venerdì 18 luglio 2008

Il dio degli gnostici


Abrázame
Y no me digas nada, sólo abrázame
Me basta tu mirada para comprender
que tú te iras –Julio Iglesias-



Le note del violino colavano dai muri, quel pomeriggio afoso di controra. Quando il mendicante nomade passava nell’ombra del borgo antico. Accarezzando le note malinconiche di un tango argentino. I gerani rossi alle finestre, i giochi fermi dei bambini, il brusio di una TV accesa.

L’ombra del borgo era un’ampolla chiusa e trasparente, ovattata di silenzi, di segreti pubblici, di misteri consumati come rosari e lunghe gonne nere testimoni di un lutto.

Il sole a picco entrava nelle rovine che ancora sfidavano il tempo, rovine che il verbo passato chiamava chiese. Lo testimoniavano le colonne, o quel poco che di loro restava, e il transetto chiuso dal muro di una casa dove le donne stendevano i panni ad asciugare. E il muschio che cresceva tra i tasselli mancanti di un mosaico.

Una pausa, tra l’apostrofo e la parola, questo era il borgo.

Poi c’era il porto, la strada e si arrivava veloci, fuori dalla città.

Il frinire incessante delle cicale entrava dal finestrino dell’auto, sulla statale 16 bis.

Il blocchetto con il appunti segnati a matita stava lì, sul sedile a fianco. I numeri, le “x” di incognita ancora cerchiate e isolate. Potevano essere tutto, una vocale o una consonante, un numero, un più o un meno. O il semplice segno come sulla mappa del tesoro “X”, qui, ici.

I numeri rotolavano come in una slot-machine, per fermarsi esatti sulla data e sull’ora, lo scarto di 60 minuti, calcolando anche l’ora legale.

Tamburellavano le dita sul volante, la musica riempiva l’aria, ma nelle sue pause, dalla terra arrivava il cicaleccio delle cicale.

Ossessivo, nel suo perpetuarsi incurante della calura.

La masseria del Monsignore aveva uno squarcio profondo nel muro portante. Scritte fatte con la vernice. La nuova arte di strada. I rovi stavano invadendo tutto. Qualcuno aveva acceso un falò, c’erano ancora i resti scuri e neri, e la cenere.

Sudavano le foglie delle viti.

C’era uno spazio vuoto all’apice della cappella, che colmai con il ricordo di una campana, arrugginita. Caduta o rubata?

Non avrei trovato risposte lì, solo una manciata di indizi che confermavano che la strada era giusta.

Il gozzo sarà Nakabaa

I Macabei. Sì dovevo appuntarlo, un paio di ricerche. Anzi guardando l’orologio e con un po’ di fortuna avrei trovato la biblioteca aperta.

La strada bianca scendeva dritta al mare.

Lì la vita scorreva nell’ora dolce del tardo pomeriggio, la spiaggia, i suoi bagnanti, i ragazzi che giocavano a calcio balilla in costume e con i capelli bagnati, i bar all’aperto, come su in Costa Azzurra.

Come la Provenza che conserva le mie radici in un piccolo cimitero del Dipartiment du Var.

Curioso, anche là frinivano le cicale.

Via Franchigena e via Traiana cercando dio. Trovando più spesso demoni e falsi dei.

Ormai non cercavo più “segni”, c’erano stati, ora dovevo solo trovare. Se solo avessi capito cosa stavo cercando.

Negli anni avevo salito il mio Golgota personale, in ginocchio sul cammino di Santiago.

La verità era ancora celata, tra altari barocchi e piccole cappelle abbandonate.

Non trovai nulla di rilevante e la biblioteca era calda e soffocante.

Uno sguardo all’orologio, c’era tempo, ma un po’ di anticipo mi sarebbe servito. L’uscita era una delle prossime, il traffico scorreva lento, diviso dal colore cangiante degli oleandri.

Scendevo al mare, all’ombra dei palazzi calpestando le chianche in pietra, quando la processione mi si parò davanti. L’eco funebre della banda che accompagnava la croce di un dio morto ancora.

Passò la folla, a sgranare rosari nel cammino inevitabile di questa terra.

Poi si aprì l’orizzonte al mio sguardo. Il bastione, il porto, la cattedrale. La cattedrale, il porto, il bastione.

Scrutai le persone, cercando un indizio, qualcuno sospetto, un gesto o un movimento che potesse in qualche modo guidarmi.

Nulla. Non c’era nulla lì.

Attesi seduta su un ceppo dove ormeggiavano le barche.

Alle 20,00 mi incamminai scalza fino al molo 19. I gabbiani lanciavano richiami. Le rondini volavano basse cibandosi di insetti.

Tornai che era notte, la luna piena entrava dal finestrino laterale con l’aria più fresca. Le cicale si stavano zitte.

Era necessario fare tutto da capo. Doveva esserci un baco nel sistema, un errore, qualcosa di cui non avevo tenuto conto. Fu allora che lo vidi, un’ ombra che allungava la mano facendo l’autostop.

Rallentai guardai il viso, lo sorpassai frenando. Lo vidi alla luce degli stop, nello specchietto retrovisore mentre facevo retro marcia. Ma lui non c’era più.

Molto lontano nella campagna, un gallo cantò.

Tornai all’auto, lo sportello era rimasto aperto. Ma non solo quello.

Mentre tornavo a casa con la notte tenevo per le mani la mia risposta. Abra cadabra di una porta aperta.

Attesi quel lento sciamare di anime.

Un giorno dopo l’altro.

Che un dio stanco aveva lasciato scappare.

domenica 13 luglio 2008

La vie en rose



Certi mattini ti svegliano con la fretta e la nostalgia che deprime il cuore.

Gracìa passò la mano sullo specchio, per togliere via l’opaco di umidità creato dall’acqua della doccia.

Il suo riflesso non le sorrise, di una ruga stretta sulla fronte, quasi la rabbia, svegliarsi triste.

Appoggiò l’accappatoio sulla parte libera del letto, come a consolare un’assenza di lenzuola disordinate e vuote, a tradire che da sola aveva dormito la metà del letto.

Prese le prime cose che si affacciarono dall’anta dell’armadio, evitando lo specchio.

Tornò indietro e afferrò la cintura, sorridendo tra sé a una sua vecchia battuta:

-Non hai la cintura, praticamente è come se fossi nuda-

La vie en rose,

che percorreva distratta dalle note della radio, la mattina, mentre scendeva lo sguardo verso il mare, che sempre portava in porto una qualche nave, carica di speranze e di sogni.

Lei le navi le accompagnava per mano, le vedeva nascere e morire, era il suo lavoro.

Addomesticava il mare.

Stravaganze di pensieri da girare piano come zucchero nel caffé e titoli dei quotidiani sfogliati di passaggio, già scordati, come inserti che restano lì, per mesi sull’angolo di una presenza,

perché sappiamo più cose inutili di quante non sono necessarie.

L’oroscopo ancora a prenderla in giro:

“Incontri improvvisi e nuovi voli da salvare”

Scuotendo la testa, che chi cura certe rubriche gioca a metà, tra pianeti distratti in collisione con quel che vorremmo e voli pindarici di fantasia.

Chissà, forse poesia.

Pensò alle poesia guardando i pini marittimi sfilare sul mare, quelle imparate a scuola, quelle che restano dentro.

La vie en rose,

si snodava dolcemente al parapetto di illusioni che si tengono come ricordo, per non dimenticare, il segnalibro tra le pagine stropicciate di giorni tutti uguali, casa, ufficio, strada, polvere, supermercato, chiesa, di quando in quando in cori d’organo e ostie a metà.

All’improvviso svoltando un vicolo lo vide, chiuse gli occhi un attimo, certi scherzi la vista te li gioca, complice il caldo, ma quando Gracìa li riaprì era ancora lì.

Un gallo, ma uno vero, con le piume colorate, la cresta e i bargilli rosso sangue.

Camminava, saltellando guardando il mondo dal basso verso l’alto, incurante delle auto, della gente, della donna al quarto piano che stendeva il bucato incredula e divertita.

Un gallo, ma uno vero, in città, notizia da raccontare a spettatori increduli e divertiti.

Gracìa chiamò i vigili, che intervennero per catturare il volatile, perché non fosse ferito o ucciso dalle auto.

Ma il gallo corse via, passando accanto a Gracìa, aprì le ali volò sul parapetto e planò nel fiume, dove anatre selvatiche tagliavano la scia dell’acqua con il loro passaggio.

Lei sorrise e salì in auto, abbassò il finestrino, faceva caldo, era stanca e sorrideva.

Semaforo rosso

La vie en rose,

il tempo dal rosso al verde, per cambiare la sua vita, o per farle il dono di una carezza.

Il ragazzo con la maglietta grigia e il coccodrillo sulla destra si affiancò.

Lacoste

La costa era il luccicare di ultime onde, sul tramonto.

-Posso dirle una cosa?-

Lei lo guardò incuriosita: -Mi dica-

-Ma lo sa che è una bella donna, glielo dicono mai?-

Rise e scosse il capo, quel mattino non si era neppure truccata, per fortuna aveva almeno la cintura a disegnarle la vita, se no, se no è come se fosse uscita nuda.

A spogliarla con gli occhi ci pensò lui, la metà dei suoi anni, il doppio del suo credere ai sogni.

-Le posso offrire un caffé?-

-No, grazie-

-Ma è sposata?-

-Sì-

-Felicemente?-

-Sì-

-E…-

Semaforo verde

La vie en rose,

che a volte gli oroscopi hanno ragione, è questione di pianeti e congiunzioni.

E,

congiunzione,

di due periodi.

-Io lavoro al ristorante giapponese, quello sul porto, la aspetto-

Le auto sfrecciarono via, mentre lei scosse il capo.

Quella sera tracciò con cura la linea sotto gli occhi, passò l’ombretto sfumando in angolo, disegnò le labbra, raccolse i capelli,

alti, sul capo.

Lasciò scivolare l’abito di seta sulla pelle,

la vie en rose,

profumi a gocce dietro l’orecchio,

ad aspettare sussurri.

Il porto si beava sul mare di quell’ora luminosa prima della sera.

Il sushi è pesce crudo, tipico della cucina giapponese, affacciata sul mare una candela si consumò.

La vie en rose,

des nuits d’amour

à plus finir

Gracìa passò la mano sullo specchio, per togliere via l’opaco di umidità creato dall’acqua della doccia, poi lasciò cadere l’accappatoio accanto ad un altro, nel disordine stropicciato di certi letti, il mattino dopo, che non hai dormito, ma la pelle ride e non serve la matita sotto gli occhi.

Importante una cintura, in vita, perché senza sarebbe come essere nudi…e nuda lo era stata tutta la notte, sulla discesa della via en rose,

e un coccodrillo, sulla maglietta…




a un'amica

Il ceramista del Giardino di Boboli


Il collezionista di ceramiche viveva al Giardino di Boboli, nel lento cammino dei passi perduti sulla scia di fontane e il frinire di cicale, tra ulivi e cipressi.

In ordine perfetto si posavano nelle vetrine tazzine da caffé nel lento giro del tempo che faceva equazione di volti screpolati e gli Sdruccioli dei Pitti, nella pagina rovesciata di guide turistiche e cartine per perdersi.

I ponti erano l’abbraccio di due sponde quando si raccontava di case abbandonate con persone abbandonate dentro dal balcone su quella città dalle vie strette che era Firenze.

Il Duomo rintoccava l’aria di mezzogiorno,

chiamava

San Lorenzo rispondeva.

Io ti dicevo: Ti amo,

e tu tacevi.

Tenevi il tempo di una cena a lume di candela in giro di sol tra le dita mentre la luna apparecchiava in quel che restava nei bicchieri, tra mezzanotte e note mezze scalze sugli Sdruccioli dei Pitti.

-Ti voglio liquida tra le mie dita

Mentre Mozart stava chiuso in un CD e tazzine da caffé di porcellana viennese.

Liquido il tramonto sull’Arno, liquida la luna da Ponte Vecchio.

Giro di sol, nel Giardino di Boboli,

quel caffé che a berlo ci abbiamo messo quasi un anno.

Caffé lungo.

venerdì 11 luglio 2008

Era solo un gerundio


Fummo già creta, costole della terra e di barbariche invasioni, prigionieri nell’odore di muschio e di sesso.

Passaporti

Che già seppellii briciole di ossa, quel che restava di noi dopo, per far nascere l’albero di un figlio, orfano di parole. Le avevamo già dette tutte nel lento disgregarsi dei nostri discorsi deliranti. Era solo un gerundio. Proposizione implicita. La malaria ci assaliva con ondate nere mentre affondavamo le dita come radici di mangrovie, sputando sale dalla pelle.

Pane azzimo quello scarto di presente coltivando un fazzoletto di cielo tra palazzi verticali. Zingare con i bambini in braccio, nuove madonne a mendicare.

Non ci indurre in tentazione

Solo un vecchio orologio da tasca batteva ritmico i minuti e le ore dal fondo di un cassetto dove ogni sera lo riponevi dopo aver dato la carica.

Le travi del soffitto piovevano polvere di tarli.

Fummo più vecchi, fummo amanti e acerrimi nemici e ancora amanti, nella tragedia umana del nostro sopravviverci.

Non ci indurre in tentazione

E quando terminò l’orgoglio, quando avidi bevemmo l’ultima goccia di liquido seminale, quando il cuore guarì i lividi, arresi ci amammo.

Con passione e furia, con l’urgenza di un tempo avverso, non nostro, era solo un gerundio.

Al vecchio monastero di Colonna i pescatori riponevano le reti.

Istantanee

Così, sfiniti amanti, passandoci uno zuccherino al laudano su labbra livide.

Così guarderai le mie curve morbide come le donne di Botero.

E l’amore di parole lavate con il sapone di Marsiglia, appese al collo ad asciugare vergogna di schermaglie e regole infrante, come vecchie porcellane inglesi. L’ora del tè era solo un gerundio.

L’amore.

Che ci sconfessammo tutta la vita, negandoci l’odio, l’unico rancore che potesse salvarci.

E fummo schiavi della terra.

Arrivammo all’altare quando dio se ne era già andato.

mercoledì 2 luglio 2008

La curva di San Martino

Alla Contrada del Bruco



Il sole era rotolato dietro alle colline, lasciando in cenere la notte; tossivano le luci alle ultime finestre, si soffiava sulle candele fino a spegnerle.

Cera rappresa a creare fantasmi contorti.

Notte nera e senza luna, un uomo incappucciato camminava appoggiato al suo bastone, l’ombra di una falce sulla strada e un rosario da sgranare, di lamenti e tarli a consumare le idee.

La città dormiva quando bussò alle sue porte.

Chiuse

Dormivano le sentinelle, languiva il fuoco tremando ombre sui muri.

Bussò infrangendo le dita sulle borchie di ferro e aloni di ruggine.

La zingara girava i Tarocchi.

Il Carro

Dal cappello la massa incolta

spioveva sul viso.

Lui, ora fantasma

prigioniero di fogli pigri di polvere e inchiostro,

notte di vento

che la luna non è ancora sorta.

Beve dalle fontane

il tempo rimasto

a un sogno rubato dalle tasche di una zingara.

Note di vento

a giocare con le carte del destino

e dietro la collina

dei perduti domani,

una falce di luna.

Tarocchi.

Passi stanchi in Via degli Orti.

Il Destino sa aspettare, arriva poco prima di una scelta.

La Nonna vegliava nell’attesa del volo della civetta.

L’alba sussurrava alle contrade agitando appena gli stendardi, fremeva il giorno di attesa e ferri di cavallo.

Sabbia la piazza, valva di conchiglia, l’uomo col cappuccio mescolò cavalli e cavalieri nell’intreccio di una giostra.

-Il dado è tratto-

Medio Evo-Medio Regno

Chiese e confraternite a mormorare nell’ombra tra sacro e pagano e zoccoli di cavallo lungo la navata dove l’uomo col cappuccio consumava i suoi piedi scalzi, scheletri sul pavimento.

Rideva forte svuotando le acquasantiere, battesimo dei contradaioli.

Fuori, nel giorno a volgere le chiarine intonavano un canto antico, il mossiere lasciava cadere il canapo a terra.

Gira, gira la piazza che un uomo e il suo cavallo, zoccoli e polvere, un colore, una contrada, il cuore salta un battito.

Muscoli, nervi e testa.

Dove va la testa quando Bastiano alla curva di San Martino è ancora in testa.

Gira, gira la piazza e impazza la folla.

L’uomo col cappuccio si alza sugli spalti e tiene il tempo di un mistero glorioso. Palio dell’Assunta.

Vespro della sera.

Le rughe sulla fronte, le mani strette al Destino, polvere, un tamburo nelle orecchie, piegato a tagliare l’aria che la curva di San Martino cade, disarciona, uccide, il Drappo nelle mani, un cavallo capotavola, la notte quando l’uomo incappucciato cade in polvere sulla sabbia della piazza e la curva di San Martino è solo un pezzo di cerchio all’ombra della torre, quando si posano le sedie di un bar.

Un parterre di chi sa che esserci è un’altra cosa, tre minuti su un orologio, il tempo fratto la velocità in radice quadrata di un destino nelle tasche di una zingara.

Misticismo e religione di piazza, parole perpetue, Ave Maria e riti profani.

Medio Evo-Medio Regno.

Passa una zingara, impronte sulla curva di San Martino.