sabato 19 aprile 2008

La pioggia delle sei a Canal Street






Su Canal Street la pioggia cadeva fitta, e dalle grate sulla strada si alzando sbuffi di vapore, nuvole di drago.

Le auto procedevano lentamente, si accendevano le luci rosse degli stop, e affogavano nell’asfalto liquido; la lunga carovana delle sei, del noon, quando si torna a casa.

I venditori cinesi proteggevano la merce con teli di plastica che raccoglievano il crepitare della pioggia.

Ambulanti all’uscita della metro vendevano gli ombrelli e si svuotavano i parchi dove fino a poco prima gli anziani giocavano a carte.

Lui arrivava da Brooklyn con la linea gialla.

Lei attraversava Little Italy.

Il segno della croce davanti a Santa Rosalia, e qualche turista a soffermarsi sul tricolore.

Avevano appuntamento al Caffé Roma, perché nel cuore di New York si sentivano più italiani lì, anche se il caffé era mediocre, ma meglio dei beveroni di Starbucks. E poi i dolci non erano niente male, davvero.

Lei osservò con disappunto le scarpe fradice, stringendosi nell’impermeabile mentre apriva la porta del locale, lui era già lì seduto a un tavolino in vetrina, le gocce di pioggia sugli occhiali da sole, i vestiti umidi e un bel sorriso.

Lei lo baciò sulla guancia con quel fare distratto, la barba incolta a pungerle le labbra, le buste dello shopping ancorate al mignolo e l’ombrello che gocciolava.

Alfredo, l’anziano proprietario, le si fece incontro, con in mano un canovaccio e l’accento napoletano:

-Mi allaghi tutto, signorì- l’apostrofò bonariamente prendendole l’ombrello e ricomparendo con due bicchieri d’acqua ghiacciata.

Marco scosse la testa: -Ma è mai possibile che quando ci vediamo piove sempre?-

Isabel allargò le braccia: -Sono o non sono la signora della pioggia?-

Parlarono poco, dell’essere lì, di un lavoro e un passaggio per caso, e i Carabi vicini come un mazzo di isole, a poche ore d’aereo.

Quando uscirono lei si aggrappò al suo braccio e camminarono tra le pozzanghere. Poca gente in giro. Le insegne al neon dei locali via via si accendevano.

Cadeva la pioggia delle sei.

-Dove andiamo a cena?- domandò lei.

-Sai che mangerei stasera? La pasta coi ricci- rispose Marco.

E piano salì l’onda malinconica, come una corrente dall’East River.

Pensarono a un posto lontano, Savelletri. I pomeriggi d’inverno e un capanno sul mare, coperto da un telone azzurro, i pescatori portavano i frutti di mare appena pescati. Ne mangiavano il cuore su fette di pane, mentre fuori il vento gonfiava il mare. E una camera, per gli amanti.

-Andiamo all’Oyster bar?- propose lei?

-No. A casa tua, ho un aereo a mezzanotte.-

E tra le gambe il gusto di ostriche e mare, aroma di pioggia, sprigionato dai vestiti caduti ad uno, ad uno e la mela del peccato, come il monte di Venere.

Nudo d’autore, a l’ombre de Notre Dame

Picasso



“E’ quasi impossibile trovare una persona più sola di me”

Il pensiero di Lei rimaneva sulle labbra mentre il rossetto dava luce al sorriso, in sottotono, quasi in accordo di do, indomito il cuore.

Anemoni e ginestre, disegnati sulle pieghe di un vestito, di attesa primavera.

L’incanto di giovani passi, e tessuti di cielo a disegnare lo sfondo ideale di un corpo arreso e un cuore inquieto.

Le scale di corsa, odore di muffa, bisbigli dietro alle porte, una soffitta, nello sbieco taglio di luce di un pomeriggio tardo a venire, come Maggio, disegnato di pulviscolo da una finestra e sul davanzale dei tetti, Parigi.

Lui assorto, la tela bianca, odore di colori ad olio.

Sigarette a metà.

Bohèmien, eccentrico e raffinato, magneticamente bello, ritratto distratto ai cafè di Montparnasse, quando sotto le unghie ancora si vedevano le polveri sciolte per i colori ad olio.

Di quando le dipinse il colore sulla pelle nuda, lasciandosi andare contro di lei.

L’amore dopo.

Macchie di colore su un lenzuolo, tela improvvisata a dipingere sesso e amore.

Lei,

rumore di passi, dietro il paravento di carta di riso, color carta di zucchero, come certi cieli a Venezia, che non ho più rivisto.

Gli stivali, la giacca, il cappello, stropicciati sulla sedia, gioco di calze, da arrotolare piano, dalla coscia, giù passando per le gambe, indugiando sulle caviglie, piccoli piedi nudi.

Gli slip abbassati di troppa fretta, i seni turgidi.

Ombre, che lui raccoglieva, dietro il paravento di carta di riso, color carta di zucchero.

Filo di fumo, fiato sottile.

Giovani passi.

In piedi e contro luce, gioco di molte ombre.

Carboncino

-Sei in ritardo-

La luce aveva un taglio diverso, come di nuvole dispettose nel cielo di primavera, ombre sui prati.

Incompleta variabilità di un attimo.

Immobile statua, farfalla fermata in volo.

Tela e olio

Colori

Lui: “Per lavorare ho bisogno di essere vivo, l’astrazione mi affatica…mi uccide ed è come un vicolo cieco”

Lei: “Per un solo istante di pace all’eterna pace rinuncerei”

Le parole cadevano senza ombra nel buio di una via senza uscita, di due corpi spogliati e nudi anche per la via, in mezzo alla folla.

Impazzire di desiderio, di lei.

Poeta ardente Modì, tutto grazia, tutto collera, tutto sprezzo.

-Ora vattene via-

Ombre e lividi che dall’anima non si cancellano e non si lava via il colore della passione.

Lei: “Dammi anni amari di infermità, d’affanno, di febbre, d’insonnia, prendimi il figlio e l’amato…”

Quell’aria della sera, volo basso di pensieri declamando a memoria Baudelaire.

Le campane di Notre Dame.

Un bicchiere a metà.

Sfiorare la giacca di velluto logora, legando i capelli con un suo foulard bianco.

Si rivestiva in fretta, mentre un gatto giallo la osservava annoiato.

Le scale, due passi alla volta.

Parigi lungo la Senna.

Quel foulard bianco sul capo, musica d’organo a Notre Dame.

In ginocchio.

Oh Maria concepita senza peccato,

pregate per noi,

che ricorriamo a voi.

Amen

Osservo quei Modigliani, nell’essere la tua Modì, stropicciati volantini di un museo sui lunghi colli sinuosi che sorreggono quasi corolle, su fragili steli.

Volti allungati, costruiti da un segno sottile che si snoda leggero, con singolare finezza, chiudendo le forme in un ritmato gioco di arabeschi di squisita eleganza.

Sfiori il mio collo e il viso, allungato di lacrime.

Sorridi.

-Sei la mia Modì-

Peccato che io non sia Anna Achmatova e tu Modigliani.

A dipingere la pelle di passione, questo lo sappiamo fare.

Solo questo sappiamo.

Io non devo essere importante per te e tu non devi esserlo per me.

Mi spogli.

Ti spogli.

Noi,

nudo d’autore.

Campane.

A l’ombre de Notre Dame.

(Le frasi tra “virgolette” sono di Modigliani e di Anna Achmatova)

giovedì 17 aprile 2008

Ballavamo il sirtaki al Cafe d’Amour





“When the moon hits your eye like a big pizza pie
That's amore…” D.M.

Il mago murrino ballava il sirtaki con il mimo sulle scale del teatro.

Maschera veneziana di gesti antichi e raffinata memoria, un boa di piume sul collo, in salotti letterari e casa di bambole.

Muoveva le braccia impiccando vocali con il rigo del pentagramma e sulle mani bianche come cera ammaestrava rondini, note di un Carnevale di annegate lagune.

Al Cafe d’Amour gli sgabelli intorno al tavolo giravano come cavalli di una giostra, ci siamo stati tutti. La notte di Halloween ricordavamo le estati su una terrazza davanti all’isola dal profilo di tartaruga, e piume da raccogliere, piegavamo i lembi di un tovagliolo per farne barche di carta da far scivolare tra le bollicine del Rotary che bevemmo a turno, passandoci il Graal alla Cappella dei Templari.

Oh, sì, era lo skipper di transatlantici mai salpati dall’etichetta, sul collo verde di una bottiglia.

Oh, sì, Cafe d’Amour a ballare il sirtaki come in certe taverne di Atene, l’inverno, e l’Ouzo aveva la voce di anice e assenzio.

Passarono tutti di là e di là qualcuno se ne andò, la morte nel mazzo dei Tarocchi e il Fool, era solo un matto.

Che matto.

Lui, aveva parole gravide, negazione di rose rosse, lasciava messaggi nella copertina dei libri, a fermentare e sigarette a metà.

Sigarette americane, l’aggettivo di un blu. Mozziconi di presente.

-Devo comprare un posacenere-

-Ma non fumi-

Ballammo il sirtaki anche quella sera, senza banchetto.

Lunghe notti di brume nebbiose tessendo tele di ragno, il velo della sposa, strascico sulla navata di San Filippo Neri. Troppo lungo il cammino per l’altare e il tempo di un “non lo voglio”.

Che noi fuori, su una barca di carta, tenevamo stretto il riso che nell’attesa germogliò lavanda tra le dita.

Un quarto di luna da lasciar passare tra le maglie larghe di una coperta di neve nel solstizio d’inverno.

Origami.

Caffè freddo al Baratti & Milano.

Barattami il presente con l’eternità, sortilegio di una strega al Tempio di Danamur, che Le Chat Noir era un ristorante, a Parigi.

E lui era un pescatore di ostriche da assaggiare con la lingua.

I denti in filo di perle per la sposa eretica tradita Sharazade di tempi moderni.

Ballavamo il sirtaki tenendoci abbracciati e muovendo a ritmo le gambe, poi mettevamo acqua di Po sui polsi, profumo di muschio per sciacquare lenzuoli di sanscrito.

Restavamo sulla riva come barche rovesciate di parole,

leggendo Talgo, in incappucciati presenti a intrecciare sul petto delle colline scialli di nebbia.

Poi un ramo d’abete conficcato nel cuore la seconda domenica di Quaresima.

Non ballammo più il sirtaki al Cafe d’Amour, caro il mio barbarossa.

giovedì 10 aprile 2008

Hombre sobre azul

Picasso






La notte cola piano i gradini sulle ombre morbide degli avanzi di un vino straniero.

Ecco cosa resta dell’azzurro ferito dalla scia di un aereo,

su questa scala a scendere di pietra

l’ombra di una chiesa,

un uomo.

Le due del mattino, non suonano di

notte

le campane di questo paese,

note,

che il colore della tua ombra domani sarà eredità d’azzurro.

Hombre sobre azul

Del tuo viso appoggiato alle mani,

pesa il tuo viverti solo ma basti a te stesso,

ombra d’uomo

nel riflesso di quel che resta di lacrime

cade in “si” bemolle,

mollemente appoggiato al mio cuore.

Scende il sipario di palpebre sugli occhi

e quando le ciglia solleveranno il velo rammendato

non sarai più lì,

o forse avrò solo spostato lo sguardo di qualche grado

sulla bussola a inseguire cardinali i punti opposti al nostro esserci.

Rintocco a svegliare il giorno,

vecchi i tuoi pensieri lasciati come muffa sui gradini di pietra,

di una vita senza assi per il full,

chiodi sulle dita,

per un bozzetto fermato

a

ingiallire.

In verticale il mio parlare,

rovescia il foglio e sfila hombre sobre azul,

il tuo lento morirmi dentro.

Ad occhi aperti

dormire gli incubi,

che in fondo la cenere è quel che rimane di una sigaretta.

Hai da accendere?

(Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)

domenica 6 aprile 2008

Il pittore e il gatto naif

Picasso



Pinar del Rìo.

Lei stava distesa su un fianco la mano a sorreggere il viso e i capelli ad accarezzarle la schiena nuda.

Le gambe giocavano a nascondino con le lenzuola stropicciate, come una vestale a uscire dal marmo prima che lo scultore l’avesse plasmata.

Capricciosa come una voglia di fragole, posava per un ritratto che voleva.

Il pittore guardava la luce calda che filtrava dalla finestra, al Pinar del Rìo cadeva obliquo il tramonto, e le piantagioni di tabacco sembravano un esercito di mendicanti alla sua cena povera.

Dalla porta socchiusa entrò il suo gatto, vide la coda alzata seguire il perimetro del letto.

Miagolò.

Si leccò una zampa. Lei lasciò cadere una mano ad accarezzare il mantello soffice, lo sguardo annoiato.

Allungò l’altra mano per prendere il bicchiere sul comodino: vuoto, solo l’aroma del rum a ubriacarla. Puntò verso il pittore l’indice e il pollice mormorando Bang-bang.

Si alzò, le curve del suo corpo scivolavano lungo il corridoio.

Il rumore della doccia e la suo voce che cantava “Goodbye Philadelphia…”

E l’America si srotolava su lunghe vie d’asfalto, e deserti e ponti e città.

Lui tracciò poche linee sul foglio, la curiosa visione naif di cacciatore e preda, le movenze feline della donna e la sua voglia. Di un pomeriggio e la sua isola. Di movimenti nel letto sensuali come un tango di sguardi e di mani che seduce, anche dopo mille anni.

A Santo Domingo, poi i pittori vendevano tele ai turisti. Ma questa è un’altra storia.



Dal quaderno di Pablo Y Ruiz