giovedì 31 gennaio 2008

Don Juan. E poi comprammo datteri a Damasco









Monet





Nell’inverno misterioso, una gondola scivola e il suo passare screpola l’acqua, che la laguna raccoglie i rintocchi dei Mori.

La notte tesse trama di nebbia, a maglie larghe, sì che le parole possano attraversarla, celando i volti, in bizzarre, spaventose e ricche maschere carnevalesche.

Gioco di ridenti coriandoli per le calli e sui ponti, di qua e di là dal mare.

I palazzi si accendono di luci e brillano i vetri soffiati, dai maestri a Murano, mentre l’orchestra già vibra nell’aria note di uno stradivari.

-Dov’è? Don Juan dove sei?-

Battono le porte ad un ad una i giullari con ridenti campanelli al ritmo di passi, ma lui non c’è.

Don Juan non si trova.

Le vetrine delle botteghe sono buie e riflettono anguste le immagini di dame in velette blu.

-Dov’è? Don Juan che è successo mai?-

La notte rotola il suo passare e le ore riempiono i calici, la festa si fa ballo e chiacchiere.

Che bugia poi questo Carnevale.

Di un ballo, un altro ancora.

E bollicine nei bicchieri, ecco ascoltate… rintocca il campanile.

Di lassù, di lassù bianche colombe attendono, ma nel buio neppur sanno dire dove sia.

-Dov’è? Dov’è? Don Juan di te si parla questa sera.

Sulla scia dei balli e dietro ventagli e piume, si indovina chi si cela, in questo Carnevale.

Un mantello scuro danza già al ritmo della notte di magia, e dorata quella faccia, così finta, così niente, passa in fretta sopra i ponti.

E sotto scorre il Lete, di una voglia.

È Don Juan, ma cammina in fretta verso il molo.

Di là partono le navi, per paesi d’incanto e di mistero.

Lui lo sa.

Batte un cuore questa sera, per lui batte un grande amore.

Lui lo sa.

Storie su vecchie pagine degli anni, che a voltarle si sgualciscono le vesti, di pizzi e taffettà.

Quella sera su vassoi d’argento offrirono datteri grandi come mele.

Le dita delle donne si sfilavano dai lunghi guanti e il morso in quel frutto, dolce di piacere, ma che aveva rubato loro il Don Juan.

Oh lui sì, disteso e nudo, tra i capelli lunghi di una magia, una donna con la pelle calda come il sole di bronzo ad invecchiarle gli anni, ora ancora verdi.

Don Juan, ammagliato dalla mela del peccato.

Già la nave era lontana e viaggiò per giorni ondeggianti di sale.

Finchè bianca apparve la città vicino al deserto.

Oasi di palme e cammelli fruscianti a portare tappeti d’oriente.

Melassa dolciastra fumata con le gambe incrociate.

Volo basso di colombe, ma non era Carnevale.

Don Juan si era innamorato.

Piovve tutta la notte un cielo di grandine. Il vento alzava onde trasparenti sul velluto del buio.

Gli occhi celati dall’oscurità cucivano pensieri strappati come squarci di cielo.

Le nuvole erano gravide di pioggia.

Ne immaginava i contorni, umidi come il desiderio, fermo tra le gambe di una voglia a salire come marea di umori, per le vie della sua Venezia capricciosa e lontana.


E comprammo datteri a Damasco




domenica 27 gennaio 2008

E Radio City Music Hall trasmetteva a onde medie



































La nebbia saliva avvolgendo le finestre del mio appartamento al trentesimo piano sull’Upper West Side e la città ai miei piedi svaniva, era come trovarsi all’improvviso in aperta campagna in una sera di Novembre, ovattati di nulla.

New York dormiva la veglia delle sei.

I taxi si fermavano a Greenwich dove lavoravo.

Poi la sera i concerti a Radio City Music Hall da far ballare anche il Prometeo e vent’anni nelle tasche con il dollaro in ascesa.

Battuto al Nasdaq il prezzo più alto per il petrolio.

Che poteva importare ai newyorkesi quella sera, a spasso per Times Square, di quanto valesse l’oro nero.

Liquida la notte di dollari verdi nelle tasche a germogliare merletti di brina, le bocche di fumo.

La neve la mattina svegliava Central Park come in una cartolina, e la ramblas era nascosta ai grattacieli.

Briciole di pane per scoiattoli e pettirossi.

E Radio City Music Hall trasmetteva a onde medie, in cuffia, le mie scarpe al ritmo della maratona.






(Luglio 2007)

Giorno della memoria






















10 Gennaio millenovecentoquarantaquattro
Una pagina di memoria, perchè non accada mai più...

Articolo pubblicato il 18 Gennaio sul giornale La Bisalta di Cuneo


E su:
http://www.targatocn.it/it/internal.php?news_code=44116






martedì 22 gennaio 2008

Aix-en-Provence, matin







“Lei, era tutt’altra cosa. Innanzitutto, non guardava mai il fotografo. Giovane e sognatrice, affacciata al balcone di rue Damrémont, con un golfino scollato a V senza niente di sotto, avrebbe potuto essere una studentessa emancipata, o una segretaria seducente.”
Philippe Delerm

Cinnamon



“Il sesso deve essere innaffiato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate, di gelosia, di tutte le spezie della paura, di viaggi all’estero, di facce nuove, di romanzi, di racconti, di sogni, di fantasia, di musica, di danza, di oppio, di vino.” Anaïs Nin





La ventola sul soffitto ronzava, seguendo il ritmo dell’afoso zoppicante pomeriggio sulla linea dei tropici.

Margherita si alzò dal letto, passando davanti al piccolo specchio appeso alla parete, in punta di piedi, per vedere riflesso il suo viso, la sottoveste salì, seguendo il disegno delle natiche, scoprendo un lembo di pelle più chiara.

Marco si sollevò sui gomiti, sì quella donna lo seduceva con una disinibita ingenuità.

Il vero amore non si può cercare dove non esiste, e non lo si può nascondere dove invece c’è.

Lui restava a fissare il soffitto, cercando tra le macchie di umidità la mappa per venirne fuori.

Sconvolgente.

Tanta era la scoperta di quella forza che si portava nel cuore.

E quanto dolore combatterla, affiancarla, navigare nelle sue acque fino a perdere il controllo.

Lei sorrise.

Lui saltò giù dal letto infilò la maglietta, gli slip, i calzoni e le scarpe.

Faceva male. Male da morire.

Mancava l’aria, sì in quella stanza era in apnea.

Uscì.

Senza dire niente, senza chiedere.

Usciva ed entrava da quella porta.

Forse mai vi entrava, perché mai ne era uscito.

Sconvolgente.

Era l’amore.

Fuori lo investì l’aria umida, osservò le palme ondeggiare, stava piovendo.

domenica 13 gennaio 2008

In accor(do) di do



L'uomo ha paura del tempo,ma il tempo ha paura delle piramidi. (proverbio arabo)












"La mia bocca è aperta! La mia bocca è spaccata da Shu (dio dell'aria) con quella lancia di metallo che usava per aprire la bocca degli dei. Io sono il Potente. Siederò accanto a colei che sta nel grande respiro del cielo" (Libro dei Morti,Forula 23)


Scatola

di

d o m i n o

(do)lore accordato

in do-mi

note dimenticate

Ultima Dona

caduco volo basso

di un albatro

mi do-no

pensiero spogliato di un piacere

in-do-mi-to

l’ultimo accordo

Dominus tecum

Cuore

ti do-mi-no

disamorato

in vasi canopi

ancora figli di Horus

che Anubis vegli

(l’ultima notte del mondo)

Dominus tecum est





Ko-hi-noor, il Mare di Aral




Nel 1960 il mare di Aral era ancora uno dei più grandi mari interni del mondo.

Oggi la superficie del mare è ridotta, l’ecosistema è gravemente perturbato.

La popolazione soffre di malattie e fame.

A Muinaq le navi giacciono sulla sabbia, il vento porta alla bocca il gusto del sale.

Aspetto.

Tardi, sulla caduta del cielo all’orizzonte, ecco la tua ombra.

La mia mano a piagarsi sulla corteccia ruvida del tuo difenderti.

Le tue dita a ferirsi tra i cristalli delle mie lacrime,

il mio non arrendermi.

E’ nuvoloso

il tuo parlare oggi,

arresa piango.

In temporale

gli occhi, le lacrime

sono ko-hi-noor.

Ruga di sale a vestire la pelle.

Sono il mare di Aral, e porto in secca il tuo passare.

Tornerai marea e scopriremo nuovi diamanti,

di mattini di pioggia.

Lacrime, come kohinoor.

Forse in ginocchio, davanti a tutti i nostri ieri,

rotolati su qualcosa come il perdono,

che lascia in cenere questo passare.

La notte.

L’amore, mai per sempre

e

forse senza domani,

di un mare esasperato e ridotto a stagno di lacrime e sale.

Sei il mare di Aral,

quel deserto di navi in secca,

sull’ultima onda dell’incompleta variabilità

del tuo negarti,

un pezzo di noi tatuato sulle labbra,

sbavate di parole non dette.

Di due mani, un domani,

Aral ha solo ieri e lacrime di sale.

Ko-hi-noor,

hai

pioggia negli occhi.












martedì 8 gennaio 2008

Aix-en-Provence, la petit rue des pas perdus

Tons

Contraste

Harmonie

Termes

Techiniques

Le mie mani ricamavano lavanda sulla tela bianca del tuo insensibile sentire di etere e lividi i pensieri appena spogliati,

di cinguettanti mattini,

gambe nude sulla tua voglia,

che vegliava fino all’alba,

battezzati sbadigli

di gelsomini con bacchette d’incenso alla violetta,

smalti e cammei.

Aix-en-Provence,

quadri a metà

di un mare appena accennato

a lambire i pennelli

macchie di blu,

forse era il cielo

sull’onda viola di lavanda,

risacca in petali,

fiori del male,

le mie mani cucivano indaco

le tue parole sulla bocca

a Le Tholonet, dove cercavi ispirazione, Paul.

Quando Renoir domandava: “Ma come fa? Non mette neanche due macchie di colore su una tela, senza fare una cosa eccezionale”

Maledetti,

maledetti.

Poeti.

Benedicimi,

coito interrotto su fazzoletti di carne, la petit rue des pas perdus.

Il Carro

Girava le carte una zingara e dalle sue tasche scucite tintinnavano avanzi di monete straniere, sul frinire assordante di cicale a vestire l’ombra della vicina Camargue.

Sesso e mare mosso, aggrappata alle tue braccia nascoste in quel che avanzava dei tuoi occhi,

dentro,

dopo.

Navigammo naufraghi in noi tutta la notte, poi l’alba si svegliò affranta, quando dietro il velo di fumo e nebbia di fiato scalammo scalzi la montagna Saint-Victoire, appoggiata sulla tua tela, tocchi di colore,

quando donna dipingevo ombre sui muri,

inchiostro i capelli

nella macchina da scrivere

di refusi come grate di parole al confessionale,

pietà

il buio riflesso di una luna assente,

sfumavo in angolo col cuore,

a carboncino.

Hai venduto una sola tela prima di morire.

Nature morte,

le mele,

ritorno ad Eden,

mai chiaro-scuro della prospettiva, solo colore a riconoscere forma e spazio

di tovaglie e brocche,

nature morte,

mele

la sfida del peccato.

La lampada Tiffany, il bicchiere di vino nuovo,

le braccia conserte dell’uomo con il cappello di paglia,

uva caduta nei filari di gesso quando a mezzodì si alzava il vento,

faceva tremare l’argento degli ulivi,

portando in dono voce di campane,

le clocher du village,

che già era ora di tornare.

Campagna silenziosa di serpi nei muri di pietra e una casa là,

Aix-en-Provenece,

tra i tuoi servili silenzi sordi

e

i pranzi su una tovaglia rammendata di ricordi.

Asole vuote a inciampare acca mute,

nello spazio di centrini lavorati su buchi all’intreccio di fili,

sapiente intrigo di corte ciabattando

dietro rosari da sgranare,

in granelli di sabbia,

a ferire lingue d’ostriche

cicatrizzando perle,

tra le gambe.

Indifferente ai soggetti, li usavi solo per condurre i tuoi esperimenti sul colore,

eri interessato ai volumi, non allo spazio,

ero t-r-a-s-p-a-r-e-n-t-e

Cloroformio d’estasi a coprire parole putride,

appendice di carne

consumando le unghie a pelle,

tra i denti,

di me in vetrini per prelievi bioptici,

a sputare tisi di memoria.

Tutta la realtà la riconducevi a tre grandi solidi: cono, cilindro e sfera.

Cubismo erotico di astrazioni

in sillogi damascate e petulanti,

organza ed essenze di Provenza,

l’entroterra del mare,

lucido negativo come ballerine a Pigalle.

Le grandi bagnanti,

inserivi il nudo nel paesaggio,

mentre spogliavo la pelle per ore,

nessuna verosimiglianza,

la donna a sinistra non aveva nemmeno il volto.

Fu così facile dimenticarmi.

Dalie nere,

scalzi

mazzi di lavanda a testa in giù,

al mercato di utopiche fantasie distratte, come cammelli ad attraversare la cruna di un ago,

e un mare a dondolare nelle gobbe

da tagliare in certi asettici deserti per pescare ambiguo un azzardo alla vita.

Sottoveste, in sottotono alla liturgia degli avverbi di tempo,

per sempre e mai

a

Saint Sauveur, la cattedrale,

primo mistero doloroso,

Via Crucis delle parole non dette.

Le tue mani ritmavano pittura poetica,

propulsione di rifiuto a sputare sillabe dispari,

sovrapponevi i colori con spalmature successive, senza mai mischiarle,

non rappresentavi sulla tela il carattere del soggetto,

ma la percezione che di esso avevi,

fattura piena di grazia.

Cézanne,

quel temporale improvviso mentre dipingevi all’aperto,

e

luce perpetua su labbra esangui,

viola di lavanda,

cucendo Requiem con aghi d’istrice,

cenere da chiudere in terrecotte raccolte in fondo al mare,

di transatlantici naufragati cadaveri.

(Conservo la lettera di Madeleine, trovata dietro uno specchio antico nel retrobottega di un rigattiere a Montmartre, comprato per pochi franchi e polvere, carezza preziosa sul piano del comò orlato di piccoli buchi, il paziente lavoro dei tarli e del tempo)

Oggi cerco tra le tue tele quel che resta dello studio di un viso,

che hai cancellato

o

il rifiuto di rappresentare fedelmente un soggetto,

lei su quella tela,

Le grandi bagnanti,

tutte e nessuna.

Per dimenticarla, nessun tratto a ricordarla.

Quel che ti resta di lei,

in tasche di assenzio

mentre cammino lungo la petit rue, viola di lavanda,

zollette di zucchero e gocce di laudano,

allucinazioni

vagheggianti,

parole viandanti

lividi i polsi,

a sbucciare una mela con le unghie

al bistrot Deux Garcons,

ritorno a Eden.

Tons

Contraste

Harmonie

Termes

Techiniques

-Ho incontrato in fuochi fatui, Zola e Baudelaire al bistrot Deux Garcons dopo il funerale di Cézanne, io Madeleine-

Zucchero e cannella






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