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domenica 11 settembre 2016

September, 11Th remember

 
"Sapevo su cosa erano in piedi"
  "Erano in piedi sulla cima di un calderoneStavano in piedi sugli incendi di 2.000 gradi che sono arsi per centinaia di giorniE hanno messo le loro vite a rischio per issare la bandiera"
 
R. Giuliani
 
 

venerdì 11 settembre 2015

Today, September eleven

I can't watch.
Don't watch. Run.

migliaia di fogli, dopo il crollo.
Bianchi. Battito d'ali di colombe. Anime al cielo, petali di scalze margherite.

giovedì 11 settembre 2014

Eleven. September





Contando infinite fragili assenze,
i giganti in ginocchio,
l’eco dei nomi.
Sentite?
Sentite.

mercoledì 11 settembre 2013

September, eleven





eight, nine, ten.
Eleven

I bambini hanno disegnato per terra un gioco vecchio, antico.
Campana.
Little Italy, cuore di Manhattan.
Mentre contano i passi io acquisto un quotidiano. Le immagini, per non dimenticare.
Il fumo. Le torri.
La fine. La terra.
Se fermassi la gente per strada, ognuno di loro mi saprebbe dire dov’era quel maledetto 11 settembre alle 9,02.
Mi porto dentro il fermo immagine di quei fogli di carta che ondeggiavano come foglie d’autunno. E scrivevano la storia.
Il fumo. Le torri.
La fine. La terra.
eight, nine, ten.
Eleven

sabato 29 giugno 2013

In Frave




“La casa la fece costruire il Gran Masten alla fine del Settecento quando divenne un particulare, qualcuno che aveva terra di suo, buoi, mucche, galline e conigli e tante moggia da avere bisogno di altre braccia.
(…) la lunga sequenza di stanze una appresso all’altra. Una costruzione a due piani più il granaio dalle finestre schiacciate a diretto contatto con il tetto, il fienile e le stalle si allungavano di fianco fino ad arrivare alla strada.”

Rosetta Loy, Le strade di polvere

La telefonata arriva nel primo pomeriggio a interrompere il nulla che le ore di afa costringono a una siesta forzata, le pale del ventilatore a soffitto giravano l’aria e il vecchio pendolo scandiva lo scorrere del tempo.
-Cugina!-
-Robertino? Che sorpresa.-
-Solo tu ormai mi chiami Robertino.-
-Dai, che mi telefoni solo per sentirmelo dire. Che mi racconti?-
-Ho comprato l’ultima quota del casale in Frave, ora è mio, voglio ristrutturarlo e farne un agriturismo.-
-Me lo faresti rivedere prima di iniziare i lavori?-
-Quando vuoi.-
-C’è ancora la fermata del treno a Sant’Anna?-
Ride.
-Sì.-
-Domani pomeriggio? Mi vieni a prendere alla stazione?-
-Sarò lì.-

La campagna mi scorre dal finestrino, assolata di grano da mietere e vigne, colline dolci e terra bianca di tufo.
Il treno si ferma in una piccolissima stazione di mattoni rossi con le finestre sbarrate e i vetri rotti, come bocche spalancate e un urlo appeso a un quadro. Tutto è immobile, solo il frinire delle cicale, il lontano abbaiare di un cane e questa locomotiva ferma, come in un libro di Baricco.
Robertino è appoggiato alla portiera della sua auto con le braccia conserte, gli occhiali da sole, le maniche della camicia arrotolate al gomito e i pantaloni scuri. Mi viene incontro sorridendo. Ci abbracciamo.
L’auto lascia presto la strada asfaltata per imboccare il vicolo di sabbia e polvere che attraversa la campagna. I pilastri del grande cancello con i battenti aperti, avvolti dai rovi e dall’edera, ci accolgono.
“In Frave” ha resistito la scritta in pietra.
Ci fermiamo nel grande cortile. Oggi la casa mi sembra più piccola, o forse siamo noi che siamo cresciuti. Il grande tetto spiovente copre tutto il cortile interno e la balconata del primo piano, la pantalera. Il pozzo con il secchio arrugginito sulla destra, il fienile, le stalle, poi la grande vigna.
Robertino prende le chiavi dal cruscotto.
“Topo, topolino…dov’è la chiave?
Sotto il trave.
E il chiavino?
Sotto il cuscino”
Usciamo nel sole, le nostre ombre ci seguono docili. Quando apre la porta i ricordi ci vengono incontro e nessuno dei due parla, un nodo stringe la gola mentre attraversiamo le stanze che si aprono una dentro l’altra, come un caleidoscopio chiaro-scuro di ombre. I nostri passi sono l’unico rumore, insieme al tubare delle tortore.
La grande cucina, il camino, e con gli occhi dei ricordi riempiamo i vuoti rimettendo a posto i mobili che non ci sono più, come in una casa delle bambole.
Ecco il tavolo e le sedie, dove si sedevano i grandi, la porta della cantina che odorava di muffa e di vino, nonno pipa seduto con una coperta sulle ginocchia. Chissà perché i vecchi hanno sempre freddo, anche d’estate.
Saliamo la scala che porta al piano di sopra, il lungo corridoio che percorrevano di corsa, perché avevamo paura che qualche “mostro”, della nostra fantasia bambina, tirasse fuori una mano da quei mobili scuri e ci afferrasse.
Ricordo la punta bianca delle mie scarpette con il fiocco blu, e una gonna rotonda, come la corolla rovesciata di certi fiori di campo.
Usciamo sul balcone.
-Vedi, laggiù vorrei fare la piscina.- dice a un tratto Robertino, strappandomi ai ricordi.
-Certo avrai da fare molti lavori.-
-Lo so. Ma queste vecchie case se non ricevono manutenzione poi finisce che l’odio le butta giù.-
E so a cosa si riferisce. A beghe di eredità, di una casa frazionata come un puzzle, a eredi che non vogliono vendere, a case che alla fine crollano.
-Come sta tua sorella?- domando.
-La cura che hanno provato a Grenoble pare arresti per un po’ la malattia. Ma è un processo degenerativo.-
-Lei ti ha venduto la sua quota?-
-Sì. Avevo già la maggioranza della proprietà, dopo la morte dello zio, non le conveniva farmi la guerra.-
E penso alla tristezza di certi funerali che facciamo per i vivi, ai rami tagliati dell’albero genealogico come il reattivo del’albero di Karl Koch.
-E tu? Come stai?- mi chiede.
-Sto bene.-
Lo guardo, mi guardo, le rughe che accarezzano gli angoli degli occhi, come chi è sopravvissuto a una pestilenza, portavamo addosso le cicatrici della vita, come bolle di vaiolo.
Poi scendiamo e tira fuori dalla ventiquattro ore i progetti di come verrà quel B&B che affaccia sulle Langhe.
-Ti va un caffè?- mi chiede.
Annuisco.
Risaliamo in auto e mentre ci allontaniamo il vecchio casale si fa piccolo nello specchietto retrovisore, fino a scomparire, l’ultima immagine che mi balena dalla porta dei ricordi è dei grandi che ballano nell’aia, una festa di matrimonio e noi bambini che giochiamo a nascondino.
Le cose più belle, le abbiamo già vissute.

“Solo ciò che si racconta vive” mi torna in mente un aforisma di Lalla Romano.

giovedì 21 giugno 2012

Occhi tempesta


A una ragazza di 20 anni fa che scriveva poesie nell’ora di matematica,
e a te che dopo 20 anni ancora te le ricordi…

Lui aveva gli occhi del colore della tempesta,
lei i capelli cuciti nell’orlo della notte.
Il vento lontano,
come solo silenziose le stelle stanotte
mentre le nuvole intrecciano danze con la luna,
le tue parole si perdono nel tempo come le notti di maggio
ma è antico il colore del vento che me le riporta.

venerdì 30 marzo 2012

Scacco matto

Ricordi la nostra scacchiera? Comprata una domenica mattina al mercato di Portobello, con gli scacchi in legno di cedro del Libano.

Aveva un sapore esotico, e sicuramente aveva viaggiato, come noi. Ci piaceva immaginare chi l’avesse portata lì e perché poi fosse finita su una bancarella colorata.

Giocare a scacchi aiuta a pensare, e mi piaceva guardarti mentre ti concentravi nella tua metà di campo da gioco.

Parlavamo, per ore. Tra una mossa e l’altra. È lì che mi hai raccontato la tua vita, e io per ascoltarla, non ti ho detto della mia.

Partite lunghissime, fatte anche in assenza di uno di noi, muovevamo le pedine per un gioco di attese. A turno passavamo vicino e spostavamo gli scacchi.

Gli anni sono passati tra le dita come grani consumati di rosario appresso alla processione della Vergine, il venerdì prima di Pasqua.

Lancette di un orologio a ritagliare un quarto di vita perfetto, su un passato prossimo.

Quasi luna piena di Marzo.

Oggi è in stallo anche la polvere, su quella scacchiera, però io ho messo la regina bianca vicino all’alfiere, di fronte al re nero. Ora tocca a te muovere.

domenica 26 febbraio 2012

Vela latina

Stamani sono uscita scalza sul terrazzo, il mare lambiva l’orizzonte dei miei occhi, schermando il sole con la mano si è affacciata al mio sguardo una regata, e tra le barche una vela conosciuta, gonfia di vento è stato il buon giorno di un ricordo.

Vela latina, con quella luna storta e azzurra appoggiata a una malinconia.

Vela latina sulla tua barca, eri lì in quel giardino di mare dove si affaccia la mia casa.

Sono uscita di fretta, tra le case del borgo, abbracciate le une alle altre, tra vicoli stretti dove ancora non era sceso il sole del mattino, il vecchio Pucci sul lungo mare, e i pescatori a cucire le reti.

La tua casa aveva le imposte spalancate, come un abbraccio. Nina mi ha detto che eri uscito in mare, ma già lo sapevo, mentre le lasciavo il saluto di una mano sventolata e il molo, sempre più vicino. I miei passi sul pavimento di legno, e quella vela latina, più grande, mentre sfila lentamente verso la banchina. Riconosco la tua sagoma e il tuo sorriso mentre mi lanci una cima che lego come a fermare pensieri come corse di cavalli liberi.

Con le gambe a penzoloni sull’acqua, seduti a prua, i jeans arrotolati sulle caviglie, i piedi scalzi, ce ne stiamo in silenzio.

Hanno chiuso il Caffè sotto il mare e Leone si vede poco in giro. Ma questa è un’altra storia e la conosci gà.

domenica 30 ottobre 2011

Via degli Oleandri

A un’amica…

Il mattino sbadiglia mentre afferro un volo di gabbiani nel quarto di cielo, che sta tra la mia finestra e il campanile.

Il caffè, le notizie alla TV, i miei gatti che attraversano morbidi il mio pensare.

Il telefono.

È Lea. Entra nella mia casa come un vento caldo d’autunno, quello che spazza i viali parigini, mentre tiri su il bavero della giacca e scopri una coccinella tra le dita.

Un portafortuna. Pensi.

Come un ferro di cavallo da appendere dietro alla porta. Hanno detto che così si fa.

Cavalieri e tavole rotonde, voltando un’altra pagina. Di un libro.

Ascolto il ritmo del suo parlare mentre raccolgo note troppo basse per il pentagramma di chi vorrebbe una sinfonia di Vivaldi. E non certo l’autunno.

Un cruciverba di parole, il suo amore, dove cuore non trova la rima in un quattro verticale che inizia per “q”.

Qualunquismo, mi viene da pensare.

Perché dobbiamo sempre legare il nostro star bene o star male al ritmo di un altro?

Dandogli tutte le colpe e contandone le assenze.

La ascolto, mentre tiro su un ramo di buganvillea del mio terrazzo e distratto lo sguardo incrocia il cielo al rumore di un aereo: la sua lunga scia va da est a ovest. Forse nord-ovest.

Penso che sarebbe stato meglio che mi lui avesse regalato un mazzo di margherite o di rose. Sarebbero appassite e non avrebbero dato altri fastidi.

Un altro aereo sale da est e punta a nord.

Seguo la scia.

Già, la scia. Ma perché ci sono immagini che ci obbligano ai ricordi anche quando staremmo tanto meglio senza.

-Ma mi ascolti?-

Lea mi richiama al suo presente, forse un aereo dovrebbe prenderlo davvero. È un po’ che glielo dico, me la immagino all’altro capo del telefono mentre nervosamente tiene un’unghia, come petalo d’oleandro tra le labbra e i denti.

Via degli oleandri, quella casa sul mare toscano che respira di pini marittimi.

E un’isola, gemma verde tra i ricordi, tra i capelli fatti di alghe.

Raccogli conchiglie di presente ascoltane la voce impastata di sabbia e onde.

Trova la nota perfetta e il taglio di luce esatto. Conta le presenze.

Sì. Anche il si è una nota per chi sta seduto su un rigo di pentagramma, tra lo spartito e l’orchestra.

Uno sguardo al cielo che stempera le scie d’aereo. Sì, erano meglio le margherite.

Per giocare a m’ama non m’ama, sull’aia di una danza antica, e la conta sulle dita.

lunedì 17 ottobre 2011

Non esistono ladri d’orizzonte, diamoci un taglio

Il sole era un’arancia rossa affacciata al mio bicchiere vuoto, nella sala d’attesa di una vita.

Sale d’attesa

Attese

Di biglietti obliterati, morsi con i denti a ferire la neve con il sangue.

Walzer di cellule impazzite nausea di riso soffiato sulle labbra.

Punta Perotti è un cumulo di macerie, acciaio contorto e cemento sgretolato, affoga il sole crepitando sul mare e sposa una luna dorata che lascia scia d’argento sull’acqua.

Sento un brivido, allungami una coperta di mare, lascia che mi copra nel ritorno umido di marea, mentre mastico sabbia.

Carezze di sguardi sulla superficie ruvida degli ulivi, che feriscono la pelle, lasciando un segno, il resto mancia, nelle tasche scucite di una zingara a pescare il destino.

Ulivi e baobab, braccia al cielo a invocare perdono.

-Posso farti una carezza?

La tua mano.

Pelle

a pelle

scatena il temporale dei miei occhi, di lacrime che non posso piangere, di ossa spezzate nel gioco sbagliato di bastoncini di shangai.

Nodo alla gola a scendere, fantasma disteso come filari di vite.

Vita

Le banchine delle stazioni di quando si cerca il volto assente di un presente imperfetto, tempi verbali, accordi stonati.

Dis(accordi)

Chiese e Santi nascosti nelle pietre delle case, campane che suonano, nessun campanile.

Campane,

croci di Sant’Andrea, ai passaggi a livello.

Fermi, con le fiabe nelle mani, racconti bambini, perché loro ai sogni ci credono.

In equilibrio sulla mia insicurezza taglia con le forbici la linea dell’orizzonte.

Apparecchia sul tavoliere ruggine a legare i filari delle vigne.

Le file del destino in tasche di grano, paglia i miei pensieri.

Afferro la notte, infilando le unghie nel cielo buio che mi ruba l’orizzonte.

Costretto il diaframma per gridare un (no) che arrampica la notte senza cielo dove il buio ha perso l’orizzonte.

(Sulle labbra solo un lamento)

Le parole si fanno mute, ferme sui punti.

Si leggeva Shakespeare alla Cappella degli Scrovegni.

Cesella il restauro del mio cuore in pezzi.

Mosaici

Per(dere) e per(donare) certe carezze che lasciano buchi nell’anima mentre cerchi di lavarle vie.

Atto di dolore (lavami l’anima)

Mi pento e mi dolgo (atto di dolore, cucimi l’anima)

Il riflesso della luna cristallizza una ferita di spalle piegate, arrese, dita contratte, vattene via dai polsini arrotolati delle tue camicie a stropicciarsi sul pavimento.

Minuetto e sipario.

Risponde in eco il Quintettino di Boccherini, do maggiore,

“Que c'est triste Venice
quand on ne s'aime plus”

Ponti rovesciati in piccole miniature di vetro soffiato, da agitare per far nevicare.

Lingue straniere e pensieri fragili raccolti nei foulard.

Que c'est triste Venice
in una bolla di vetro.

Santa Maria, prega per noi…

Ultime file che ancora cercano baci, mentre già corrono i titoli di coda, all’uscita di un cinema che a raccontarti un libro basto io.

Non esistono ladri d’orizzonte, prestami le forbici arrugginite, chiuse dalle pietre, là in quel paese sul mare e taglia il cielo in coriandoli, fai nevicare ritagli di nuvole di drago.

Le parole che van giù come gettoni a coprire le distanze.

Bustine di zucchero a ballare un tango sulle tazzine al Caffè del Mar.

Parole crociate sulle verticali di certi muri in pietra,

io,

2 orizzontale, il contrario di un sì.

Punti e virgole, raccontami una storia di frasi lunghe, senza andare a capo,

che certi bagni di mezzanotte ti lasciano asciutto, avvolto in lidi di lino e brezza tra le ciglia, tremando un temporale, dagli occhi.

Lidi di levante mentre coltivo ulivi bonsai sul mio balcone a Shangai.

Piombo il Q-U-O-R-E

impiccata una lettera, iniziale sbagliata al collo

domenica 11 settembre 2011

11 Settembre, I love NY


-Dopo il crollo delle Torri Gemelle l’Empire è tornato ad essere il punto più alto di New York, la mano con cui la città dei sognatori cerca di acchiappare il cielo- Paolo Cognetti





Questo è l’unico ponte al mondo dove le persone camminano sopra le auto, le auto sopra le navi e le navi sopra i treni.

-E che posto è?-

-New York, young man. Questa è l’America-

Quell’uomo era certamente un immigrato, lo si avvertiva dall’accento, un che di siciliano, mescolato a pistacchi di Bronte e cannoli alla ricotta.

Osservavano una cartina della città, attraversata dai suoi ponti, Brooklyn e Verrazzano.

Ero uscita dalla metropolitana e restavo sul pontile a guardare Liberty Island, con il profilo di una statua che era diventata icona ed emblema, per chiunque entrava dall’oceano.

Un po’ come un faro.

I turisti facevano la coda ai botteghini per imbarcarsi con i traghetti.

L’anziano uomo e il ragazzino erano seduti su una panchina poco lontano da me.

Ascoltavo quel misto di italiano e americano smozzicato, e sorridevo.

Poi finalmente mi decisi a voltarmi, quel vuoto tra i palazzi non era cambiato. Tante volte avevo sbattuto le palpebre sperando fosse solo uno scherzo dello sguardo. Le torri non c’erano più.

C’è un poster nel mio studio con lo sky line di New York dove ancora svettano, un fermo immagine, come un falso storico.

11 Settembre, chiunque fermi per strada oggi ti saprà raccontare esattamente cosa stava facendo quel giorno mentre tutte le agenzie battevano la notizia di un’esplosione alle Twin Towers.

E tutti abbiamo visto in diretta il secondo aereo. L’inizio della fine.

Il sogno americano, sopravvivrà alla cenere?

Mi domando, mentre mi incammino verso Ground Zero.

Sulla mia maglietta c’è scritto: I love NY.

domenica 17 luglio 2011

Menton, Jardin Bioves


Perché l’amore, Fumi, sarà senz’altro meglio quando c’è. Ma per persone come noi diventa perfetto solo quando c’era. [L’amore quando c’era] Chiara Gamberale

Ci sono posti dove mi piace arrivare in treno.

Luoghi così incredibili rubati alla roccia e a il cielo. La Val Roya è uno dei percorsi più arditi e affascinanti, anche per l’anima.

Quando il treno finalmente corre lungo il mare, riabbraccio posti cari, come Le Calandre e Balzi Rossi. Le frontiere le hanno messe gli uomini, ma davvero poi il mare qui cambia colore, si fa di un azzurro che non ho conosciuto altrove.

“Menton, gare de Menton”

Scendo, tra i passi trascinati e festosi dei turisti.

Io non l'amo più, è vero, ma quanto l'ho amata. ... mi colpisce come uno schiaffo la scritta sul muro, Neruda in un libro aperto.

La casa è avvolta dalla penombra, mentre la attraverso per spalancare la porta sulla terrazza, un vento fresco mi abbraccia, i rampicanti della Signora Linette, arriveranno al quarto piano, penso.

Giù al tennis stanno giocando, il rumore ritmico della pallina si accompagna alle cicale, che non si stanno zitte. E i gabbiani, mia madre si lamenta sempre di quanto chiasso fanno, ha ragione.

Match point

Il mare è laggiù a sinistra, mi sporgo per vedere se Anna la rossa, è già qui. Vedo i giochi dei bambini sparsi sulla terrazza. Sorrido.

Qualcuno saluta, giù tra i salici. È Emma, con i suoi cocker neri. Alzo la mano.

“Presente”, è un gioco che facevano negli anni e continuiamo a farlo.

Accendo la radio, e mi sorprende ancora pensare che Enola gay, era quell’aereo. Che cambiò il mondo. E al ritmo di Words, don’t come easy, scendo a bere un caffè da Armando.

Come i pezzi di un puzzle. Mi racconta chi c’è. Chi è in spiaggia. Mi siedo all’ombra di un ombrellone, mentre bevo il mio caffè, sfogliando Nice Matin, domani è il 14, è festa.

“Vai in spiaggia?” domanda Armando.

“Vorrei andare a Eze”

“Bagno al tramonto a Mala?”

Sorrido. “Vediamo, se Luca è libero…”

Intanto mi incammino sui Jardin Bioves, giù fino al mare. Tra il profumo di citron e croissant.

Arrivo sino al faro, mi appoggio e guardo le barche che rientrano in porto.

Seguo la linea dell’orizzonte riparandomi il sole con la mano, la risposta al mio passare, la leggera increspatura sul mare lasciata da una vela, l’abbraccio delle onde, e questo cielo rubato alla montagna e queste case, dai colori pastello, le persiane in tinta. Le bandiere alle finestre.

Sento l’eco dei miei passi che mi fa compagnia, e mi domando se questo non sarebbe un bel posto dove fermarsi, o dove tornare.

Ah, questo treno che prendo oggi, che tu sei partito.

Mala al tramonto ha i riflessi cangianti del giorno che muore, di un sole liquido che stempera le assenze, con quell’aroma di pini marittimi e cicale.

Restare immobili, aspettando la luna piena, e camminare sulla sua scia con passi d’argento, una fiaba di bambini, come un ricordo andato.

giovedì 2 giugno 2011

La casa della luna nuova


“La casa…non so quando è nata…Era un pomeriggio avanzato, siamo arrivati a cavallo in queste solitudini…poi la casa mano a mano è cresciuta, come gli uomini, come gli alberi” Pablo Neruda

“Io non so se Pablo era un buon costruttore di case o meno, di una cosa però sono certa: le sue case non assomigliano a nessun altra” Matilde Urruttia

Quella sera mi sorprese vedere la luna in cortile, quanti mesi erano passati da quando lo conoscevo? L’inverno aveva lasciato posto all’estate. Quando erano tornate le foglie sugli alberi? E le rondini?

La casa della luna nuova.

I posti che mi hanno accolta e salutata: la casa del vento, la piccola barca, la casa sulla scogliera.

A volte, in certi afosi pomeriggi estivi, amo stare seduta sui gradini della casa dello scultore, all’ombra.

Stavo seduta e ne spiavo il lento decadimento di casa disabitata, di muri che ammuffivano.

Non sapevo se un giorno sarebbe stata mia o se lo fosse stata in un’altra vita: legami.

Nella mia casa della luna nuova guardo i mobili arrivati dall’Indonesia. I containers, il porto, la mano sul legno di teak che odora di terre lontane.

Le tengo tutte le piantine delle mie case, sono la fotografia più bella, il ricordo che ho di loro, lo scheletro su cui far riposare i ricordi.

E mi sorprendo di come sia ora di voltare un’altra pagina di calendario. Aspettando una nuova luna.

Forse un po’ disillusa, guardando il mare di traverso da una finestra dimenticata aperta, sul davanzale del cuore, e un ricamo legato al polso, che stride, voce di gabbiano, preghiera di caduta, come le campane a suonare l’Ave.

La valigia pronta per un altro ricordo, per un tempo distratto ed imperfetto, per questo troppo esserci, tra salsedine e sabbia tra le dita.

Certe scommesse perse in partenza ma ho un asso nella manica che se ben giocato stravolge le regole del gioco.

La casa disegna un’ombra obliqua sul cortile, un taglio sui sette gradini.

Sette note scendono piano a cercare il tono più basso, sussurrato di un addio.

E il taglio è la sua storia, come una tela di Fontana: quando il colore non è sufficiente al dolore, il taglio netto e preciso della tela è il ritratto di un saluto. L’ultimo, a una casa, la mattina voltandosi, quando si va via e si sa che non si può più tornare. Non si può più tornare?

Bisogna ricordare la strada.

Come una casa e un’officina nella città sul mare che oggi è solo grattacieli e cemento, il suo ricordo, per fortuna, ha fondamenta solide dentro di me.

E sulla spiaggia, tornando da correre, il mare stamattina ha lasciato un messaggio in una bottiglia.

Come un regalo di Natale fuori stagione, inaspettato e meraviglioso

venerdì 11 settembre 2009

Eleven

Ho visto il pozzo di luce sulle scale mentre aprivi i tuoi occhi, finestra su di me, città in verticale, con la testa tra le nuvole.

Le strade di polvere imbastiscono le trame a Lower Manhattan.

Il tempo ritorna come lacrime sui vetri delle auto ferme a un semaforo, pioggia negli occhi.

I gabbiani si stanno fermi a Ellis Island. Puntini ordinati, a un tratto si alzano in volo su Liberty Street. Poi virano sul fiume.

Quel giorno milioni di fogli bianchi ondeggianti in caduta libera, a scrivere la memoria storica del passato prossimo. La carta bianca a contare le assenze.

Eleven

Calendari spezzati, colonne d’Ercole fragili come bastoncini da shanghai. Ossa di gesso.

Il Buio.

Dopo il boato, dopo i crolli, dopo l’indomabile sinistro silenzio dei giganti.

12 rintocchi.

Eleven

Ecco ancora mi appendo al volo dei gabbiani che puntano a sud. Lontano.

E da Ellis Island guardo il profilo triste della città in verticale e sempre mi sorprendo della loro assenza. Un taglio di cielo che ancora sanguina.



(a NYC)

mercoledì 10 settembre 2008

11 Settembre. Era l’America


“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”

La mia finestra su New York si apre su uno squarcio di cielo che lo sguardo riesce a ritagliare in quella corsa in verticale fatta di grattacieli, di appartamenti incasellati uno sopra l’altro, di persone, sopra le persone, sopra le persone, su su, seguendo il numero dei piani sul display dell’ascensore.

La personale conquista del cielo dei magnati, degli uomini del petrolio, dalle foto d’epoca che ritraggono operai appesi a colazione su lastre d’acciaio, lo scheletro di nuovi dinosauri, ai ponti in equilibrio perfetto di uomini sulle auto di auto sulle navi, di navi sui treni.

Già perché questa è l’America, questa è New York, Big Apple , mangiata nel suo interno da un grosso verme, la metropolitana, che raggiunge ogni angolo più lontano, il Bronx e Long Island, gli Heights e Wall Street, collegandoli, creando una rete di scambi che sulle cartine sembrano il complicato intreccio di cavi e fili elettrici, non la via sotterranea di una metropoli.

La città che respira uno scarto di odore di mare e sbuffi di vapore, quel che brucia dentro.

Incrocio gruppetti di persone a fare jogging la domenica mattina a Central Park mentre sorseggio un caffé, nel bicchiere di cartone di Starbucks.

Indovino le bandiere che distinguono i volti e le nazioni di migliaia di uomini, dagli occhi a mandorla, dalla pelle color cioccolato, da quel caleidoscopio di razze di nuovi cammellieri e saggi venditori di datteri.

E ogni volta che esco dalla metropolitana a Wall Street, immancabilmente alzo lo sguardo e cerco di colmare il vuoto sul cielo e di abituarmi allo skyline cambiato, deturpato, come una cicatrice invisibile che si è portata via piani e piani di scrivanie, di uffici, di persone e persone e persone tra calcinacci e vetri frantumati. Un gigante buono piegato su stesso colpito al cuore. Muezzin sulle torri a chiamare alla preghiera. L’unica cosa che resta. Mentre un portoricano vende giornali all’angolo di Morris Street e si fa la fila per pranzo dall’indiano che cuoce gli hot-dog all’ombra del presente sopravvissuto. Di un luogo che è tutti i luoghi. Di una città che è tutte le città.