sabato 4 giugno 2011

The tree of life

Di Terrence Malick. Con Brad Pitt e Sean Penn

Passano alcune musiche,
ma quando passano la terra tremerà,
sembrano esplosioni inutili,
ma in certi cuori qualche cosa resterà,
non si sa come si creano,
costellazioni di galassie e di energia,
giocano a dadi gli uomini,
resta sul tavolo un avanzo di magia. Jovanotti



Al di là della storia che vuole raccontare questo film colpisce, nel bene e nel male, su quello che ha da dire, sui perché della vita, sulle domande che restano senza risposte come conchiglie sulla sabbia dopo una mareggiata. Ma che appoggiate all’orecchio conservano la memoria del mare.

I silenzi inquietanti dove il susseguirsi di immagini straordinarie di una natura lussureggiante e splendida, da sfiorare la perfezione ti tengono con il fiato sospeso in attesa di una parola, di una risposta che sia la chiave a tutto ciò.

Perfetti gli interni delle case, da far invidia ad una rivista patinata di case e arredamento. Edifici di vetro e cemento, avveniristici e perfetti.

In questa apparente perfezione il caos: 15 minuti di immagini e musica sul big-bang, e l’evoluzione della vita sul nostro pianeta.

Personalmente avrei evitato i dinosauri, una divagazione che si è concesso il regista.

I rami di un albero che abbracciano il cielo dove Dio è troppo lontano, per intervenire nel dolore dell’uomo, qualcosa di pascoliana memoria, e per dirla come Leopardi “il perenne domandar dell’esser nostro”.

La storia in sé è semplice: una famiglia che vive nel Midwest, la madre amica, confidente e complice, è l’amore misericordioso e un padre padrone che per anni aspetta l’occasione giusta, mentre passa la vita.

Un figlio che muore, e il suo dramma accompagna tutte le domande e il dolore fino al Requiem aeternam cantato su immagini che non recano consolazione, in eco d’amen.

Il mistero della vita e quello della morte camminano così vicini da sfiorarsi e confondersi che non sai più in quale dimensione ti trovi.

Uno spiraglio di luce. Una porta che oltrepassata è l’incontro con chi non c’è più.

Ama dice una voce fuori campo quasi a voler ricordare perché siamo qui.

Palma d’oro come miglior film al festival di Cannes, indubbiamente ne plaudo le immagini, le musiche, le parole, quelle dette e non dette, i silenzi attoniti, i silenzi di attesa, e, forse, nessuna risposta.

Personalmente avrei sforbiciato qua e là, un po’ lento, tuttavia Malick ci abituati a questo suo personale modo di raccontarci la realtà. Fotografandola. Ottima interpretazione di Sean Penn, soprattutto per quello che NON dice, e ci lascia immaginare.

Da vedere. Quanto meno per gli interrogativi che ti fa scaturire dopo, ancora non so se mi è piaciuto o no, ancora mi lavora dentro i pensieri, la sottile linea di fuga del mio orizzonte.

giovedì 2 giugno 2011

La casa della luna nuova


“La casa…non so quando è nata…Era un pomeriggio avanzato, siamo arrivati a cavallo in queste solitudini…poi la casa mano a mano è cresciuta, come gli uomini, come gli alberi” Pablo Neruda

“Io non so se Pablo era un buon costruttore di case o meno, di una cosa però sono certa: le sue case non assomigliano a nessun altra” Matilde Urruttia

Quella sera mi sorprese vedere la luna in cortile, quanti mesi erano passati da quando lo conoscevo? L’inverno aveva lasciato posto all’estate. Quando erano tornate le foglie sugli alberi? E le rondini?

La casa della luna nuova.

I posti che mi hanno accolta e salutata: la casa del vento, la piccola barca, la casa sulla scogliera.

A volte, in certi afosi pomeriggi estivi, amo stare seduta sui gradini della casa dello scultore, all’ombra.

Stavo seduta e ne spiavo il lento decadimento di casa disabitata, di muri che ammuffivano.

Non sapevo se un giorno sarebbe stata mia o se lo fosse stata in un’altra vita: legami.

Nella mia casa della luna nuova guardo i mobili arrivati dall’Indonesia. I containers, il porto, la mano sul legno di teak che odora di terre lontane.

Le tengo tutte le piantine delle mie case, sono la fotografia più bella, il ricordo che ho di loro, lo scheletro su cui far riposare i ricordi.

E mi sorprendo di come sia ora di voltare un’altra pagina di calendario. Aspettando una nuova luna.

Forse un po’ disillusa, guardando il mare di traverso da una finestra dimenticata aperta, sul davanzale del cuore, e un ricamo legato al polso, che stride, voce di gabbiano, preghiera di caduta, come le campane a suonare l’Ave.

La valigia pronta per un altro ricordo, per un tempo distratto ed imperfetto, per questo troppo esserci, tra salsedine e sabbia tra le dita.

Certe scommesse perse in partenza ma ho un asso nella manica che se ben giocato stravolge le regole del gioco.

La casa disegna un’ombra obliqua sul cortile, un taglio sui sette gradini.

Sette note scendono piano a cercare il tono più basso, sussurrato di un addio.

E il taglio è la sua storia, come una tela di Fontana: quando il colore non è sufficiente al dolore, il taglio netto e preciso della tela è il ritratto di un saluto. L’ultimo, a una casa, la mattina voltandosi, quando si va via e si sa che non si può più tornare. Non si può più tornare?

Bisogna ricordare la strada.

Come una casa e un’officina nella città sul mare che oggi è solo grattacieli e cemento, il suo ricordo, per fortuna, ha fondamenta solide dentro di me.

E sulla spiaggia, tornando da correre, il mare stamattina ha lasciato un messaggio in una bottiglia.

Come un regalo di Natale fuori stagione, inaspettato e meraviglioso