sabato 24 settembre 2011

La mia vita

Fabio Volo

La mia vita

“Quanto possono mentire le fotografie?

Una vita piena, solare come una bella fotografia, pensava, e le fotografie non mentono. E quando un uomo dice ti amo lo dice sul serio.”

Una fotografia ferma le immagini in un attimo esatto, è impietosa negli anni e rivederla, a volte, rimette in moto la giostra dei ricordi.

Felicità e lacrime di chi non c’è più. Tratti di vita che si riannodano dal filo del passato.

Ma si può viaggiare tenendo lo sguardo allo specchietto retrovisore? Si deve andare avanti.

In queste pagine la protagonista rinuncia all’avere per l’essere. Comunque se stessa.

Rinnegando una famiglia di comodo, con sentimenti di facciata e ipocrisia.

Sceglie di uscire da una cornice erosa dai tarli. Di bugie e ripicche. Di tradimenti e rassegnazione.

Fabio Volo cuce su di lei una metafora perfetta, che è quella di una sirena, regalandole la libertà, di essere viva.

domenica 18 settembre 2011

Il lato B dell’Arneis

La Bianca saliva fino alla collina. Ogni mattino appena faceva giorno, il fazzoletto in testa, le cesoie o le ceste, a seconda delle stagioni. Se erano giorni di potatura o di vendemmia.

Ah, la Bianca. Sinuosa e morbida. Sempre generosa e sorridente. La Bianca non era mai sola.

-Nonno, ma sempre con questa cantilena- Mattia sbuffava mentre le sue gambette corte e abbronzate dondolavano sotto il tavolo.

Suo nonno sorrideva, un po’ lo faceva apposta, perché gli piaceva quella smorfia da piccolo adulto che si disegnava sul volto del nipote.

Vivevano sulla sommità della collina e di lì si dominava con lo sguardo, anche in un solo abbraccio distratto, il panorama morbido delle Langhe, i filari ben disegnati, più in basso i noccioleti, l’ansa del fiume.

Il Marchese di Barolo allargava le braccia, socchiudendo gli occhi, come a pesare la qualità dell’uva di quell’anno, o la siccità, o la temuta grandine, Mattia allora gli si avvicinava e diceva:

-In quella direzione c’è Torino, e là, se cammini per di là, arrivi sino al mare.-

Quante volte se l’era sentito ripetere.

Anche la Bianca era arrivata fino al mare, un giorno, di nascosto, con la Giulia e la Gilda.

Terra di vini corposi, di rossi importanti, impegnativi. Terra generosa.

Le uve bianche erano sorelle povere, vitigni coltivati per tagliare le uve Nebbiolo.

Il Marchese aveva una passione per il pesce. Venivano talvolta gli amici dalla Liguria ed erano sempre serate di feste, di tovaglie apparecchiate di tempo e di ricordi, di posti aggiunti, di posti vuoti di immancabili macchie di vino.

Il cappon magro, quello di U Santu, che saliva fin lassù per fare festa con l’amico di sempre.

Il Pigato che si portava appresso si sposava bene col pesce. Ma poi si facevano le grigliate di carne e la selvaggina e ardua era la lotta tra Barolo e Barbaresco.

Caparbio il Marchese scendeva nelle vigne a fianco dei contadini con le maniche arrotolate sui gomiti, lui lo doveva produrre un bianco, grande, famoso, amabile.

Nacque l’Arneis.

Mancava l’etichetta. Ci pensò un vecchio amico, il grafico Coppola che creò una grande B con gli occhielli vuoti così da spogliarne l’anima.

E sì, il lato B dell’Arneis.

Quel pomeriggio Mattia tornava da pesca con alcuni amici e lo zio Cesco.

-I pesce-gatto nonno- mostrò con orgoglio.

-Stai attento sai- disse con fare cospiratore il vecchio -questi non muoiono mai, conosco una signora che ne aveva comprato uno al mercato e riposto nel frigorifero. Tanto fu il suo stupore quando aprendo lo sportello trovò il pesce, vivo e vegeto e nel frattempo si era mangiato tutto quello che stava-

Il bambino rise di gusto.

Lo zio Cesco rivolgendosi al fratello disse: -Lo vogliamo provare questo Arneis?-

La tavola imbandita, la governante che si prodigava a servire i piatti e la bottiglia che si affacciava ora a un bicchiere ora a un altro.

-Niente male il lato B?- domandò il Marchese.

-Fratello.- lo riprese bonariamente Cesco pensando che si riferisse alla governante.

-Il lato B dell’Arneis. Che hai capito.- Loro, i fratelli Barolo.

Oggi Mattia è cresciuto, il Marchese si è fatto più vecchio.

La Bianca sale caparbia ancora tra le colline.

Oggi Mattia ha capito che la Bianca è la strada e non una bella donna, ma gli piace pensare, come faceva da bambino, che in verità la Bianca fosse una bella donna di cui era innamorato il nonno e che il famoso lato B dell’Arneis non fosse proprio riferito al vino.

La Bianca saliva fino alla collina. Ogni mattino appena faceva giorno, il fazzoletto in testa, le cesoie o le ceste, a seconda delle stagioni. Se erano giorni di potatura o di vendemmia.

Ah, la Bianca. Sinuosa e morbida. Sempre generosa e sorridente. La Bianca non era mai sola.

-Nonno, ma un giorno la Bianca arriverà fino qui?- domandò Mattia abbracciando la valle e i suoi filari, e i grappoli maturi.

Il Marchese stava seduto sulla sedia, una coperta a scacchi sulle ginocchia, lo sguardo lontano.

A un giorno, in cui anche la Bianca era arrivata fino al mare, di nascosto, con la Giulia e la Gilda.

domenica 11 settembre 2011

11 Settembre, I love NY


-Dopo il crollo delle Torri Gemelle l’Empire è tornato ad essere il punto più alto di New York, la mano con cui la città dei sognatori cerca di acchiappare il cielo- Paolo Cognetti





Questo è l’unico ponte al mondo dove le persone camminano sopra le auto, le auto sopra le navi e le navi sopra i treni.

-E che posto è?-

-New York, young man. Questa è l’America-

Quell’uomo era certamente un immigrato, lo si avvertiva dall’accento, un che di siciliano, mescolato a pistacchi di Bronte e cannoli alla ricotta.

Osservavano una cartina della città, attraversata dai suoi ponti, Brooklyn e Verrazzano.

Ero uscita dalla metropolitana e restavo sul pontile a guardare Liberty Island, con il profilo di una statua che era diventata icona ed emblema, per chiunque entrava dall’oceano.

Un po’ come un faro.

I turisti facevano la coda ai botteghini per imbarcarsi con i traghetti.

L’anziano uomo e il ragazzino erano seduti su una panchina poco lontano da me.

Ascoltavo quel misto di italiano e americano smozzicato, e sorridevo.

Poi finalmente mi decisi a voltarmi, quel vuoto tra i palazzi non era cambiato. Tante volte avevo sbattuto le palpebre sperando fosse solo uno scherzo dello sguardo. Le torri non c’erano più.

C’è un poster nel mio studio con lo sky line di New York dove ancora svettano, un fermo immagine, come un falso storico.

11 Settembre, chiunque fermi per strada oggi ti saprà raccontare esattamente cosa stava facendo quel giorno mentre tutte le agenzie battevano la notizia di un’esplosione alle Twin Towers.

E tutti abbiamo visto in diretta il secondo aereo. L’inizio della fine.

Il sogno americano, sopravvivrà alla cenere?

Mi domando, mentre mi incammino verso Ground Zero.

Sulla mia maglietta c’è scritto: I love NY.

sabato 10 settembre 2011

Qui Baghdad, mi ricevete?



  • Marco Aurelio: Come posso ricompensare il più grande condottiero di Roma?
    Massimo: Lasciami tornare a casa. Da: Il gladiatore
Il cielo colava sillabe lavanda all’orizzonte sfumando su un tramonto di fuoco.
Le parole virgolettate appese al collo come le piastrine di riconoscimento dei marines. Quello che resta di noi, inciso nel ricordo. Un vinile di bugie e lacrime consolatorie.
Cenere ai miei piedi di illogiche e verticali vertigini. Attraversami la carne, lama perfetta di una mezzaluna sul mare a dondolare onde a ritorni dispari. Soffio al cuore, che pesa nel tuo vaffanqualunquismo spicciolo, di chi con le parole carica a salve il gioco di una roulette.
Sei bravo a dire quello che gli altri vorrebbero sentire.
Piovono migliaia di proiettili e crollano palazzi di giorni e giorni di noi.
Qui Baghdad, mi ricevete?
La guerra intorno a noi.
Il motociclista a terra. La motocicletta poco lontano, segni sull’asfalto. E proiettili e morti.
La tua mano che afferra la mia. Sollevi la motocicletta e riesci a farla ripartire. Via nella notte, lasciando alle spalle fumo e vittime e centomila perché.
La notte, il buio, la strada. Lacrime.
“Devo essere io a badare a te?”
Quaggiù c’è la guerra.
Qui Baghdad, mi ricevete?
Trame sottili su cui far camminare ordinate file di formiche, intrecciando pensieri dispari in tempi di condizionali, l’unica forma verbale concessa.
Hai tatuato la mia pelle di lividi e ferite, genuflesso a un dio che non conosci, convertito al dramma di un gioco al massacro.
Libera l’anima, lasciami sacche amniotiche a far crescere girini nello stagno dei tuoi occhi.
Come in un film muto leggi il labiale dell’odio consacrato come agnello sacrificale in una Pasqua tardi a venire. In questa terra non nostra.
Qui Baghdad, mi ricevete?
La notte mi corre ai fianchi, mentre la moto punta le luci di una città, al limitare del deserto.
Il peso dell’odio mi sta attaccato alla schiena e strappa la carne a far crescere ali a salvarmi da te.
Una volta per tutte.
Seppellisci il mio nome in quell’avanzo di pietà che ti chiedo.
Qui Baghdad, mi ricevete?
Riceviamo Baghdad
Mayday

mercoledì 7 settembre 2011

Super Santos

Roberto Saviano

Super Santos

“Il Super Santos non era un semplice pallone. Era il pallone. Una sfera arancione fuoco con le canalette nere che formava figure geometriche. Resisteva a tutto, e anche se tiravi con tutta la forza che avevi, riusciva a mantenere la direzione. Quando qualcuno immaginava un pallone, lo immaginava arancione, nero e con la scritta gialla. Immaginava il Super Santos”

Napoli è lo sfondo, il palcoscenico, la realtà nella realtà di una gioventù bruciata che correndo dietro a un pallone, dribblando auto e motorini, cresce con un pugno di niente nelle mani e un pallone al piede.

Fino all’ultima pagina che denuncia, richiama, grida l’ingiustizia di crescere qui, e un pallone ancora sul muro. Nessuno in porta, nessuno in difesa, nessun centravanti.

L’amaro bicchiere, mezzo vuoto, della vita.

Saviano sa creare trame spesse e intricate anche in poche pagine.

sabato 3 settembre 2011

Il faro



Il vecchio faro stava appoggiato sulla riviera di levante, incrostato di salsedine, con l’aspetto di un vecchio amico per le barche che entravano in porto.

La casa nel faro era piccola, con le finestre alte dove nei giorni d’inverno, quando soffiava il Mistral, il mare era pianto sui vetri.

Scegliemmo le stampe che riproducevano i quadri di Andy Warhol, a fare compagnia al vecchio buffet celeste comprato a un mercatino.

L’edera disegnava geometrie dispari intorno alla porta.

Una vecchia bandiera sbiadita e sfilacciata denunciava la nazione di appartenenza o di abbandono. Dipende dai punti di vista.

La sera il cielo non stava fermo, con quel continuo cadere di stelle e desideri da esprimere.

E quando la luna era piena la piccola strada bianca scendeva sino al mare e risaliva, nell’intermittenza della luce del faro. Per non perdersi.

A volte ancora spio quella casa dal buco della serratura: le stampe di Warhol sbiadite, il vecchio buffet senza una gamba.

E quel cielo inquieto come il mare sotto il Mistral che non ne voleva sapere di stare fermo.