando la visiera del casco.
-Perché Mal herba sta con quelli, fa l’infiltrato- rispose Antonio allungandole la Polaroid
-Tieni questa- aggiunse.
Viola chiuse un attimo gli occhi, nell’incoscienza dei loro vent’anni, di chi pensa che la vita sia un gioco, una partita a monopoli, un poker e che in qualche modo fossero capaci di giocare anche la morte.
Gli anni delle telefonate dalle cabine pubbliche, quando non c’erano cellulari e macchinette digitali.
In una polverosa biblioteca scovarono quei bizzarri soprannomi, mesi prima, quando lei e Massimo iniziarono a collaborare con un giornale locale.
Massimo era Mal herba, Antonio Mal Tempo e Viola Scarciofola.
E le sere d’inverno ai tavoli del Maltese si raccontavano storie, patorie, leggende.
Come bugie di pescatori e sogni sul pentagramma, lenzuoli in sanscrito.
La strada correva via veloce.
La torre se ne stava silenziosa al limitare della baia, arrivarono a piedi attraverso un campo di erbacce alte, in equilibrio precario tra la notte e le cicale.
-Vedi?- bisbigliò Antonio indicando un punto impreciso nel buio.
-Cosa?-
-Ecco-
Una luce sulla spiaggia rispondeva a un codice, una luce flebile sul mare.
Poi avvenne tutto velocemente, un motoscafo, le casse scaricate e tante persone, mezzi blindati, come sul set di un film.
Improvvise, venute dal nulla sirene spiegate, forze dell’ordine, qualche sparo.
-Scatta, scatta- diceva concitato Antonio.
-Andiamo, via, corri-
-E Mal herba?-
-Corri, sa badare a se stesso-
La corsa nella notte con il cuore in gola, le stoppie che ferivano le gambe nude.
Cadere e rialzarsi.
Poi la corsa a ritroso.
Rientrati in città fermi da Cesare. I ragazzi compravano i cornetti. Le due del mattino.
-E Massimo?- chiese ancora Viola.
-Abbi fede- rispose Antonio.
Seduti sui gradini della chiesa a scrivere l’articolo, tra briciole e zucchero sulle guance.
Le tre.
Il rumore di una motocicletta.
-Mal herba- dissero in coro.
Massimo si tolse il casco era fradicio, si era buttato in mare nel caos generale.
Si abbracciarono.
-Ragazzi ma una sigaretta ora me la fumerei-
Scoppiarono a ridere, mentre portavano al giornale il loro scoop.
Poi un passaggio ponte con un traghetto per la Grecia e urlare in faccia al mare che avevano vent’anni, e l’azzardo alla vita l’avevano fatto, corteggiando la morte.
Vent’anni dopo, un cartellone pubblicitario annunciava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri, alla Vela si giocava ancora a carte, e al Maltese ci si raccontavano storie, patorie e leggende.
Viola entrò nel locale rinato vicino al grande teatro.
-Posso avere un Alexander con il cacao?- domandò a un cameriere.
-Devo chiedere- l’uomo si allontanò e lo vide parlare con un altro uomo vicino al bancone, che alzò lo sguardo su di lei, scosse la testa e sorrise.
Viola si avvicinò.
-Mi hanno fatto una soffiata- disse abbracciando Antonio.
-E, immagino quale giornalista sarà stato- rispose lui.
Massimo si avvicinò: -Avete da accendere?-
Poi la notte se li portò via, seduti sui gradini di una chiesa, tra briciole e zucchero, la loro storia personale da raccontare di quella notte. Seduti alla Taverna del Maltese.
Mai stanchi di ricordare.
-Sapete dove vorrei andare?- disse Massimo.
-Alla Torre?- disse Antonio.
Pochi minuti dopo erano sulla strada, l’aria entrava dai finestrini, un vento caldo che accarezzava la pelle di Viola.
Restarono per un po’ seduti sulla spiaggia a guardare le onde.
L’alba era ancora lontana.
-Facciamo il bagno- disse Viola.
Il tempo era un’equazione fatta tra la vita passata e quella futura. In equilibrio perfetto quell’attimo di presente. Vent’anni dopo.

giovedì 2 aprile 2009

La Corte del Catapano



Le strade si contorcevano tra le case del borgo sinuose e solitarie avvolte dalla luce calda dei lampioni. Di un tempo antico, sicuramente andato, che ancora recava con sé stucchi muti di volti in gesso sugli archi delle case a far paura ai forestieri. Teste moro mozzate.
Nella Corte del Catapano ballavano la pizzica.
Pizzica
Pizzica
Pizzica
Le gonne come ruote e i piedi scalzi, lei il viso sudato e gli occhi fissi al cielo, quale cielo scuro colava piombo quella notte immobile. Avanzava in preda alla febbre della danza.
I ragni tessevano la tela, aspettando i tempi giusti e una nave dal mare, il nome di Ulisse, rotolato tra l’eco di conchiglie.
Ulisse, Ulisse.
Nico’ scaricava le casse di sigarette che arrivavano dal Montenegro. Una notte di tanti anni prima. Scalzo anche lui, tra le insenature e le lame di Torre Incina.
Pizzica
Pizzica
Pizzica
Fino all’alba ballavano senza sosta, irriverenti, gli occhi come carboni ardenti.
Di occhi a cercare gli occhi, a farsi pescare proprio quando la notte è alta e le difese in balia dei sogni, canti di sirene, sul velo della notte drappeggiato sul mare.
E il mare è solo inchiostro nero per una storia da scrivere.
La sposa avvolta di tulle e rose chiare uscì di casa sollevando i lembi dell’abito, come il sipario al primo atto, passi leggeri.
Primo mistero gaudioso.
Pizzica
Pizzica
Pizzica
Si schiudevano gli usci e dietro le imposte chiuse le comari si stavano zitte, zitte.
La sposa attraversò la Corte del Catapano accarezzando con lo sguardo gli elefanti che pescavano a oriente con le loro proboscidi.
Io ti battezzo
Un nome sulle labbra. Nico’ chiuse gli occhi, chi era quella sposa? E quando li riaprì lei non c’era più. Scherzo del delirio di una notte d’estate e estasi di pizzica.
Corse davanti a San Nicola, le porte chiuse. Le corti vuote e silenziose. Il mercato era addormentato. Non ciarlavano le donne. Si stavano zitte, zitte, zitte, zitte.
E i ragni tessevano il tempo per il velo della sposa. Ma Nico’ non poteva immaginare

venerdì 27 marzo 2009

Chianche bianche, chianche nere


Nello zaino si portava gli avanzi del tempo che pesava come giorni al tramonto, quando il sole si rotolava dietro la città e una sfera rossa e infuocata arrossiva i sepolcri.
Nico’ camminava lento, schivando le comari che lavavano le chianche passando e ripassando la pezza imbevuta di sapone. Poco più avanti una vecchina curva, vestita di nero, portava le ceneri del braciere in una latta, tenuta in mano come il vezzo di una borsetta.
Dopo S.Nicola, passato l’arco, stava una donna dietro la finestra che piegava la pasta.
Nico’ appoggiò una sigaretta alla bocca.
Il vento stava al di là delle case, sulla muraglia, prua di una barca vecchia di mille anni, che pescava giù sul mare.
Il ragazzo scrollò le spalle vedendo i lavori ancora interrotti, “non è così che si riceve il Santo”, così che doveva tornare indietro la processione e passare la settimana santa, col Cristo morto e chianche nuove. Chianche bianche e chianche nere.
E per la via le comari compravano le cime di rapa per poche monete, per i giorni di festa.
Il gatto bianco e rosso aspettava gli avventori per un bicchiere di vino.
Vino novello.
Chi correva sull’ora del mezzogiorno domandava: “Grigliata?”
“No. Ragù d’agnello” rispondevano di rimando da dentro alle case vecchie ancora più di mille anni.
E tra le vie strette del borgo antico comandavano le donne, per una curiosa legge non scritta, di uomini imbarcati.
Il postino gridava i cognomi, anche quelli scomodi, anche quelli impronunciabili.
Ma quello era il borgo, con quella luce obliqua e chiara dei sepolcri al tramonto.
Di vecchie come Madonne, sull’uscio di casa e figli perduti e persi per una guerra di contrabbando, di ombre, di famiglie, il nuovo Golgota e croci come cicatrici, ricamate di verità cadute.
Bisbiglio di parole, di parole. Eh? Sst. Bisbigliano, bisbigliano. I passi sulla strada, giù da basso, passi stanchi e ruote. Chianche bianche e chianche nere.
La città era al di là delle mura.

domenica 2 novembre 2008

L’ombra umida del mare di ponente





Le navi se ne stavano immobili, attraccate ai moli, dove i gabbiani si fermavano a riposare. In attesa di partenze improbabili si imbarcavano sulle cime tese, clandestini di un restare là. Dove non furono mai.
Gli aerei passavano alti lasciando a noi una manciata di scie e l’interrogativo della loro rotta da indovinare. Una manciata di scie nelle tasche e bottiglie abbandonate, vuoti a perdere e lettere, messaggi a mare, da tirar su con un congiuntivo.
Un cane stava accucciato su un mucchio di vecchie corde arrotolate su stesse, come un grosso serpente, da far esibire al suono ondeggiante e ipnotico di un flauto.
Rotte di caduti venti occidentali.
Il cane osservava il via vai dei mezzi pesanti sulle banchine del porto, vestiva i panni di cane guardiano dei grossi silos di grano. Abbaiava agli uomini, mentre una fila disordinata di gabbiani rubava dai sacchi vicino al deposito.
L’uomo passò di là allungandogli una carezza attraverso le sbarre del cancello.
Il cielo si stava coprendo di una sottile velatura, c’erano ancora due ore di luce prima del tramonto.
Poi la notte avrebbe inghiottito tutto, anche le ombre leggere e umide che l’alito del mare appiccicava alla banchina.
Le navi incrociavano nelle acque del porto seguendo le rotte per l’America.
Già l’America che aspettava distesa al di là della nebbia che si levava sull’oceano.
Quell’America che l’uomo teneva in un cassetto da una vita, un indirizzo scritto di inchiostro sbavato sul retro di una busta ingiallita.
Viaggi di carta. Leggeri e impalpabili come le scie di aerei. Porcellane d’ossa.
E l’America. Di là del mare.

mercoledì 15 ottobre 2008

TERZO GIORNO, SCIROCCO



L’orlo dei pantaloni bianchi pescava nella risacca e il vento faceva aderire il tessuto alle gambe.
Signorina Cotò sfilava nella spuma increspata sullo sfondo del cielo limpido e vuoto di nuvole.
Avanzo d’autunno, parlandoti, con te così avaro di parole a volte. Un acrostico rimasto impigliato tra ossi di seppia e vuote conchiglie.
Chissà una rosa da conservare, ma già scuoti il capo.
Dividiamo una pagina di Miller, mi pare, mentre le foglie delle viti si fanno dorate, scampolo di una stagione che avanza e ci avvolge, come la fodera di una giacca parigina.
Signorina Cotò sfidava le onde e la notte incrociava i contrabbandieri di sigarette venuti dall’Albania.
Le palme scarmigliate annunciavano il vento di caduta: terzo giorno scirocco, da annotare sul calendario dietro alla porta, tra le stampe di Pino Pascali.
Mescolavo sabbia alle tue caute parole, così da trattenerle per conservarle nei gusci di lumaca, ad attendere la pioggia, per far germogliare la mia rabbia e il tuo perdono. Ancora.
Poi sfiniti restavamo fermi sulla veranda di fronte all’oceano, i miei piedi che ancora calpestavano sentieri d’Africa.
Voglia di fragola, una macchia sulla pelle, da seguirne i contorni e immaginare una farfalla.
Vola.
Guardavamo le vele sfidare lo scirocco, l’American’s Cup, come la Parigi-Dakar.Bevendo il caffé nelle tazze di Gerusalemme. Comprate al mercatino di Portobello, la domenica mattina.
Tiravano in secca una barca, a fine stagione, Signorina Cotò, c’era scritto sullo scafo.

sabato 4 ottobre 2008

Strada Santa Teresa delle donne




Il molo srotolava il suo nastro di cemento come un’appendice di terra putrida verso il mare, che respirava l’odore delle casse del pesce appoggiate alle barche.
Le reti riposavano al sole le fatiche dei pescatori.
Anche Vito era un pescatore, portava una fasciatura sul braccio sinistro. Un incidente con qualche attrezzo, ma lui preferiva raccontare di un grosso pesce che lo aveva aggredito mentre cercava di levare l’ancora vicino a una secca. Una buona storia, credibile dopo qualche bicchiere di rum, da Fra Diauue quando fuori il cielo si faceva di piombo e le case allungavano le ombre sul borgo antico.
Il gatto sonnacchioso stava seduto impettito sulla porta dell’osteria. Davanti a lui due tazze, una per il cibo e una per l’acqua.
La nonna di Nico scendeva lungo il vicolo tenendo stretto lo scialle sulle spalle e un segno di croce in tasca, davanti a Santa Teresa delle donne.
Strano posto, arroccato al di qua del mare, come un’isola, per scambiarsi le sorti di una città, una torta da dividersi tra famiglie e onore. E storie sussurrate sui portoni delle case a un cenno di intesa.
Non si scrivono i cognomi dove le parole scivolano come acqua di mare. Lasciando solo colature di sale sui vetri.
Quelle stesse vie, fatte di panni stesi tra i vicoli, come bandiere, si riflettevano negli occhiali da sole del ragazzo che camminava di fretta. Le stesse lenti che poche ore prima, al di là dell’oceano specchiavano i grattacieli della metropoli che amava.
Sulle labbra l’ombra delle onde e la sua oasi di sole, tutta italiana.
Un colpo esplose nell’aria, alzò lo sguardo seguendo lo sbattere d’ali dei colombi impauriti. Come applausi a teatro alla fine del primo atto. Si dorme bene allo spettacolo di mezzanotte con il biglietto ridotto.
Qualcuno aveva sparato. Spiavano le imposte socchiuse, trattenendo il respiro, tacevano gli usci sbarrati.
Arrivò la polizia, annunciata dal suono lamentoso delle sirene. Ma ormai era già tutto concluso e gli elefanti sulla basilica guardavano giù dalla muraglia, verso il mare.
E a lei sul polso il segno del tempo e del suo passare, chiuso nel gioco geometrico delle lancette dell’orologio. A barattare un attimo con l’eterno. Perché Parigi stava nella fodera del cappotto, come la carta avanzata di un cioccolatino, nelle tasche.

sabato 16 agosto 2008

Sii dea, sii rupe, sii sarcofago. Oh mia Eniathia





“Iniziava quindi un triduo di lamentazioni, accompagnate dal suono dei flauti ricurvi e dalle urla cadenzate dei Galli, i sacerdoti delle divinità. I discepoli di Attis”
La seta mossa appena dal vento si drappeggiava sugli scogli lasciando intravedere il piccolo piede bianco. Scalza Eniathia rapita dalla furia delle onde.
Lo Scoglio del Tonno era un luogo che amava da bambino, quando raccoglieva conchiglie fossili, figlie del tempo e dell’acqua.
Le commesse del centro stavano sedute sui gradini dei negozi.
Noi eravamo invisibili.
Gli alisei modellavano le rocce sottocosta di grotte e anfratti, il rantolio del mare di mezzogiorno.
E le cicale si stavano zitte. Zitte, zitte.
I solchi lasciati sulla strada dalle ruote dei carri, le monete perse dai viandanti, canti antichi, avanzi degli dei, ossi di seppia. I passi scalzi di polvere.
Mangiavamo frutti di mare nascosti nella cucina di un ristorante.
I muretti a secco definivano i bordi della strada bianca. Si levava l’odore di fumo. Lontano, nella campagna bruciavano le stoppie. Da qualche parte un campanile piangeva. Indovinammo mezzogiorno, contando i rintocchi.
I passi scalzi sul molo, ricci di mare a pungere le dita di un bambino. I panni stesi nei vicoli, il cicaleccio delle donne. Ricordi.
Il tempo ci invecchia e le rughe spaccano la pelle come mosaici sbiaditi. Le tre Grazie a fare l’autostop sulla 16 bis.
Il fruscio delle serpi nei muretti vegliavano quel tempo dell’attesa e il veleno ai bordi delle coppe e gli spiriti arresi nei sarcofagi sul mare a far crescere alghe putride.
Le amanti che vanno a chiedere scusa anche a dio.
Sacerdotesse e schiave immolate alla parola di incensi e zolfo dalle spaccature della terra.
Egnathia si protendeva sulla rupe come fosse l’ultimo dei suoi giorni, amante ritrosa a sottrarsi alle lusinghe dell’Adriatico. Mare Nostrum.
Amante perduta Eniathia, dal nome gentile, di sesso sottocosta, incrostato in otri dei venti del sud, ora giacevano a 30 metri. Figli degli dei.
Parlavi come Neruda nei tuoi gesti attenti dopo l’amore.
Segreti fusi in statue d’oro, preghiere e sillabe a tremare parole smozzicate.
Dove giacciono oggi le bianche colonne, le tue braccia tese oh Egnathia?
La musica pioveva dalle finestre “Donna se vuoi, sai tenere in pugno anche gli eroi…”
I piedi bianchi sul limitare degli scogli, solo un attimo, poi i bambini si tuffavano nel riverbero accecante. Maschera e boccaglio per una nuova caccia al tesoro sul litorale egnatino. Come i pirati alla TV.
Tombe sconsacrate sul bordo del mare e impietoso il lavoro del vento. Ma non si cancella il tuo passo di pietra.
Ancella al vespro che si affaccia alla sera, tu sulla porta di un tempio sconsacrato: la voglia.
Sacrificami alla parola arresa. Nessun altare su cui pregare.

venerdì 1 agosto 2008

Villa Elina e “Broccolino”, nel nome del padre



Si vedeva dalla strada, non servivano indicazioni.
Era avvolta dai campi grano e capovolti mazzi di papaveri ai bordi dei fossi.
L’abbraccio protettivo e misterioso di quegli alberi grandi, pini marittimi ed eucalipti la celava un po’agli sguardi indiscreti.
La ricerca di ombra dalla calura, i giochi dei bambini, i gelati, il lavoro paziente al tombolo.
Quando parcheggio davanti all’ingresso Donna Marita è già lì, seduta sul muretto con un fazzoletto sulla testa e la mano a proteggere lo sguardo dal sole.
Ha fianchi appesantiti dai 4 figli, e gambe gonfie per la cattiva circolazione.
Mi accoglie con un abbraccio che sa di mare e torta di mele. Un po’ si commuove e scuote le mani al cielo mentre fa scivolare via il pesante catenaccio che tiene chiuso il cancello. Lei ha la chiave. Resta l’unica custode e la memoria del tempo. Di anni e segreti tra queste mura.
La ghiaia scricchiola sotto i nostri passi sul viale ombroso di Villa Elina.
Due scale laterali si alzano sulla porta principale. Le finestre sono sprangate con pesanti assi di legno, a chiudere un segreto che filtra dai vetri come pulviscolo luminoso.
Il segno pesante di chi ha vissuto qua.
Facciamo il giro intorno.
Sta collassando su se stessa la struttura di ferro della serra.
“Le orchidee non erano fiori per questa terra di calura, ma in inverno fiorivano era l’estate la loro incognita. Donna Carmen però le adorava” Marita ricorda e attraverso le sue parole alzo il lembo di una tenda pesante, il sipario calato e scuro sul passato remoto.
La cisterna dell’acqua ha lunghe colature di calcare e ruggine. Ninfe decapitate le statue di pietra avvolte di edera, di muschio e di muffa.
Qua e là fioriscono i ciclamini selvatici.
Ci sono i sigilli alle porte. Ma anche i segreti hanno le loro serrature.
Entriamo da una piccola porta celata sul muro. Donna Marita non ha solo la chiave. Ha la maniglia e la appoggia sul muro dove c’è un foro. E la parete cede sotto la pressione della mano sapiente. Mi guarda come a condividere un segreto.
Di porte così e passaggi segreti crollati queste ville ne hanno a decina e se non conosci il gioco rischi di rimanere murato per sempre in uno specchio, dietro una colonna a fare il fantasma in notti di luna piena e fuochi fatui.
La scaletta di pietra scende per una rampa poi un’altra porta e si accede alle cucine.
Rifugi di guerra, cunicoli di fuga in anni di incursioni.
L’aria è calda e ci accoglie la penombra.
Restano appesi a chiodi grossi e arrugginiti pesanti utensili curvati dal tempo e dall’usura.
Nicchie che fungevano da dispense. Contenitori scavati nella pietra.
Una sedia appoggiata al muro. Una gamba spezzata. Grosse ragnatele filano dal soffitto.
Altre scale, fino al salone di rappresentanza.
“Doveva essere sempre lucido questo pavimento” la voce di Donna Marita mi fa abbassare lo sguardo sulle mattonelle di marmo chiaro, venate appena da striature nere. Sentii per un attimo il rumore dei tacchi e la sinfonia di un orchestra del tempo che fu. Come un carillon interrotto.
Quadri bui di antenati impettiti ci osservavano.
Per ognuno di loro Donna Marita ha una storia. Qualcuno lo aveva anche conosciuto.
La storia che più amavo era quella di Elina.
Il suo quadro era appeso in quella che un tempo fu la biblioteca.
Era ritratta quando doveva avere avuto 16-17 anni. I capelli sottili biondi sfioravano le spalle. Il viso era sostenuto da un collo alto che sbucava dalla camicia austera che si stringeva sul suo petto florido. Sembrava un bucaneve appena sbocciato.
Sedeva impostata come si conveniva nei ritratti di famiglia. Un cane, un setter stava molto più quieto ai suoi piedi.
“Era un’irrequieta. Si innamorò di un giovane squattrinato. Ma lo fece per far la ribelle, perché si annoiava tra cipria e balli in giardino. Scappò con lui e andarono in America. A Broccolino”
“Brooklyn, Donna Marita. Era Brooklyn”
“Eh. Io cosa ho detto. A Broccolin”
Rido, e un tintinnare di argento e calici mi fa voltare. Da una finestra rotta entra una folata di vento che fa oscillare il lampadario di cristallo.
Marita mi osserva di sottocchio un po’ offesa. “Posso continuare o non vi interessa?” domanda.
Faccio cenno di sì con il capo.
“Ah, la famiglia non si riprese mai da quel gesto. La signorina Elina, l’unica che portava il nome della trisavola, finire così. Immigrata a vendere il pesce dall’altra parte dell’oceano”
“Ma non tornò più qui?”
“No. Il padre l’aveva ripudiata. Non potè tornare, nemmeno per il funerale. Una volta le cose andavano così.”
“Chi l’ha dipinta? Il pittore intendo, è ancora vivo?”
Donna Marita ci pensa un po’ su, poi fa cenno di sì con il capo.
“Ma è vecchio. Vive in una casa di riposo. Ha l’alzaimer”
Mentre torniamo indietro sento pesante il ricordo, un po’ di malinconia che non riesco a spiegarmi.
Le porte si chiudono dietro di noi. Ma i ricordi, il loro parlarne, il risvegliarsi di anime, mi fa compagnia mentre entro in casa di Marita.
Ora è in pensione. Era stata a servizio della villa quando era giovane. Mi offre una fetta di torta e mi dice di farmi vedere più spesso, che alla sua età non si sa mai.
Decido di tentare e cerco il pittore del ritratto.
L’inserviente della casa di riposo mi accompagna nel giardino. Un signore magro, con pochi capelli bianchi e gli occhi attenti osserva altri anziani giocare a Burraco.
“Signor Fiorenzo, c’è una visita per lei”
Mi osserva incuriosito. Decido di andare subito al dunque. Gli racconto di Donna Marita, di Elina e gli domando se sa dove vive e se è ancora viva.
Sospira. E un sorriso scopre i denti mancanti.
“Quanto tempo. Lei mi fa ricordare quanto sono vecchio” sospira ancora, tossisce, si guarda intorno con fare cospiratore e poi mi dice: “L’ultima volta che venne qui fu per la festa della Madonna, l’8 Settembre. Ci vengono ancora gli americani. Cioè quelli che da qui sono emigrati.
Era una bella donna distinta. Il marito era diventato un pezzo grosso, là in America. Erano partiti come pescivendoli, poi il mercato passò nelle sue mani. Eh, che bella soddisfazione. Aveva perso la villa e i suoi tesori, che per me altro non erano che debiti accumulati e la facciata di apparenze.”
Poi si interruppe, fu scosso da una tosse violenta.
Riprese: “L’ultimo indirizzo che ho è 46 Broadway & Rector St a Nuova York”
“È sicuro?” domando.
“Certo, sono vecchio, ma il passato me lo ricordo bene. So che pensano che sia malato. Alzaimer lo chiamano. Ma a me sta bene così. Non devo preoccuparmi troppo in questo modo. Alla nostra età qualcosa lo dobbiamo pur avere. A me han dato questo Alzaimer.”
Resto ancora un po’. Quando sto andando via mi raggiunge la sua voce: “Ci andrà? Andrà a Nuova York?”
Torno indietro e lo guardo curiosa, “può darsi” rispondo vaga.
Fiorenzo annuisce. “Entri al Flatiron c’è un quadro che le piacerà all’ingresso”
Sento che sa molto di più di quello che mi dice, come sa bene che si è guadagnato un’altra mia visita.
Mentre lascio questa terra di ulivi e mare, di terra generosa e antiche ville, lo sguardo dal finestrino dell’aereo che sorvola Palese abbraccia un angolo di Italia che so gli emigranti han portato tatuato sulla pelle.
New York mi si para davanti agli occhi mentre il taxi percorre la strada dal Queens.
Manhattan, è la mia isola che non c’è, un posto magico.
Il cielo è chiaro, dalle feritoie sull’asfalto le fumarole si levano come anime inquiete.
Mi fermo a comprare un hot-dog. I miei preferiti sono su Canal Street, ma anche qui nella zona di Wall Street non sono male.
L’indirizzo è vicino a Trinity Church.
Ho un tuffo al cuore, c’è davvero il nome di Elina.
Mi apre la porta una cameriera orientale e mi spiega che la signora Elina è al piccolo cimitero attiguo a Trinity Church, va sempre lì a dare il pane secco ai passeri.
Quando la raggiungo non ho dubbi. Il collo alto avvolto da rughe come collane di perle. I capelli bianchi, le braccia coperte dall’intreccio di vene sottopelle. Un bucaneve avvizito.
Le parlo in italiano.
Mi propone di prendere una bibita. Ci sediamo in un locale all’aperto.
Non bado all’espressione curiosa del cameriere quando domando due limonate. Né agli sguardi stupiti degli avventori che mi vedono parlare da sola.
Prima di tornare in Italia entro al Flatiron.
Un portiere mi saluta ossequioso.
Scorgo un quadro. O meglio, una finestra. È Villa Elina. C’è una coppia ferma sul cancello. E nel viale giocano dei bambini, sullo sfondo una festa. Riconosco Elina in quella coppia, e indovino sia il marito l’uomo che le è accanto.
Anime.
E Broccolino, nel nome del padre.
Mi incammino lentamente verso la villa, la ghiaia scricchiola sotto i piedi.

domenica 23 marzo 2008

Venerdì Santo: a Taranto sfilano i perdoni










Nella vita bisogna avere l’umiltà di ammettere di credere in qualcosa.

Alla masseria del Monsignore tagliano i rami d’ulivo per la domenica delle Palme, mentre la notte si alza la luna piena di Marzo.
Nei due mari di Taranto incrociano le navi militari, di nuove e vecchie guerre.
Alle cinque il Carmine apre la porta sul sagrato: ecco l’uomo.
Il perdono scalzo e incappucciato, i passi lentissimi, al ritmo delle note funebri della banda che lo accompagna, in scena il mistero della morte a chiedere perdono.
Note dolenti che il vento solletica via in un’epoca di paganesimo e mercanti scacciati dal tempio.
L’uomo incappucciato è fermo e il vento gonfia le sue vesti mentre la sua mano da voce alla troccola, come pioggia battente.
Ancora e ancora.
Il passo lento del perdono, la nazzicata che lo accompagnerà all’alba.
Dalla vetrina di una libreria La strega di Portobello tace. In un tempo in cui non si crede più a niente si finisce per credere a tutto.
Le folle crescono all’indice di un’ i-dea.
Nuovi dei sull’Olimpo di pensieri e templi sotterranei.
Il mistero snoda la passione, su qualcosa come il perdono.
Che busserà all’alba, alla chiesa del Carmine.

domenica 9 marzo 2008

Torre Guaceto - Da Cascina Gobba a Carovigno

Punta Penna Grossa (oasi del WWF)
Le dune sembrano gobbe di cammelli ondulanti che scendono al mare. La sabbia è l’arida terra dove crescono arbusti e canneti. Macchia mediterranea.
Quest’oasi non si vede dalla Statale 16 bis. Devi saperlo. Devi fermarti. Il mare ha creato calette chiuse alle estremità dal gioco di scogli. Antiche torri di avvistamento cedono al rumore degli anni.
Qui in alcuni periodi liberano le piccole tartarughe Caretta Caretta.
Poca gente sulla spiaggia, il tempo di un bagno fuori stagione e si resta in costume. Già perché qualche mano veloce si è rubata la borsa, il telo, le chiavi dell’auto. E allora ti arrabbi, ti spaventi. Ti senti un po’ stupido. Anche il telefono si son presi. Poi per chiamare chi? I piedi affondano pesanti nella sabbia, fino all’auto. Chiusa. Drammaticamente chiusa. Qualcuno presta un cellulare. Le forze dell’ordine sono evasive, e già impegnate. Arriverà una guardia del servizio di vigilanza. Nel frattempo si radunano alcune persone, scuotono il capo e snocciolano altri fatti, auto distrutte, borse scippate, ruote bucate.
Con un carro attrezzi a Carovigno.
Poi tentare di fare la denuncia, attraversando un paese fantasma. Che non stonerebbe tra le pagine di un romanzo di Camilleri.
Qualche anziano sulla porta di casa, donne vestite di nero, al lutto di una Pasqua imminente.
Il militare ascolta e annuisce. Certo fare una denuncia. Rientra un metronotte, ha trovato nel canneto di Torre Guaceto un paio di jeans e un cellulare. “Son vostri questi?” domanda. Viene da ridere tanto la situazione diventa grottesca.
Comunque la denuncia non si può fare perché ci sono problemi di connessione. Con buona pace di carta e penna. Ma assicura che in un altro paese, a un altro comando si può sporgere denuncia. Si farà con tre ore tra anticamera e verbale.
‘U Saracen’ incontra il militare sulla piazza del paese.
“Tutto bene?”
“Tutto a posto”
“Scritto niente?”
“No, no scritto niente. Come al solito”
‘U Saracen’ era tornato da poco in paese. Lui era cresciuto al nord. Aveva il giro degli spacci a Cascina Gobba, mentre suo padre era in carcere. Tanto per stargli più vicino.
Onora il padre.
Fiorivano le viole mammole lungo i fossi.
La metropolitana dondolava le luci al neon nel ritmo ferroso e metallico. Si alzava una nota di violino, eco straniera, mani bambine a chiedere la carità.
Le donne dell’est ridevano forte scoprendo i denti imperfetti.
Alle fermate le ammiccanti proposte aeree: Milano - Varsavia da 40€.
Da là partivano i bus e poi alla stazione centrale gli Eurostar per Lecce. A lui il biglietto non lo domandavano.
Qualcuno ha sparato alla Via Crucis del venerdì Santo. E s’è sentito sì il colpo.
“Hanno ucciso nostro Signore?”
Le vecchie con il viso grinzoso come il disegno del tombolo che tenevano in grembo si facevano il segno della croce.
“L’hanno ammazzato”
La Madonna vestita di nero usciva dalla chiesa per andare al sepolcro.
‘U Saracen’ e il militare in processione.
“Tutto bene?”
“Tutto bene”
“Si è trovato l’assassino?”
“No, no, nulla”
Al porto di Brindisi si caricavano casse di arance. Dal Montenegro partivano imbarcazioni con le sigarette di contrabbando.
Fumavano tutti.
Di notte attraversavano le vie di campagna lunghe carovane di blindati.
Fermi nella campagna.
Nascosti nella campagna, anche quella vicino al mare, dove non stanno le case.
A Luglio si sfiorano i 47 gradi di un’aria ferma, immobile.
Ad Agosto si alza una cortina di fumo dall’oasi di Torre Guaceto. Una colonna di fumo nera che si appoggia sul mare, pare una petroliera in fiamme. Brucia per giorni. Ridicoli i mezzi di soccorso.
Si dice che sia doloso.
Leggeva il giornale mentre il treno rallentava, “Carovigno” si leggeva sul cartello.
Buttò un mozzicone a terra che spense con il piede.
Fumavano tutti.
(Agosto 2007)

giovedì 14 giugno 2007

Polignano a mare







Le lame aperte sull’orizzonte, un po’ più in su del mare,
un po’ più in giù del cielo
Bassa marea
Arma del delitto
e
risacca su ciottoli,
sgonfie meduse, vocali allungate di acca mute, in sacche amniotiche,
vertigini le consonanti di tunnel orizzontali, linee metropolitane.
Le lame delle forbici, impugnate nell’atto esatto di spezzare l’alchimia del destino,
sfilate dalle tasche
di lupi mannari
e
posate sull’orizzonte,
lì,
all’imbocco di una cala, un po’ più in là della paura.
Forbici
per tagliare in rombi il volo caduco di aquiloni, scampoli di cielo,
origami, barche di carta.
Forbici
Con ancora l’impronta per vaneggiare notti arcuate,
e urli strozzati,
ipnotiche ed arrendevoli notti di gialli,
la crime novel
E
Pino Pascali
tagliava via quel che avanzava di un orizzonte