sabato 12 dicembre 2009

Da Montmartre a Montparnasse andavamo a piedi

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La sensazione di trovarsi in viaggio la si prova già dal titolo e le scarpe in copertina promettono che si andrà a piedi.
Atmosfera intima di un viaggiarsi dentro che l’autrice crea “mettendo in tavola” ingredienti semplici sempre conditi da un pizzico di esotico, ma anche quel buon sapore di trovarsi a casa in ogni angolo del mondo.
Non è un viaggio di scoperta, non è la lunga ricerca di Itaca, non sono cartoline, queste pagine rappresentano la scenografia ideale dove attori ignari si trovano loro malgrado ad essere osservati e fotografati dall’occhio attento di chi scrive.
Una frase, un abito, un gesto e si aprono storie in un caleidoscopio di luoghi.
Piazze, città, lidi esotici si alternano, si affacciano per lasciarci in bocca il gusto di un caffé, il sole sulla pelle e la consapevolezza di essere andati molto lontani per trovarsi la sera stanchi.
Ma questo è il prezzo, in fondo Montmartre e Montparnasse non sono così vicini.
Viene facile domandarsi ancora se sono le persone a rendere speciali i luoghi. Sì, Parigi, ad esempio, può essere tristissima se vista con la persona sbagliata.
In questo libro ogni posto ci lascia con la dolce malinconia di averne assaporato l’essenza.
Come l’aroma di un buon vino che aleggia sul fondo dei bicchieri dopo una festa.

venerdì 11 dicembre 2009

Christmas Tree. Pattinando al Rockfeller Center



La Grande Mela ha un cuore che per Natale si veste di magia. Le bocche si fanno fumo, le mani nelle tasche e improvviso si veste di luce l’albero di Natale a Rockfeller Center. Perpetuando quello che è per davvero il miracolo della 34th Strada.

Ci sono posti che ci restano addosso come un vecchio maglione, comodo, cucito sulle nostre passioni, così è New York per Martha Gilbert.

Grand Central è affollata come sempre, vestita a festa, di un tempo fatto di attesa. Mentre i treni si alternano e il tabellone di arrivi e partenze scandisce il presente. Di chi è già andato via, ma lascia nell’aria il gusto di un bacio.

Andrè la sorprende sempre, con l’aria malinconica di chi è solo di passaggio, senza radici. Come un albero di Natale che per un po’segna il passo nelle nostre vite, il quarto di secolo di un momento.

Le mani a scaldarsi sui bicchieri di Starbucks, al ritmo di un jazz ancora nelle orecchie, ascoltato a Central Park, la musica della terra, di ogni angolo di questa città che ti racconta favole nuove, ad ogni angolo di via.

Per mano sulla Quinta, nel fiume di persone riflesse nelle vetrine.

Si pattina sulla pista del Rockfeller. Giri di valzer come in una corte viennese, di un tempo antico.

“Ieri hanno acceso l’albero di Natale”

“Lo so. Ci pensavo. A migliaia di chilometri da qui. Le tue mani nelle mie, nelle tasche del cappotto”

Martha sorride. Pensando che la magia è la stessa ogni anno solo lì.

Che pensare a quell’albero che si accende da Parigi o da Milano, è come guardare una cartolina.

Che se ti allontani e da una finestra di una casetta del Queens guardi lo skyline di New York, mentre una busta di plastica agitata dal vento porta la scritta I Love NY, non è la stessa cosa. L’alchimia di quel luogo è solo lì. Ed esserci è sentirsi addosso questa città, come un maglione caldo, come due mani nella tasca del cappotto, come scoprire un angelo, dietro una sciarpa di lana.

E far nevicare da una sfera di vetro. Agitandola.

venerdì 20 novembre 2009

Si firmava Pablo Y Ruiz



Zingaro bugiardo a cercare tra i colori il taglio netto di luci orfane alla finestra di un tramonto, di giorni felici.

I passi due alla volta dispari con il cuore e i rintocchi di S.Maria del mar.

Parole mendicate sui gradini della chiesa “Io ti…” restano ferme nella gola come marmo appeso al collo da far naufragare pensieri sterili.

“Io ti…” di un tempo andato, tanto tempo fa.

Grandi falsi d’autore.

Parole nuove

Scendimi in verticale il tempo del perdono.

Bugiardi gli occhi e le parole. Quelle mai dette. Dimenticate, quotidiani sui treni, già vecchi.

Uno specchio incrinato a falsare anche il presente. Un taglio sul viso.

E un altro quadro.

Vernici a seccare. Giù in strada. La tela su una sedia e il sole obliquo d’autunno a tagliare di netto la luce sul carrer.

Violinisti e monete straniere.

Eco di mare dalla bocca delle conchiglie

La cenere appesa alla bocca consumava il presente, mentre il mare andava e veniva sulla battigia, seguendo un filo di pensieri, forse appesi a un quarto di Luna, ancora nuova. Curioso il tempo delle cose dopo milioni di anni.

Il tempo dei colori, indelebili, che restano dopo di noi.

Ah, la notte, buia di mare appeso agli scogli. Di gatti lamentosi. Non dormono.

Tratto perfetto, nascosto, inseguito da linee, confuso sussurro di chiaro-scuro.

Un tratto su un foglio, che non sapeva stare fermo. Inseguiva se stesso. Come un mago a cercare magia da due soldi da un cappello rovesciato.

Cornice perfetta orlata di tarli. Il presente.

Gli occhi del tuo tempo già stanchi di astratta perfezione, il cammino indeciso di un cuore in scacco con il tempo. Il non tempo dell’amore.

Vieni e perdona questo spirito errante, mano naif sui giorni uguali, a mendicare un’opera buffa.

Sì, che non sia tragedia.

“Io ti…” che ormai hai dimenticato, tra fessure socchiuse, tra le palpebre e gli occhi.

Avvelenato di colori e forme. Sedeva il pittore. Sedeva a un passo dal mare. E aveva perso il conto dell’eterno movimento di onde. Che vanno, vengono. Moto perpetuo dell’acqua.

Ne aveva perso il conto, come chi ogni notte conta le stelle, e poi si confonde e ricomincia. La danza antica.

Una tela. I colori. E un’idea. Sempre la stessa.

Si firmava, Pablo Y Ruiz.

sabato 7 novembre 2009

Storie da un penny e Bourgogne



“Cuerpo de mujer mìa, persisteré en tu gracia.

Mi sed, mi ansia sin lìmite, mi camino indeciso!”

(P.Neruda)

L’autunno aveva sfumato la città di bronzo e rame. Parigi aveva l’aroma ambrato, come un bicchiere di cognac da sorseggiare la sera, come si faceva su, in Normandia, davanti al camino, arrostendo castagne.

Viola girò la chiave nella serratura della sua piccola bottega, il campanello trillò quando aprì la porta.

L’odore dei colori a olio le si posò addosso come sulla tela, profumo levigato di vernici e legno, di polvere e di muffa. Il segno del tempo trascorso. Non passato.

No, perché il passato era ancora molto vicino, era un tempo imperfetto fatto di avverbi di tempo come “mai più”, gusto di assenzio e uno zuccherino al laudano.

Aveva un atelier in Rue d’Orsel, un capriccio per la sua famiglia, per lei un piccolo orgoglio.

Era riuscita ad allestire una serie di mostre itineranti, di pittori minori, sconosciuti, riscuotendo un discreto successo.

Il fascino del diverso. La nuova moda, cavalcando l’onda del “trendy”, cucendo il fascino e il mistero sulla vita di pittori Don Giovanni e gigolò, artisti squattrinati come a Montmartre. Mezzo secolo prima.

Anche Picasso aveva un debole per Parigi

Accese le luci, controllò le mail, sfogliò Le Figaro, poi si ricordò del pacco che le aveva consegnato il corriere la sera prima. Pioveva. La carta si era inumidita. Aveva preferito aspettare ad aprirla per non rischiare di sciupare il contenuto.

La lettera diceva poco dell’autore, ma non aveva importanza, era lei che creava leggende, che popolava i castelli di fantasmi, che girava Parigi come una gitana.

Una volta chiese anche l’elemosina all’uscita di un chiesa per capire cosa si provasse a leggere gli sguardi sfuggenti della gente che finge di non vedere. Clochard, anime trasparenti. Antipatiche se parlano, se chiedono con la mano tesa perché diventano lo spettro di una drammatica presenza.

Le diedero poche monete che si affrettò a versare nella questua recitando l’Ave.

Parigi quel giorno doveva essere bellissima si fermò a pensare Andrè affacciandosi alla finestra del suo albergo su Central Park. Fotografò con lo sguardo il caleidoscopio di colori autunnali, un bicchiere di brandy nel cuore di Manhattan.

È triste bere da soli

Spense la sigaretta. Rimase un attimo immobile, quasi a inseguire un pensiero. Poi afferrò la sciarpa e la giacca. Lasciò le chiavi alla reception e uscì.

Lei rispose al terzo squillo.

“Hallo?”

“Ciao”

“Ciao. In che parte del mondo sei?”

“A new York, e tu?”

“A Parigi”

“Vorrei che fossi in ogni città in cui vado”

Se prolungassimo all’infinito le strade, cercando il punto che unisce due distanze e insieme le separa, sarebbe più facile incontrarsi, quasi per caso. Un gioco di linee.

New York era magica in quel periodo dell’anno, l’atmosfera di un Natale in anticipo si respirava ad ogni angolo e Viola guardava rapita le strade dal finestrino del taxi.

La mostra itinerante, le linee morbide del Guggenheim, la folla e i suoi quadri.

Lo vide. Era di spalle. Parlava con un giornalista.

Viola passeggiò tra le tele.

Anche lui la vide.

“Ciao”

“Ciao”

Il colore vestiva le tele spogliando i pensieri gravidi, muti come mimi sulla Rambla, tanto tempo prima, una città al di là dell’oceano, in Europa. Ricordi.

Quando uscirono pioveva.

Si fermarono sulla Quinta a sorseggiare un brandy.

Avevano un tavolo prenotato a Brooklyn.

Avrebbe atteso a lungo

venerdì 9 ottobre 2009

Dakar: Dis-cromie di deserti





Quando attraverserai il deserto

fidati solo della bussola ma di nessun altro

Viola conosceva il silenzio che solo i deserti sanno tessere. Amava quella polvere impalpabile che lasciava macchie indelebili sui tessuti: il segno tangibile di essere stati lì.

Con le mani cercava di allargare la cartina sgualcita e fragile e l’Erg algerino le si parò davanti: giallo, assolato, tanto da far portare una mano a riparare gli occhi. Quando i ricordi tessono trame, come fili di ragno.

Una cartina. La fiducia totale di chi legge, in chi scrive. Un linguaggio universale. Che poi Timbuctu sia un miraggio, uno scherzo del deserto che frappone fra te e la meta dune e dune di polvere. Che un gigante possa soffiar via sussurrando ai piedi delle Montagne Blu.

A Dakar arrivava per intervistare chi aveva sfidato la strada e la morte. Anche.

Dakar era un altro punto di arrivo.

Bengasi, Douz, Tamanrasset erano avamposti da collezionare. Medaglie, ricordi. Piloti in marcia contro nuovi mulini a vento.

Viola lo sapeva bene. Per questo teneva Dakar come un asso nella manica. Sapeva che gli dei a volte sanno essere benevoli e la città era davvero vicina.

Una notte soltanto la separava dal deserto, memoria instabile del tempo. Ladro di impronte. Che non starai due volte nello stesso luogo. Non perché non lo riconoscerai. Ma perché sarà diverso a ogni risveglio.

Le prime auto da corsa sfilarono che non era ancora l’alba. La notte lacerava certezze.

Fantasmi accompagnavano il ticchettio che reggeva il mondo

venerdì 11 settembre 2009

Eleven

Ho visto il pozzo di luce sulle scale mentre aprivi i tuoi occhi, finestra su di me, città in verticale, con la testa tra le nuvole.

Le strade di polvere imbastiscono le trame a Lower Manhattan.

Il tempo ritorna come lacrime sui vetri delle auto ferme a un semaforo, pioggia negli occhi.

I gabbiani si stanno fermi a Ellis Island. Puntini ordinati, a un tratto si alzano in volo su Liberty Street. Poi virano sul fiume.

Quel giorno milioni di fogli bianchi ondeggianti in caduta libera, a scrivere la memoria storica del passato prossimo. La carta bianca a contare le assenze.

Eleven

Calendari spezzati, colonne d’Ercole fragili come bastoncini da shanghai. Ossa di gesso.

Il Buio.

Dopo il boato, dopo i crolli, dopo l’indomabile sinistro silenzio dei giganti.

12 rintocchi.

Eleven

Ecco ancora mi appendo al volo dei gabbiani che puntano a sud. Lontano.

E da Ellis Island guardo il profilo triste della città in verticale e sempre mi sorprendo della loro assenza. Un taglio di cielo che ancora sanguina.



(a NYC)

venerdì 14 agosto 2009

Le donne di Algeri




Nella gabbia vicino alla finestra un uccello cantava

Penso si trattasse di un usignolo, non meglio specificato il suo canto simile a un pianto, dalla traduzione dall’arabo di vecchie lettere.
Sì, penso un usignolo.
“Era l’usignolo, non l’allodola” parole dal palcoscenico, vecchio teatro di dispersi.
Fatma percorreva con un’andatura lenta il sottile tratto di sabbia che la separava dal mare, dove allevava malinconia e solitudine come vacche magre.
Fatma la pazza.
Fatma che attraversava le vie di Algeri con lo sguardo fisso.
Da tanti giorni. Da quando avevano bruciato la sua casa.
1945
Via dal fumo che stordiva e faceva sbattere le braccia delle donne contro le pesanti grate, dove potevano vedere senza essere viste. Vite parallele.
Bianche colombe per l’ultimo volo.
La città brucia.
Scappare via, scappare.
Scalza, con l’abito lungo della notte, imbastito nell’orlo del buio, la strada fino al mare.
All’alba, che poteva essere il tramonto, la lettera scrive che il sole si faceva scaglia dorata tra le onde.
Stava un uomo fermo vicino agli scogli. Alzò lo sguardo, aveva il viso sporco di fuliggine.
Fatma si fermò. Con un gesto antico e lento levò una mano sul capo, scoperto.

La fedeltà non è un chador

Poche parole, come si conveniva.

“Che Allah ci protegga”

“Sia come tu dici”

Una pioggia do proiettili crepitò sulla sabbia. L’uomo cadde.
Dietro le grate delle case le donne di Algeri sono fantasmi dei muri. Aroma di cus-cus nei cortili chiusi. Le senti ridere nei bagni pubblici, simili agli hammam. Acqua. Assenze. Dis-presenze.
Nude presenze, ombre di hennè a disegnare la pelle, seni come coppe rovesciate, quarti di luna, vetri di aridi deserti. Coltivando oasi nelle gobbe ondeggianti dei cammelli.
Pensieri.
La gabbia aperta: l’usignolo vola per un po’ nella stanza e poi rientra alla sua prigione.
Come le donne di Algeri.


lunedì 20 luglio 2009

Bar du Cap




Le pagine si erano aperte a caso: le cose si perdono per essere ritrovate.

Viola scendeva i gradini di pietra rimanendo nell’ombra che regalavano i palazzi nel primo mattino, disegnando ombre lunghe, giù verso il mare, dove strideva la voce dei gabbiani, che giravano in cerchi e si lasciavano trasportare dalle correnti d’aria calda.

Il vento agitava i panni stesi e le bandiere, scompigliava i capelli che con un gesto di resa la donna lasciò cadere, disordinati sulle spalle e sul viso.

“ école de danse” c’era scritto su un manifesto, ballerine in tutù, come un quadro di Degas, anemoni al mercato dei fiori.

Arrivò a Quai Bonaparte, tra i turisti e le stampe provenzali, cicaleccio in sottofondo, frinire di cicale, sigarette sulla linea dell’orizzonte.

Lui era seduto, nascosto da un improbabile cappello di paglia e le pagine riciclate di Nice Matin.

Viola sapeva che aveva chiuso un cerchio, fatto di parole, tante parole, dette, ridette, non ascoltate, tenute insieme dal filo sottile dei ricordi, imbastite con vocali allungate di acca mute, o minuziosamente lavorate come un pizzo macramé, ma sempre parole.

Il tempo aveva dato il giusto accordo alle sue rughe, accentuate dall’abbronzatura, lui aveva solchi disegnati nella pelle, per far fiorire scalzi mazzi di lavanda all’abbazia di Sénanque.

Quando ti muovi alla velocità della vita, scontrarsi è inevitabile.

Una voce lontana mille anni e una manciata di incontri, tanto bastava a cambiare la vita, il segreto stava nella capacità di percorrere sul giusto binario un’alternativa al presente, un patto col diavolo, e lo smacco al tempo che si beffava di loro.

Tutto quel giorno aveva il suo posto perfetto, nel disordine del quotidiano, tutto ruotava intorno a loro irreale, come l’attimo prima di una tempesta. Gravitavano nell’orbita esatta, senza bisogno di punti cardinali.

Il Bar du Cap era una piccola isola fatta di tavolini in ferro battuto con morbidi cuscini azzurri posati sulle sedie, che invitavano a fermarsi, avvolti dall’ombra discreta degli ombrelloni e sopra di loro, su in alto, il cielo, anche lui quel giorno, distrattamente azzurro.

Viola si chinò su di lui posando un bacio lieve sulla guancia, tenendo sollevati i capelli sul viso. Profumava di fragole e mughetto, pensò lui salutandola.

Parlavano francese, del mercato de fiori, di un pittore locale che avrebbe esposto quella sera. Giravano intorno alle parole, come i cucchiaini nei loro caffé ormai freddi. Terribili caffé.

Ma loro parevano non accorgersene.

La trama sottile che li univa e li divideva al tempo stesso faceva di loro un ritratto ad olio di amanti perduti. D-I-A-M-A-N-T-I grezzi. Pezzi di carbone ardente gli occhi e un puntino luminoso sulle spalle. Quello che i Tarocchi tra le mani di Viola avevano da dire, loro lo sapevano già.

Così sorrideva mesta, Visage au tratt oblique, tenendo la mano di lui, o forse era lui a tenerle la mano.

“Quante cose possono fare due mani?”

“Due mani possono fare anche un domani”

La passione li plasmava come creta in mani sapienti.

All’alba Viola si affacciò sul piccolo poggiolo, i quotidiani stropicciati, il suo pigiama, e fogli sparsi, scritti di una grafia che conosceva, “non hai lasciato pagine bianche”.

La Francia, come molti altri posti del mondo, il loro curioso rincorrersi, come amanti perduti sui campi elisi.

Un luogo, tutti i luoghi.

Il richiamo del muezzin. Per esempio. “Allah si è svegliato senza di me”. Pensò sorridendo Viola.

giovedì 25 giugno 2009

Notturno per Chopin


Scatto 12

Bianco e nero.

La campagna conta i filari contorti delle viti, la pioggia appena passata e le nuvole addensate all’orizzonte. Accantonate sulla riga del cielo che si appoggia sul mare.

Là sul mare c’è una nave. La controfigura di un ricordo.

Camminano vicino sul sentiero scosceso, in basso le onde si infrangono con fragore nei giorni d’autunno, o vengono a riva una dopo l’altra, senza fine, come un rosario da sgranare.

Lui, chi ha già vissuto prima e prima ha sbagliato, consumato in cenere di sigarette appoggiato alla balaustra a scrutare l’orizzonte di parole, con la compagnia di sette note. Una musica che suona da lontano.

Un pianoforte.

Lei, di riflessi acerbi, lo sommergeva come le onde, annegando pensieri e lacrime. Che non si sapeva più da che parte fosse l’orizzonte.

Quel filo immaginario, rigo di carta musica dove appendere le note ad asciugare. Sì. Bemolle. Mollemente caduto tra le parole gravide di polvere.

Arrival-Departure

Valigie, squadrate dove mettere tutto, dopo l’amore, dopo lei che gli riempie i quarti dell’orologio, seduta in un ritardo.

Chiudere tutto, con cura, le porte, le finestre. E non lasciare impronte sulla neve.

Il glicine s’è vestito di una stagione nuova. E poi è sfiorito.

Ancora lei a riempire i quarti delle ore, con brocche riempite alla fontana della piazza, scendendo muta tra il pentagramma di un notturno per Chopin e le campane a mezzogiorno.

Le formiche attraversano in file ordinate il sentiero scosceso. Alto sul mare.

Lui aspetta. Lei aspetta.

Il tempo esatto.

Una foto scattata in viaggio verso Budapest, sull’orizzonte un temporale. Livido il cielo e un campo di scalze margherite, vestite di giallo.

P-A-R-T-I-C-O-L-A-R-I

Scatto 12

Una sigaretta.

Bianco e nero.

Un transatlantico, un Prometeo, la guerra. Forse per questo le oche gridavano forte, sotto il campanile. La scorsa notte.

Mano nella mano. Per un lunghissimo attimo.

Tanto tempo fa. Un’altra vita.

Il glicine s’è vestito di una stagione nuova. E poi è sfiorito.

.

giovedì 18 giugno 2009

La luna di Manhattan



“Dall’alta finestra vedo

uomini, case, giardini,

l’arcobaleno, un trattore arancione

un gatto,

un secondo arcobaleno.

E tu?” Ghiannis Ritos

Il cielo blu cobalto se ne stava appeso come certi soffitti di cartapesta nei presepi, all’ombra delle chiese, o a teatro di tragedia rappreso anche il sangue dell’attesa.

Partenze.

Sudavano i pini e l’ombra respirava l’aroma di un mezzo pomeriggio immobile, il mare faceva capolino al fondo di quelle strade dritte a finire tra le onde.

Attese.

Sigarette tra le labbra con la voglia di spegnerle presto a perdersi in baci ritrovati. Come Doisneau. Acrylic on canvas. Come in un film. Un attimo prima dei titoli di coda, quell’ora più luminosa prima del tramonto.

Storie stropicciate di schizzi a matita e parole dimenticate su un pentagramma per un pianoforte scordato, scordato anche di noi. Non dimenticarmi mai.

Una finestra come un oblò a Manuel Antonio. Sull’oceano. Dove volgi lo sguardo?

Sai, di qui salpavano per l’America, giro di “DO” mentre ti bevi la luna di Manhattan, questa sera che il sonno tarda a venire e seguo la scia di un transatlantico, di tanti anni fa.

Una scala come un’elica, il Bristol. Il DNA dei ricordi.

Serbo ancora l’ancora da affondare in una lacrima. E due dita sul mento.

giovedì 14 maggio 2009

Lungomare di levante


Se ne andava triste, con un cappuccio imbronciato di nuvole basse, curve sull’ orizzonte, appoggiate gravi sulla sua schiena.

Ritrovando per caso una tovaglia a quadretti, bianchi e rossi, mai usata, testimone di un passato impaziente fattosi futuro, di parole oblique.

Quel presente che aveva ipotecato di viaggi e parole, pesanti appese al collo come un amuleto.

Guardia e ladri di giornate smozzicate al loro troppo esserci, sgualciti come lenzuola in una camera d’albergo, dopo. Già dopo.

Il meglio dell’ovest, di un mare adagiato a oriente, capitelli a Bisanzio e prima lettera ai Corinzi.

I passi sul molo.

I passi scalzi sul molo in quell’ora dove tutto giace d’attesa.

La barca porta vergato il nome sul fianco. Restavano seduti a prua, loro due con i piedi che penzolano sull’acqua e il sole in scaglie salate di mare.

Il Monastero di Colonna chiude il cerchio all’orizzonte, quello che possono vedere gli occhi.

Quando le dita sul mento sollevano uno sguardo che non sa mentire.

“Sei ancora innamorata di me?”

Le parole su un tono seccato, come la scoperta pudica di acne giovanile, o una prima volta non ammessa.

Sparecchiava una tovaglia rammendata di ricordi, riposta con cura infondo a un cassetto.

I quadretti bianchi e rossi.

Lei parlava. Lui parlava..

Fra parentesi.

L’orologio dell’aeroporto segna che manca un quarto all’una, i fiori stanno a morire nei vasi, i tavolini dei bar, la piazza che gira intorno alla variabile del tempo. Sempre imperfetto. Mai futuro semplice.

giovedì 2 aprile 2009

La Corte del Catapano



Le strade si contorcevano tra le case del borgo sinuose e solitarie avvolte dalla luce calda dei lampioni. Di un tempo antico, sicuramente andato, che ancora recava con sé stucchi muti di volti in gesso sugli archi delle case a far paura ai forestieri. Teste moro mozzate.
Nella Corte del Catapano ballavano la pizzica.
Pizzica
Pizzica
Pizzica
Le gonne come ruote e i piedi scalzi, lei il viso sudato e gli occhi fissi al cielo, quale cielo scuro colava piombo quella notte immobile. Avanzava in preda alla febbre della danza.
I ragni tessevano la tela, aspettando i tempi giusti e una nave dal mare, il nome di Ulisse, rotolato tra l’eco di conchiglie.
Ulisse, Ulisse.
Nico’ scaricava le casse di sigarette che arrivavano dal Montenegro. Una notte di tanti anni prima. Scalzo anche lui, tra le insenature e le lame di Torre Incina.
Pizzica
Pizzica
Pizzica
Fino all’alba ballavano senza sosta, irriverenti, gli occhi come carboni ardenti.
Di occhi a cercare gli occhi, a farsi pescare proprio quando la notte è alta e le difese in balia dei sogni, canti di sirene, sul velo della notte drappeggiato sul mare.
E il mare è solo inchiostro nero per una storia da scrivere.
La sposa avvolta di tulle e rose chiare uscì di casa sollevando i lembi dell’abito, come il sipario al primo atto, passi leggeri.
Primo mistero gaudioso.
Pizzica
Pizzica
Pizzica
Si schiudevano gli usci e dietro le imposte chiuse le comari si stavano zitte, zitte.
La sposa attraversò la Corte del Catapano accarezzando con lo sguardo gli elefanti che pescavano a oriente con le loro proboscidi.
Io ti battezzo
Un nome sulle labbra. Nico’ chiuse gli occhi, chi era quella sposa? E quando li riaprì lei non c’era più. Scherzo del delirio di una notte d’estate e estasi di pizzica.
Corse davanti a San Nicola, le porte chiuse. Le corti vuote e silenziose. Il mercato era addormentato. Non ciarlavano le donne. Si stavano zitte, zitte, zitte, zitte.
E i ragni tessevano il tempo per il velo della sposa. Ma Nico’ non poteva immaginare

venerdì 27 marzo 2009

Chianche bianche, chianche nere


Nello zaino si portava gli avanzi del tempo che pesava come giorni al tramonto, quando il sole si rotolava dietro la città e una sfera rossa e infuocata arrossiva i sepolcri.
Nico’ camminava lento, schivando le comari che lavavano le chianche passando e ripassando la pezza imbevuta di sapone. Poco più avanti una vecchina curva, vestita di nero, portava le ceneri del braciere in una latta, tenuta in mano come il vezzo di una borsetta.
Dopo S.Nicola, passato l’arco, stava una donna dietro la finestra che piegava la pasta.
Nico’ appoggiò una sigaretta alla bocca.
Il vento stava al di là delle case, sulla muraglia, prua di una barca vecchia di mille anni, che pescava giù sul mare.
Il ragazzo scrollò le spalle vedendo i lavori ancora interrotti, “non è così che si riceve il Santo”, così che doveva tornare indietro la processione e passare la settimana santa, col Cristo morto e chianche nuove. Chianche bianche e chianche nere.
E per la via le comari compravano le cime di rapa per poche monete, per i giorni di festa.
Il gatto bianco e rosso aspettava gli avventori per un bicchiere di vino.
Vino novello.
Chi correva sull’ora del mezzogiorno domandava: “Grigliata?”
“No. Ragù d’agnello” rispondevano di rimando da dentro alle case vecchie ancora più di mille anni.
E tra le vie strette del borgo antico comandavano le donne, per una curiosa legge non scritta, di uomini imbarcati.
Il postino gridava i cognomi, anche quelli scomodi, anche quelli impronunciabili.
Ma quello era il borgo, con quella luce obliqua e chiara dei sepolcri al tramonto.
Di vecchie come Madonne, sull’uscio di casa e figli perduti e persi per una guerra di contrabbando, di ombre, di famiglie, il nuovo Golgota e croci come cicatrici, ricamate di verità cadute.
Bisbiglio di parole, di parole. Eh? Sst. Bisbigliano, bisbigliano. I passi sulla strada, giù da basso, passi stanchi e ruote. Chianche bianche e chianche nere.
La città era al di là delle mura.

martedì 10 febbraio 2009

Grigio Tokyo, bianco Kyoto













Yukuharu ya

tori naki uo no

me wa namida

-Basho-

Seguii con le dita la linea della grafia sulla tovaglia.

Aveva scritto l’haiku, più e più volte, con caratteri svolazzanti, da sembrare un curioso ricamo.

Yuko arrivò alle mie spalle, cingendomi la vita, mi voltai per salutarla.

Due occhi verdi, chiuso nel taglio a mandorla e i capelli raccolti sul capo.

Uno chignon.

Aveva una camicia a chimono, la carezza della seta la avvertivo sulle mani, sdrammatizzava il tutto con i jeans.

Si portò alla vetrata del suo appartamento, con le luci e i grattaceli sullo sfondo e quel clima nipponico non faticai ad immaginarmi in una serata a Tokyo.

“Allora, non ti manca l’Italia?” domandai.

Fece una smorfia arricciando il naso e mettendo in evidenza le labbra color ciliegia.

Sua madre era giapponese, suo padre un militare italiano trapiantato in America.

I suoi genitori si erano amati durante la guerra.

Ed erano morti poco dopo la sua nascita.

Era cresciuta con la nonna, in una piccolo paese delle Marche.

Non si sentiva italiana, non ricordava Tokyo, e New York le dava da vivere, artista di pagine patinate.

“Controllo la cena…” disse, lasciandomi il tempo per affondare lo sguardo nel suo appartamento.

La linea retta dei mobili, l’acciaio, il grigio, si andavano mescolando ai cuscini ammiccanti sul tappeto in foglie di banano intrecciato, ventagli raffiguranti dragoni e un bellissimo Kimono antico, leggermente bruciato in un angolo, sfuggito al fuoco della guerra.

Le radici aeree delle orchidee rappresentavano un giardino pensile sui lunghi divani bianchi.

Mi raggiunse il suono di una musica, di scacciapensieri.

Le candele brillavano nelle lanterne rosse.

Il piccolo terrazzo era stato chiuso dal gioco di vetrate e il pavimento era ricoperto di sabbia, sassi disposti con maestria sapiente, o curiosa indifferenza.

Il giardino di pensieri lavati via era fatto di sabbia e sassi.

Grigio Tokyo, bianco Kyoto

Yuko si era avvicinata, non l’avevo sentita, nonostante indossasse i geta di legno.

“La tua casa è un angolo di Giappone e volerla tenere viva qui, nella New York d’acciaio è un urlo al passato”

“No. L’oriente è silenzioso”

Non disse altro.

Ci sedemmo a tavola.

Involtini di sogliola all’arancia in salsa di lime e riso thailandese.

Il vino era italiano.

Le chiesi del kimono che indossava.

Era disegnato da un noto artista giapponese.

Il kimono è l’esemplificazione della perfezione di un modello che supera i confini temporali.

Se volessimo paragonare il kimono ad un’opera d’arte, allora sarebbe sicuramente un’opera pittorica.

Infatti i collezionisti possono sistemare il kimono ad una gruccia appendendolo ad una parete per ammirarne i colori.

Yuko camminava per la stanza, era un dipinto in movimento, le piccole cascate disegnate sembravano vere, nel frusciare di giovani passi e shantung di seta.

Il Kimono rappresenta l’orgoglio ed il simbolo di ogni donna giapponese ed indossarlo equivale a “vivere lo spirito del Giappone” e sentirne palpitare il cuore.

Presi in mano una forchetta, ne sentii il contatto metallico sulle labbra.

Grigio Tokyo, bianco Kyoto

C’era una foto del parco Odori, grande, troneggiava sola, su una parete.

Sapporo e le sculture di ghiaccio e neve, dragoni e castelli.

Una città delle regioni del nord, senza folla, le strade sono dritte e si incontrano ad angolo retto, al centro c’è il parco Odori.

Yuko era fotografata di spalle, il kimono bianco, percorso da piccoli disegni grigi.

Immagini di un calendario.

Haiku, un attimo di vita che diventa un verso.

Poi la neve scioglie.

E il parco diventa Maruyama, fioriscono i ciliegi.

Sulla parete opposta Yuko era avvolta da un kimono rosa pallido, legato da un obi rosso, il viso era la maschera perfetta di una geisha, le labbra,

ciliegie.

Un ombrello in carta di riso azzurro, percorso da piccoli draghi di giada.

Neve di petali.

Ciliegi in fiore.

Grigio Tokyo, bianco Kyoto

Yuko mi invitò a sedere sul divano, raccontandomi dell’ultimo viaggio, passando lo smalto sulle unghie dei piedi.

Lei è così.

A suo agio nei peggiori locali del Sud America, come in una mostra al MoMA.

Ti seduce con le parole, ti arriva nell’anima, si spoglia e si veste d’attrice.

Poi sbadiglia e ti dice che se vuoi… puoi restare.

Lo dice con quelle labbra, un cerchio rosso sul viso di ceramica.

E già c’è un taxi che mi aspetta.

Scendo, osservando i numeri dell’ascensore di un centinaio di piani e acciaio.

“La porto in albergo?”

“No, Chinatown, per favore”

Catapultato nelle vie che sanno di fritto e fumo.

Le insegne al neon.

Nuvole di drago.

Cineserie.

Lanterne rosse, a fare il verso alle case di piacere di Kyoto.

Geishe in morbidi kimono di poliestere.

Si spoglia troppo in fretta e consuma la mia voglia.

Occhi a mandorla.

Dragoni alle pareti.

Pago.

Non pago di niente.

Yoko aveva uno chignon alto sul capo.

Occhi verdi, chiusi nel taglio a mandorla.

La seduzione dei gesti, lo smalto blu sulle unghie dei piedi.

Non aveva risposto alla mia voglia.

O l’aveva creata ad arte.

Di un tempo tramontato per sempre.

Questione di punti di vista.

Uscendo notai bandierine giapponesi appese a un filo.

Sul rettangolo bianco un cerchio rosso.

Le labbra di Yuku.

In fondo cos’è un punto?

Una macchia su un foglio.

La maniglia della mia camera d’albergo e le tende bianche a chiudere fuori la notte.

Grigio Tokyo, bianco Kyoto.

lunedì 5 gennaio 2009

Dakar. Passi zingari fatti di polvere.


“ stare sempre un passo avanti ai sogni” Thierry Sabine

Ballammo una notte intera di passi fino a Place de la Concorde, una sera di fine Dicembre. Quando si accompagna un anno a morire nella Senna, come certi voli con l’auto a concludere un libro. Che leggevo per trovare una risposta, tra dischi che non suonavano più e vecchie stampe in cui Sarah Bernhardt rimase giovane per sempre.

Ai duecento all’ora sull’autostrada della vita, senza perdere di vista lo specchietto retrovisore, che il passato è sempre un amico fedele.

Non importa cosa si insegue o da cosa si fugge, Dakar non è che un nome su una cartina di uno stato africano adagiato sull’oceano che il vento gonfia di onde fin da Capo Verde. Là bisogna arrivare. Quello che la storia ha consegnato al mito sopravvivrà a deserti di polvere.

Quella polvere che mi porto ancora sotto le scarpe e tatuata per sempre su una maglietta bianca, quando mancavano 80 chilometri al Lago Rosa. I miei passi come zingari e balli gitani la notte intorno al fuoco, quando intorno, tutto intorno non era che il deserto e ci credevamo a Timbuctu.

Il tè quaggiù ha un sapore diverso, per i nostalgici, per chi era a Parigi quando si partiva. E pioveva.

Per chi a Gibilterra vedeva due mani tese fino a sfiorarsi. E poi, poi era il deserto, amico, nemico, che tutto cambia e tutto fa uguale a se stesso. Siamo passi di polvere, l’impronta rubata al destino per rimanere per sempre. Terra e polvere. A pelle.

Il cielo, la notte ha le sue stelle, per i marinai e per i pirati, per chi si è perso e non sa più tornare.

La vita rotola davanti agli occhi e le lacrime sono kohinoor, perché in qualche modo ci siamo arrivati e siamo anche ripartiti. In momenti diversi, con sogni diversi. La nostra Parigi-Dakar, quella di chi non sa andare piano nella vita. Quella di chi ci crede ancora che il sogno non muore. Di chi assetato beve dalle labbra di una bottiglia, mezza vuota, mentre le bollicine salgono fino al mento e poi giù, strofinando la manica sulla bocca. Tutto intorno, gira a 365 gradi e gira ancora che si fa vertigine, giù a terra, come un gioco di bambini e un timbro sul passaporto, macchiato di polvere rossa, come ogni cosa in valigia.

Sigarette all’alba, seguendo il fumo azzurrino e il puntino rosso, poco prima delle labbra. Per baciarla ancora quella vita di corsa, senza una pista, in buona compagnia, con una copia de Le Figaro, stropicciata sul sedile posteriore e una bussola in direzione Sud. Sud – Ovest. Attenti a non perdersi. A non fermarsi. Che se no, ti riprendo quando torno.

Ciao Dakar, perché qualcuno sfiderà sempre il cuore del deserto, le sue insidie, i pericoli, il silenzio, la polvere, per vincere se stessi. Ancora e ancora.

A Tierry. A tutti quelli che ne hanno percorso pochi o molti chilometri, a chi è tornato indietro, a chi non è potuto tornare. Perché il sogno sopravvivrà alla polvere.