sabato 28 dicembre 2013

Libreria Janus, Cuneo


sabato 21 dicembre 2013

venerdì 13 dicembre 2013

giovedì 12 dicembre 2013

Brichét, Il Grillo Editore


domenica 1 dicembre 2013

Recensione di: That’s (im)possible, Cristò -Caratteri Mobili-

Qual è il numero più alto che riuscite a immaginare?
Il libro ha un taglio tascabile, 74 pagine, ma credetemi sono molte di più “di quello che riuscite a immaginare”.
La copert...ina è accattivante e ricorda uno di quei giochi da tavolo, ed è così che il lettore si approccia nel leggerlo, come una partita a scacchi o un giro di Monopoli o Cluedo, si potrebbe continuare.
Una costruzione narrativa straordinaria, l’alternanza di voci, una sorta di autismo corale, una filosofia sottile del vivere o del male di vivere, l’attenzione a un dolore, l’esaltazione della ricerca affannosa dell’infinito. Come inizio di tutto. O di tutto la fine.
La lotteria di That’s (im)possible fotografa un fenomeno della nostra società e ricorda, per certi versi, quello che accadde alcuni anni fa quando la febbre del “6” al Superenalotto contagiò l’Italia intera e chi non ricorda le città di frontiera prese d’assalto dai francesi o dagli svizzeri per venire a giocare?
Il gioco, i numeri, la lotteria sono il pretesto per l’autore per un monologo ripiegato su se stesso come il nastro di Moebius, un richiamo futurista e il filo rouge, (e rosso non è un caso) che attraversa tutto il romanzo.

Le cose impossibili accadono continuamente
Quando un libro “funziona” lo capisci quando te vai in giro e continui a pensarci. E cammini per strada cercando la “x” nell’equazione di spazio fratto tempo alla ricerca dell’infinito.
E capisci che non è solo un libro, ma diventi giocatore, tuo malgrado.
Che succede quando un oggetto, un fenomeno, una storia passano dal sincronico al diacronico?
Camminiamo sul nastro di Moebius.
Allora si può parlare di eternità, di infinito.
Quindi come lo rappresenti?
Di qui le voci che si alternano, sociologi, giornalisti, astrologi, matematici, curatori del programma, presentatori, cercano di capire, di afferrare un numero che dia il volto all’infinito.
Un richiamo a Poe di rose rosse come un testimone da passarsi per mano.
Perché credetemi l’ultima pagina, non è l’ultima pagina.
Vi ritroverete a essere parte del “gioco”.

That’s (im)possible is (in)credible

mercoledì 27 novembre 2013

Recensione di Il Minotauro, Benjamin Tammuz






"Thea questa lettera non è firmata e temo che non ci incontreremo mai"
Un agente segreto israeliano un giorno, il giorno del suo 41° compleanno incontra in un autobus, per caso, la donna della sua vita. La riconosce: è la donna che ha atteso da sempre. Qui inizia una spy story intrigante, una delle storie d’amore più belle scritte da un uomo.
Nel senso che è strano che un uomo scriva d’amore con una sensibilità e un romanticismo, una disperazione  insoliti.
Può un amore basarsi solo su delle lettere, senza che i due si incontrino? È amore? O è la trasposizione che ne fanno i due protagonisti? E siamo ancora qui, nel 2013 a parlare d’amore.
L’amore quel sentimento che porta i grandi classici come Boccaccio o Leopardi a dedicare fiumi di parole a donne angelo, donne ideali e idealizzate, che studenti poco convinti dovranno studiare, negli anni, accettare, capire, magari non condividere. Già, eppure questo romanzo ha la capacità di farci sognare. Quest’uomo che per vent’anni manderà lettere e Thea che inizialmente potrà solo leggerle, immaginare chi le scrive, e rispondere, mettendo le sue missive in una scatola, mai spedite. Solo più avanti lui le concederà un fermo posta.
Lui sa tutto di lei, la osserva, le scrive, la pedina, al limite dello stalking, ma non accetterà mai di incontrarla.

«nessuno vede le cose belle che tu vedi in me. Mi abitui a qualcosa che nessuno mi darà mai. Io voglio vederti»

Implora lei. È sicuramente degna di un’analisi sociologica che fotografa la solitudine ancestrale che caratterizza il nostro tempo. Un tempo fatto di rumore, di cellulari per stare sempre connessi, di persone accanto che non si vedono, non si parlano, e qui si inserisce una variabile, Thea diviene dipendente da quelle lettere, le attende, si aggrappa, le aprono una vita parallela in una realtà diversa dal quotidiano che sicuramente non è così poetico, rassicurante e idilliaco come un mondo fatto di parole.

«una figura fatta di parole e tempo è indistruttibile»
Nessuna realtà può competere con un sogno ad occhi aperti.
«non dubito del tuo amore, ma questo amore è al di sopra delle mie forze. Sono un po’ come la tua vedova! Tu non hai il diritto di morire e non hai il diritto di tacere. Dimmi cosa devo fare».
«dammi un segno… Dammi un segno, mio morto, dammi un segno. Non puoi continuare a trattarmi così».

«ma gli agenti segreti, come Dio, mandano segni solo ai loro confidenti. Sono molto crudeli e anche infelici, a volte. Comunque, tacciono».

Niente è scontato, nemmeno il finale.

lunedì 25 novembre 2013

Predatori


Predatori.

Quando parliamo di stalking, che fa tanto fine e va di moda, pensiamo sempre agli atti estremi, agli atti persecutori che giungono spesso a conclusioni terribili.

C’è un limite sottile che divide questi elementi più pericolosi, da un’altra categoria, molto diffusa: i predatori.

Come dice la Hirigoyen non è un caso che scelgano sempre “belle persone”, che hanno interessi, sono impegnate, hanno successi personali, perché che gusto c’è a distruggere un soggetto che non è né carne né pesce?

Perché sono malati.

Ma questo non ci deve intenerire, perché psicologicamente alla parola “malati” reagiamo cercando di scusare, di capire.

Non c’è niente da scusare.

Si insinuano nella tua vita cercando di intenerirti, hanno problemi a casa, la moglie li ha lasciati, loro poverini che son così bravi, in molti casi ti chiedono anche aiuto.

E ti scatta il meccanismo da crocerossina, perché siamo cresciuti tutti con la pubblicità della pasta Barilla e con il messaggio distorto che ci portava nelle case. La bambina che torna da scuola, la pioggia e il gattino abbandonato.

Non possiamo salvare il mondo e ci sono soggetti che vanno curati.

Ogni giorno sentiamo notizie di atti persecutori, che arrivano all’omicidio, non si tratta di emulazione o di caduta dei valori: sono soggetti malati. Pazzi. Usiamo questo termine, sì.

Parliamo di turbe e alterazioni della sfera affettiva.

Vivono di bugie, o meglio distorcono la verità, trasfigurano quello pensano e in molti casi forse arrivano a convincersi di essere quello che non sono.

Perché che cosa sono? Nulla, non sono niente, sono vuoti, sono finti. Per questo invidiano la vitalità, le “belle persone”.

Ed entrano nella tua vita quando sei più debole, o hai un momento di difficoltà emotivo, sono degli avvoltoi, girano sulle disgrazie. Colpire, farti soffrire, li fa sentire forti.

Recitano una parte nella loro vita, perché non sono in grado di costruirsene una.

 Come ne esci?

Perché poi ti senti stupida, ti chiedi come ha fatto a prenderti in giro. Bene cosa fondamentale è superarlo smacco, se così lo possiamo chiamare e uscire dal circolo vizioso.

Il predatore va smascherato, non bisogna avere paura. Se tu li scopri è come se mettessi loro davanti uno specchio e vedono il nulla. E allora, spesso, il predatore diventa disturbatore.

Non bisogna lasciare nessuno spiraglio, niente. È il primo passo per salvarsi, non dobbiamo solo sperare nella giustizia o nelle denunce nei casi più gravi. Si deve tagliare i ponti. Non rispondere, non vederli. Dire basta. Il primo “no” lo dobbiamo dire noi.

Spesso giocano poi la carta del ricatto, materiale, morale, psicologico e molti non riescono a sottrarsi.

Ricordiamoci bene che un ricatto è un ricatto, sotto qualunque forma si presenti. Denunciamo.

 

Non c’è nessun atto d’amore in tutto questo. Mettiamocelo in testa.

domenica 24 novembre 2013

Hammam Ziani





La giornata era grigia. Carica di umidità. La città era avvolta dalla tempesta di sabbia che gravava da giorni. Era l’Harmattan che stava arrivando.
Ero a Marrakech per un convegno.
L’albergo era di quelli per turisti internazionali, quelli delle catene famose, come Hilton o Riu che ritrovi in tutto il mondo, nel bagno le stesse saponette, cambia solo il nome della città.
Avevo lasciato sul letto la sagoma del mio corpo, dove mi ero buttata appena entrata. Stanca, con tre ore di ritardo nello scalo di Charles de Gaulle e con mal di testa pulsante.
Il segnale acustico del cellulare avvisava che era arrivato un messaggio.
Natan mi dava appuntamento all’Hammam Ziani, nella zona popolare.
Dovevamo incontrarci lontano da possibili occhi indiscreti, ma l’Hammam mi sembrava un posto troppo frequentato.
Avevo imparato a fidarmi e a non fare domande. In quell’ambiente. Dove tutto è relativo.
Presi un taxi. La musica era troppo alta, la strada piena di buche e il mal di testa fedele compagno.
Scesi al 14 di Rue Riad Zitoune.
Al banco della reception una donna mi fece compilare una scheda, mi diede un asciugamano e una ciotola di legno con il sapone nero. Quando uscii dallo spogliatoio con l’accappatoio la donna mi indicò la sala del tè, dicendomi che una persona attendeva di vedermi.
La musica araba, ritmica e ipnotica, le luci soffuse delle candele, i tappeti, i grandi cuscini creavano un’atmosfera di tempo andato e il profumo di karkadè e eucalipto aveva un potere rilassante.
Natan era seduto su un divano e si alzò venendomi incontro.
-Strano posto per un incontro segreto- esordii.
-Credimi, è più sicuro di quello che immagini.-
-Il dossier?-
Lui prese una busta e me la porse.
-Un tè?- mi chiese.
-Sì.-
Si avvicinò al tavolo dove era appoggiata una teiera e riempì due bicchieri avvicinandosi. L’odore della menta mi fece sollevare lo sguardo dalla busta. La strappai e sbirciai il contenuto. Scossi la testa.
-Lo sapevo- dissi mettendo la busta nella tasca dell’accappatoio.
Lui mi porse il tè. Bevemmo in silenzio. Poi disse: -Non te la prendere di persone così è pieno il mondo, è un esaltato, uno che gioca a fare l’agente segreto e non sa chi ha agganciato. Ora però vorranno la tua relazione. Firmata. Per lunedì. Lo sai vero?-
Lo guardai negli occhi. Lo sapevo. Sì, lo sapevo.
Mi diressi verso il bagno turco, prima di entrare mi infilai sotto la doccia, rileggendo il documento sotto il getto dell’acqua che andava sbavando l’inchiostro. Che bugiardo.
Ora toccava a me scrivere. E avrei dovuto essere credibile, molto. Quasi come la verità.

sabato 16 novembre 2013

Marsaxlokk



Il ristorante da “Il vecchio e il mare” aveva i suoi tavolacci di legno con le tovaglie a quadri bianchi e blu, svolazzanti come vele in attesa di prendere il largo. Si affacciava sulla baia dove i luzzu colorati dondolavano sull’acqua. Minacciava tempesta.
Un pescatore, con la faccia cotta dal sole e dal sale, scese dalla barca e andò a sedersi sotto l’ombrellone, dove Nando, il proprietario del locale, stava seduto con altri pescatori.
Signor No, un’ Ara dal piumaggio rosso era legato al suo trespolo e un setter inglese, se ne stava sdraiato ai suoi piedi. Si chiamava Cappuccino e davvero il suo mantello chiaro, pezzato di macchie appena più scure, ricordava la tipica bevanda italiana.
I pescatori raccontavano storie, di pesche miracolose, sirene e pescecani.
Mi sedevo là per il pranzo solo per stare ad ascoltarli. Il menù recitava: Zuppa della vedova e pensavo che sì, era un peccato che storie come Moby Dick o l’Isola del tesoro è un po’ che non se ne scrivono più, perché la fotografia che ho scattato sarebbe un incipit perfetto, ci devo pensare. Sì.
Mentre mi allontano e Signor No gracchia: welcome.

domenica 10 novembre 2013

Brichét, fiammiferi Il Grillo editore

Brichèt, fiammiferi, il mio nuovo romanzo in uscita a fine novembre


Giovanni, Maria, Stefano, Luigi e Giacomo: cinque fratelli, i fratelli Revelli, quelli che chiamano i fratelli Brichét, che prima di andare a scuola sono alle prese con le scatole di cartone da piegare per gli zolfanelli prodotti nella loro modesta fabbrica di famiglia, appartenuta al loro padre morto in giovane età. È la zia Ninìn ora ad occuparsi della fabbrica, donna dalla forte tempra che un giorno ha preso in mano le redini della fabbrica per dare un futuro ai suoi nipoti.
La storia di una famiglia dalle salde radici, in un periodo di forti cambiamenti e tragici eventi a cavallo tra il primo dopoguerra e il secondo conflitto mondiale, vede i suoi protagonisti crescere, diventare adulti e partire seguendo il proprio destino, i propri sogni e talenti e tornare lì dove la fabbrica non c'è più ma una madre e una zia non sono mai andate via, conservando i propri lutti e tenendo uniti i loro destini. Un artista dallo spirito libero, una giovane donna che ha consacrato la propria vita a Dio, un ingegnoso falegname che costruisce nascondigli per gli ebrei, un genio dell'elettronica partito per il fronte, un meccanico con il suo sogno americano nei giorni del crollo di Wall Street.
Cristina Cardone in Brichét (fiammiferi) racconta con delicatezza la storia di giovani uomini e donne erranti alla ricerca del proprio posto nel mondo e nel tempo, in un mondo e in un tempo ardui e incomprensibili, mentre si parla di “guerra giusta”. Ben sapendo che non ci sono guerre giuste.

domenica 3 novembre 2013

La Croce di Malta



Parlava un inglese slang si capiva che era americano. Canadese. Per l’esattezza.
Fumava le Barclay. Rosse. Accanto al pacchetto aveva un accendino con l’immagine di un gatto.
Ma ora che ci ripensava non lo aveva visto fumare e durante la conversazione le aveva detto di non amare i gatti.
Squillò il cellulare dell’uomo che rispose. Parlò in arabo.
Lei alzò lo sguardo e sorrise, lui capì che conosceva la lingua.
-Conosci l’arabo?-
-Ho fatto un corso, tempo fa.-
Continuarono a parlare, poi a un tratto lui tirò fuori dalla tasca un sacchetto di seta bianca e lo porse alla donna. Lei lo prese, lo aprì, tirò fuori il gioiello, lo osservò, lo rimise a posto facendo un cenno di sì con il capo e lo mise nella borsa appoggiata su una sedia accanto alla sua.
Lui allora scrisse un indirizzo di posta elettronica sul retro di una ricevuta strappata a metà. Come se servisse per ricevere qualcosa.
-Cosa le fa pensare che le scriverò?-
-Il fatto che hai accettato senza fare domande.-
-Ma questa è un’altra cosa.-
-È la stessa.-
Lei si alzò. Lo stesso fece lui. Si strinsero la mano.
Era entrata.
Le maglie si sarebbero fatte strette man mano che avrebbe conosciuto i segreti.
Era come se camminasse dentro qualcosa fatto a forma di imbuto. Da un certo punto non avrebbe più potuto tornare indietro.
Era quello il punto in cui voleva arrivare.
Erano soldati senza armi, templari senza reliquie, erano depositari di un segreto ineluttabile, la verità.