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sabato 27 ottobre 2012

Villa Bahati

Watamu

Villa Bahati ci accoglieva con i suoi alberi di casuarina e le cascate di bouganvillea, i frangipane occhieggiavano tra le fronde e la strada bianca che dall’ingresso scendeva alla baia di Watamu si parava davanti a noi. Dalla finestra della cucina vedevo le isole e indovinavo la marea.
Quella casa dove si parlava italiano, inglese e swahili, ci ritrovavamo per una promessa fatta, un codice non scritto, ma essere lì era come appoggiare una bandierina, di quelle da cocktail, sulla mappa dei ricordi.
La prima volta che scendemmo sulla spiaggia e l’oceano non c’era, completamente ritirato, l’alta e la bassa marea si alternavano ogni sei ore, avremmo imparato ad apprezzarlo e ad amarlo.
Le onde ruggivano sulla barriera corallina quando si usciva per la pesca d’altura ai merlin.
Rimanemmo fin dopo il tramonto sulla spiaggia, a Shimoni, ad aspettare la luna piena salire dalla linea d’orizzonte sul mare, con i capelli di alghe e di sabbia, lo sguardo al cielo congiungevamo quattro puntini di stelle: la Croce del Sud.
Il chai intorno al fuoco sugli altipiani, il volo concentrico degli avvoltoi ad Amboseli, quello leggiadro dei fenicotteri a Nakuru: quante sfumature può avere il rosa.
Un traghetto per Diani e un ragazzo con la maglietta stinta dei Metallica.
Lamu era l’ultima roccaforte di libertà e alla Malindina brindavamo al nuovo anno.
Così ricordo quegli anni sulla costa.

lunedì 21 marzo 2011

Nakupenda wewe


Ai giorni nei grandi parchi

“Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova distesa sul suo dorso;

degli aratri nei campi e delle facce sudate delle raccoglitrici di caffè.

Ma l’Africa conosce il mio canto?

L’aria sulla pianura fremerà un colore che io ho avuto su di me?

E i bambini inventeranno un gioco dove ci sia il mio nome?

O la luna piena farà un’ombra sulla ghiaia del viale che mi assomigli?

E le aquile, sulle colline Ngong, guarderanno se ci sono?” da: Out of Africa

La pioggia era caduta incessante dalla notte prima, allagando le strade e i giardini.

I fiori di ibisco alzavano i loro calici per un ultimo brindisi, prima che le corolle rovinassero a terra.

Il grande baobab se ne stava là, gigante buono del mio giardino, con la sua corteccia ruvida e i tagli nel tronco, le tane degli animali, degli uccelli, e nella cultura animista africana sono tasche di un dio dove rigenerarsi.

E quando i giorni pesavano come nuvole gravide di pioggia nel cielo di Mombasa anche io appoggiavo le mie mani in quelle “tasche” del mio albero in giardino. Indovinando la risposta quando il vento che fremeva da nord mi invitava al silenzio, parlava d’amore se spirava da sud. Era foriero di notizie da est e da ovest mi invitava ad ascoltare la voce dei morti. Il nostro vicino passare.

Le previsioni meteo non erano buone, erano iniziate le grandi piogge, quelle per cui l’Africa si trasforma e lo stesso paesaggio si fa mutevole e ti prende quel sottile dolore alla bocca dello stomaco quando sei lontano: il mal d’Africa.

I bambini disegnano sul grande tavolo e il loro parlare tiene compagnia ai miei pensieri.

“Hai la pioggia negli occhi”, dice uno di loro.

Mi viene incontro un ricordo, bagnato di pioggia, nel Masai Mara. Il viso rigato di lacrime d’Africa, procediamo a piedi, in una fila ordinata, l’askari davanti tiene sollevato un fucile.

L’erba alta un metro mi avvolge le gambe con una ruvida carezza, si scivola, si sale a fatica lungo il pendio, a pochi metri da noi placidi rinoceronti bianchi brucano.

Piove, il tergicristalli della jeep ipnotizzava gli occhi scorrendo ritmico sul parabrezza.

Respiro il profumo della terra bagnata, della salvia e della menta selvatica, respiro l’Africa e in ogni cespuglio c’è un palpito di vita: il frinire monotono delle cicale, il laborioso volteggiare delle api, instancabili tra i fiori.

Dopo la pioggia sbocciano grappoli di fiori sconosciuti, grandi con petali viola, simili ad ali di farfalle o piccoli miracoli rosa, gialli, arancioni, nell’erba verde.

Mi riscuoto dai pensieri e guardo il mio giardino dalla veranda di questa casa, ascolto, l’Africa mi parla, mi tende i rami spinosi delle acacie, mi afferra e non mi lascia andare.

“Quando la pioggia finisce, possiamo dormire in tenda in giardino? Come facciamo a Tsavo?”

Guardo i bambini e sorrido.

“Vedremo” rispondo.

“E dai devi prometterlo” insistono.

I giorni di Tsavo. Li ricordi i giorni di Tsavo? Le promesse non mantenute. Scappare da se stessi, perché mantenerle sarebbe stato soffrire. Pensavo. Così credevo. Poi tu conoscevi le piste, sapevi le vie percorse, al tramonto mi hai insegnato la via per tornare al campo.

Una civetta appollaiata tra i rami di un’acacia ci osserva sospettosa e lancia il suo canto nella penombra, annuncia che la notte è vicina, si desteranno i grandi predatori, felini silenziosi, creature nate per la caccia e domani un’impala o una zebra non vedranno il sorgere del sole.

È la legge della natura per non morire di fame.

Quando un vecchio leone soccomberà e i suoi resti si mescoleranno alla terra, germoglierà erba verde per zebre e impala: è il grande gioco della vita, nessuna regola, se non sopravvivere.

Chiudevamo la cerniera della tenda. Nella credenza swahili la cerniera chiude idealmente la mente all’interno del cuore.

I bambini vogliono vedere le grandi lumache che escono dopo la pioggia.

Sta imbrunendo. Alzo lo sguardo e vedo le luci di segnalazione di un aereo, probabilmente diretto in Europa. Quante volte mi soffermo a pensare a quanti vengono in questa terra e sono suoi figli, per un po’, poi se ne tornano. Con grandi storie da raccontare. E quel cielo così curvo all’equatore che pare di sfiorare le nuvole con le dita.

“Possiamo portarne una in casa?”

Il mio sguardo severo li zittisce.

“E uff, viviamo in Kenya e non possiamo tenere un babbuino o un leopardo”

“Certo, e un elefante no?” domando.

Si sta alzando il vento. Soffia da est. Porta notizie.

Sarà che nella lettera mio fratello mi informava che a fine settimana tornate.

Avrò tante cose da raccontarti.

E spero non ci sia una grossa lumaca nella nostra cucina.

martedì 23 dicembre 2008

Christamas star al Fishing Club


Adeste fideles laeti triumphantes

Dalla veranda di quella casa sul mare a Diani mi stringevo un kanga sulle spalle, la sera arrivava sempre il vento dal mare, il respiro dell’oceano che frangeva le palme scarmigliandole e solleticando la pelle abbronzata di un brivido.

Sul tavolo la cartina che attraversa la costa del Kenya, è un tratteggio in rosso che passa per il villaggio di Noa fino a Tezo Kwa Chokwe, che sembra la mappa del tesoro. E un po’ un tesoro lo è, lei l’acqua, il nuovo oro nero, il bene comune. Tezo è un villaggio fatto di capanne di fango e paglia, di bambini e galline che razzolano nella nuda terra. Ogni giorno per arrivare al fiume le donne percorrono due chilometri, andata e ritorno,con l’acqua di una giornata in equilibrio perfetto sulla testa. Un progetto, chi ci ha creduto e chi ha sostenuto ed oggi c’è l’acqua. Per tutti. Qui a Tezo.

Gli occhi di Mama Ester raccontano più delle mani callose e dei piedi scalzi.

 
Venite, venite in Behetlem

Questo posto è la mia conchiglia sul mare, mi cammina dentro come una malinconia.

Al Fishing Club hanno appoggiato i fiori delle stelle di Natale, Christmas star, come centrotavola, che è notte di vigilia, notte di attesa.

Padre Angelo ha fatto il suo presepe sotto le palme e una cometa brilla sulla sua chiesa, la vedi quando a Ukunda giri a destra, sulla strada che porta verso il mare.

Natum videte regem angelorum

Quei giorni che pioveva ci sedevamo sulla veranda. Philip e Fabrizio giocavano a domino. Paul armeggiava con le canne da pesca e ondate d’acqua scrosciavano sui nostri pensieri.

“Sarah e Mark, i compiti!” Marika non ammetteva repliche, trovammo un accordo.

Giocavo a scacchi con Mark, otto anni, ripetendo le tabelline.

Feci scrivere un tema a Sarah su una colonna squadrata del patio.

La sua grafia curva, a tratti incerta si mescolava con qualche accento dimenticato.

“Oh, no” disse suo padre.

Ma sapeva, sapevamo che bastava un po’ di colore per cancellare. Tempera bianca. I muri andavano rinfrescati.

E intanto leggevamo libri e fumavamo sigarette mai spente.

E Bach stava chiuso in un CD.

Venite adoremus
Venite adoremus
Venite adoremus Dominum

Dalla raccolta Cote d’Or

A Kuki G., Katana, Mama Ester, Triza e quel quarto di cielo d’Africa che porto tatuato sulla pelle

giovedì 28 febbraio 2008

L’Harmattan




Compro i vestiti alla moda, quelli visti in centro, da Sasch, scivolati dalle passerelle milanesi.

Boutique illuminate dal taglio obliquo e azzurrino dei faretti, dove le commesse attendono clienti masticando chewingum e ripassando la linea degli occhi con l’eye-liner guardandosi distratte allo specchio.

I brunch sul fiume dove i giovani rampolli della Borsa fanno jogging nella pausa pranzo e attraversano le finestre dell’Idrovolante ancorato al Borgo Medievale, tra radici di platani malati e acqua di Po, che inghiotte i riflessi e regala ombre.

Corrono, con il filo dell’auricolare che sobbalza sulla maglietta sudata, li bevo attraverso il ghiaccio del mio gin-tonic.

Ho sempre viaggiato per lavoro, per passione, per inseguire il vento.

L’Harmattan l’ho conosciuto da ragazza, avevo diciotto anni, nella regione del Sahel e dell’Alto Atlante, tra i monti spogli e impervi, erosi dal vento, di un paese al gusto dolciastro che bruciava nei narghilé, la sera, nei suk, sporchi, pieni di gente e di animali a razzolare tra i rifiuti.

Il mercato dei cammelli era un luogo affascinante, coperto dall’odore acre delle bestie e il lungo mercanteggiare dei venditori.

Si beveva tè alla menta all’ombra dei minareti che rovesciavano la litania dei muezzin.

L’Harmattan si alzava improvviso, nei mesi di Gennaio e Febbraio, colorando il cielo di giallo, soffiava per giorni nelle gole rocciose, sul deserto di sabbia, impedendo alle carovane nomadi di spostarsi.

Si fermavano ad Ajangafà.

Alzavano le loro tende che il vento gonfiava come palloncini, i cammelli stavano vicino, gli occhi vacui e il ronzare del vento tra i tiranti delle tende, l’unica voce.

Portavo un turbante per proteggere la bocca e avvertivo la sabbia infilarsi ovunque che la sera si scioglieva nel piatto della doccia, rossa e appiccicosa.

Al mercato compravamo la frutta, arance rosse, grandi ananas, banane, noci di cocco, quel giorno il vento arrivò improvviso, alzando un’ombra scura di sabbia, gli arabi si aggrappavano alle loro bancarelle di povertà.

Cercai di afferrare una sciarpa caduta a terra e il vento sciolse il mio turbante, lasciando scompigliati i lunghi capelli e scoprendo la mia pelle ambrata, al collo pendeva un ciondolo, l’iniziale del mio nome.

Raccolsi la sciarpa, porgendola al mercante che soffermò lo sguardo su quella piccola lettera dell’alfabeto.

Lo salutai in arabo, chinando la testa, segno di rispetto, come competeva a una donna, in quell’angolo di mondo.

“Kalin upepo” mormorò, spiegandomi che significava figlia del vento, signora della pioggia, indovinando un nome che non era il mio, ma aveva la stessa iniziale.

Mi regalò la sciarpa rifiutando le monete ossidate dal tempo che gli porgevo, ma prese la mia mano e seguì le linee contorte e spinose, sorridendo:

“Lui arriverà con il vento, e sarà l’amore”

Avevo diciotto anni e quelle parole vaneggiarono sogni romantici nel mio cuore di adolescente.

Quella sera piovve acqua e sabbia, il mio battesimo arabo.

Si viaggiava su treni lenti e carichi, verso il Mali, dove la prima classe impregnava l’aria di tè alla menta.

I sedili erano rossi, rigidi e i camerieri portavano livree consumate da un colonialismo ormai lontano che esalava gli ultimi respiri.

Le bande armate e i traditori già si alleavano e sparatorie attraversavano i paesi per la conquista di nuove terre.

Liberarsi dai coloni che li avevano depredati, ora si facevano la guerra per spartirsi un deserto di nulla, nel mercato nero delle armi.

Timbuctu era solo un miraggio vaneggiato dagli uomini blu, la sera, intorno al fuoco.

I controllori erano burberi, studiavano biglietti e documenti con precisione, litigando tra loro e intervallando discorsi da lunghe espressioni dialettali, difficili da interpretare.

E ti seguivano con lo sguardo, sempre.

Mark era il figlio di un collega di mio padre e il mio primo bacio francese, quando Parigi era troppo lontana anche solo per immaginare i passages couverts, Passage Vérot-Dotat con le sue insegne colorate.

Spesso i treni erano costretti a lunghe soste.

Un pomeriggio, io e Mark, scendemmo dal vagone per acquistare datteri dai venditori ambulanti e ingannammo il lungo ritardo di ore facendo l’amore su un treno vuoto, dimenticato alla stazione.

Fuori soffiava il vento caldo portandoci le voci morbide, dolci, di acca mute, di acca aspirate, di una lingua in sanscrito sui miei pensieri.

Mark non lo conobbi in una giornata di vento, ma negli anni è tornato spesso nella mia vita, improvviso, inaspettato, come l’Harmattan.

E una sciarpa di seta bianca.

Legata al collo.

L’ultimo giorno che passai con Mark fu nel deserto, prima che rientrasse con suo padre dopo la firma di un importante contratto per la trivellazione di un pozzo petrolifero.

Un posto dal nome magico e leggendario per i viaggiatori del deserto, Tamanrasset era l'ultimo avamposto della civiltà prima del balzo verso il Sud, verso il vuoto del Tenéré o dell'Air.

Dalla finestra di un piccolo albergo nel cuore del Sahara guardavamo il volo di colombe.

Bianche.

Bianche come mandorle sulla glassa croccante di un dolce di Natale.

Noel.

Quando nasce Dio.

La camicia da notte di seta scivola sulle gambe, mentre nel cuore della notte rispondo al telefono e indovino dal silenzio dell’eco che è una chiamata internazionale e una voce conosciuta mormora:

“Volevo solo dirti buon giorno, sono bloccato a Tamanrasset, soffia l’Harmattan”

Poi cade la linea.

Anche qui oggi c’è il vento, devo prendere la sciarpa.

Una sciarpa di seta bianca, come il volo di colombe in un deserto di ricordi.

Bianca come qualche confuso capello sulla tua testa.

Una sciarpa di seta bianca, sul mio tailleur, comprato in centro, da Sasch.

Vent’anni dopo.

domenica 9 settembre 2007

The ruins of Gede. La "Preziosa"







“Denys Finch-Hatton non possedeva altra casa in Africa, che la mia fattoria: là viveva, fra un safari e l’altro, là teneva i suoi libri e il suo grammofono (…)

Con lui, sedersi su una cassa da imballaggio, in una casa vuota, sembrava la cosa più naturale e cara del mondo. Mi recitava una poesia:

Devi mutare il tuo canto luttuoso

In un ritmo gaio;

non verrò mai per pietà,

ma per piacere.”

-Karen Blixen-

A Malindi su un promontorio che si spinge verso l’oceano Indiano c’è una colonna di blocchi di madrepora, la Croce Pradao, costruita da Vasco de Gama che all’ingresso del Mida Kreek di Watamu riuscì a nascondere le sue navi.

Nelle stive aroma di indian saffron.

La magia di quei luoghi rivive fra le rovine delle moschee di Gede, la Preziosa.

Il sito è circondato da due cerchie di mura che hanno resistito al tempo.

I blocchi di corallo non hanno subito alcuna alterazione dal XVII secolo.

I baobab si protendono al cielo, nella vegetazione lussureggiante, le scimmie urlano dalle cime dei rami. Le lucertole frusciano tra le rovine e tavolozze di colorate farfalle fioriscono sull’erba: kipepeio intonano i bambini.

Ricordo il Kenya e i suoi laghi, i deserti sconfinati del nord, al confine con la Somalia, dal finestrino di un bimotore.

Il paesaggio quasi lunare intorno al Lago Rodolfo, un mare di giada su spiagge di soda.

Baringo e Nakuro, stretti nelle giacche a vento, a spiare il volo di fragili flamingo, ballerine di carillon.

Un bouquet di piume chiare, strette in una piccola mano d’ebano, quante sfumature può avere il rosa…

Ora, seduta su questa veranda guardo un punto impreciso davanti a me, in quello spazio sconfinato, quel deserto che scopre la bassa marea, ascoltando, lontano, il ruggito dell’oceano sulla barriera corallina.

I dhow lasciati in secca, le vele latine sgonfie come meduse sulla riva.

Aspettando l’alta marea dall’imbarco del Malindi Fishing Club, e partenze per la pesca d’altura.

Turisti.

E le prime barche dell’Hemingways Club, una vecchia sfida.

Di marlin e improbabili storie di pescatori e pescecani.

Rum nei bicchieri.


Malindi, Luglio 2002



martedì 10 luglio 2007

Figlio d’Africa
















“C’è un punto dove la terra finisce e comincia il cielo, quel cielo così curvo all’equatore, come la piega di un sorriso. Il vento tra le palme, l’alternarsi delle maree, per sentirsi a casa.”

Kenya, Diani 1998

Gli anni trascorsero lenti, Matteo era uno zio sempre presente, nella quotidianità come nelle occasioni importanti, anche quando si innamorò di Syana, una bella ragazza Moldava.

Nell’Aprile di quell’anno Rebecca ricevette l’offerta di un lavoro presso il Consolato italiano in Kenya.

L’Africa, seimila chilometri dall’Italia, rappresentava un taglio netto con il passato, l’occasione per una nuova vita.

Rebecca ne parlò a lungo con Matteo e Caterina, che non si mostrarono entusiasti per questa partenza, anche se il loro amico Giorgio Antimodi lavorava a Nairobi.

Era il compleanno di Stefano, tre anni, tre candeline azzurre sulla torta che Caterina stava preparando.

“Mamma è arrivato zio Teo, vado al cancello!” la voce di Stefano risuonò cristallina come una musica, Rebecca e Caterina lo accompagnarono con lo sguardo mentre correva lungo il vialetto, era il ritratto di Marco, lo stesso sorriso, la stessa espressione imbronciata.

“Rebecca, ha bisogno di un padre, Marco non è felice imprigionato in quel matrimonio, quanto vorrai ancora punire lui e te?” cercò di convincerla Caterina.

“No, non posso perdonarlo!”

In quel momento Stefano si inciampò cedendo a terra, le donne corsero fuori, anche Matteo gli andò incontro scendendo dall’auto

Il bambino si alzò singhiozzando: “Ho la pioggia negli occhi”disse per indicare le lacrime che bagnavano il suo viso, Rebecca rimase in silenzio, quelle parole aprivano una porta nella memoria, anche Marco diceva così quando piangeva.

“Dai ometto, non è successo niente, vieni a vedere cosa ti ho portato per il tuo compleanno.” Disse Matteo.

“Mi hai portato il mio papà?” chiese il bambino.

Per un attimo ci fu silenzio, solo il frinire delle cicale nell’erba, Matteo guardò Rebecca, stava piangendo.

“Tesoro, lo zio non ti ha portato il tuo papà, vedrai un giorno verrà” poi prese il bambino per mano, aprì lo sportello dell’auto e da una grande cesta spuntò un piccolo Labrador, la gioia di Stefano fu incontenibile mentre seguiva il cucciolo per il giardino.

Matteo abbracciò Rebecca dicendole: “Un giorno dovrai dire a Marco di suo figlio, si sta perdendo i momenti più belli!” Quando Stefano aveva iniziato a fare domande sul suo papà Rebecca gli aveva sempre detto che viveva lontano, che era il fratello di zio Teo, lasciando aperta un porta, ma non riusciva a permettere a quell’uomo di tornare nella sua vita.

Una porta unisce due distanze e insieme le separa, ma se rimane socchiusa permette di vedere la luce di chi abita in quella casa, anche se non si può vederlo.

Stefano sapeva che il suo papà era un pilota, lavorava come militare di professione, in giro per il mondo.

A Giugno Rebecca e Stefano si stavano preparando per la partenza in Africa, Baloo, il cagnolino li avrebbe seguiti.

Caterina e Matteo li accompagnarono all’aeroporto: “Cerca di essere felice e ricorda che non puoi fare solo la mamma.” Disse l’anziana signora.

Rimase a lungo abbracciata a Matteo che le prese le mani tra le sue per salutarla notando il braccialetto con gli zaffiri: “Da quando Marco te l’aveva regalato non te lo sei mai tolta” “Non riesco a toglierlo” “Forse perché non riesci a toglierti lui dal cuore” “E come potrei, guardando ogni giorno gli stessi suoi occhi in quelli di Stefano”

Stefano era euforico, per lui cominciava la grande avventura d’Africa, chiacchierò per un paio d’ore poi si addormentò. Era notte l’aereo silenzioso volava verso una nuova vita, Rebecca guardava il suo riflesso sul vetro del finestrino, pensando a Marco, sentendolo così vicino nel contatto gentile con suo figlio ma in realtà così lontano.

Come le due mani di quel famoso dipinto che si protendono una verso l’altra senza incontrarsi mai.

L’alba all’equatore, vista dall’aereo ha già il sapore di esotico, un attimo prima solo le stelle, brillanti, vicinissime poi sulla striscia di cielo nera della notte si appoggia un fascio luminoso, rosato e in un punto si fa via via più arancio, finchè non si vedono i primi raggi fluire dall’oscurità.

E’ come se la notte avesse portato via il suo mantello scoprendo il sole.

Rebecca alzò lo sguardo e vide l’altissimo azzurro.

“Diecimila metri sotto di noi, l’Africa, chissà se elefanti e leoni alzano lo sguardo al nostro passaggio.” Pensò la donna. Erano quasi le otto quando l’aereo sbucò dalle nuvole e ai loro occhi apparve l’inconfondibile sagoma di Mombasa. Stefano aveva le mani appoggiate al finestrino e l’oceano sotto di lui era una distesa azzurra.

Giorgio Antimodi era venuto loro incontro, li accompagnò con la sua jeep a Diani dove Rebecca aveva acquistato una casa sulla spiaggia, era di un tedesco, c’erano alcuni lavori da effettuare ma era in buone condizioni, il proprietario le aveva lascito degli antichi mobili di Zanzibar, dallo stile esotico.

Stefano si guardava intorno meravigliato: la bouganvillae era fiorita, tra i rami dei baobab alcuni babbuini si aggiravano curiosi e il richiamo dell’oceano entrava dalle finestre.

Il mattino dopo arrivarono Nyevy e Joseph, erano una coppia di locali, anziani che si erano ritirati sulla costa, conoscevano Giorgio e avrebbero aiutato Rebecca ad accudire Stefano, quando la donna avrebbe iniziato il suo lavoro in consolato a Mombasa.

Rebecca si occupava del dipartimento educativo, recandosi spesso nelle scuole locali, amava quei luoghi, in particolare la piccola scuola sotto gli alberi, alla periferia di Malindi.

L’Africa fu per lei un nuovo inizio, trascorse giorni bellissimi con suo figlio sulla spiaggia o a visitare parchi e città.

Un pomeriggio raggiunse Stefano che era sulla spiaggia con Joseph, parlava in swahili con uomo dai capelli brizzolati, un europeo, Rebecca lo salutò in inglese, ma lui la sorprese dicendole di essere italiano, un imprenditore che lavorava nel campo dei safari, aveva un campo tendato nello Tsavo e una casa a Diani, non lontana dalla sua.

Fabio, questo era il suo nome, entrò nella sua vita in punta di piedi, era sposato, ma viveva lunghi periodi nell’assoluta solitudine dell’Africa.

“Seimila chilometri tra l’Africa e l’Italia. Perché una bella donna come te ha deciso di vivere quaggiù, sola?”

Rebecca lo guardò con affetto: “Non sono sola. Ho mio figlio. Amo l’Africa e non mi è rimasto nessuno in Italia e seimila chilometri sono una buona distanza.”

Fabio la osservava, aveva il volto cotto dal sole dell’Africa, la piega di un sorriso si insinuò sulle sue labbra: “Una buona distanza per chi è in fuga”

“Non sono in fuga”

“Qui non troverai le risposte, solo la solitudine”

Lui sapeva leggerle nell’anima e lei gli permetteva di farlo, aveva bisogno di tornare a vivere, di dimenticare.

Stefano correva davanti a loro, a un tratto cadde ferendosi su una formazione di madrepora affiorante.

Fabio e Rebecca corsero verso di lui, piangeva e il sangue scivolava sulla sua gamba. Fabio lo tranquillizzò e avvolse una bandana intorno alla ferita, in quel momento iniziò a piovere, prese il bambino in braccio e corsero verso casa.

Alcuni giorni dopo Fabio la invitò al suo campo tendato nello Tsavo, il Galdessa, pioveva spesso in quella stagione e le strade erano ridotte a paludi.

Stefano fu catturato dalle storie che raccontava Fabio, e dagli animali che vedeva, zebre, elefanti, leoni erano veri davanti a lui. Il Galdessa era un campo bellissimo, le tende bungalow erano realizzate su piattaforme rialzate da terra, con tetto makuti, affacciate sul fiume Galana.

“Mamma ti voglio bene” “Quanto?!” “Come due coccodrilli e un ippopotamo” Quando quella sera uscì sulla piccola veranda fu catturata dal buio dell’Africa, gli animali nell’ombra, Fabio la raggiunse, inaspettatamente la baciò. Lei assaporò quel bacio e rispose: “Tu hai già una vita e io non posso scappare dai miei ricordi”

“Zitta non dire niente, non ti posso offrire niente, e non ti chiedo niente” Fabio la prese per mano entrarono nella tenda, lui chiuse la cerniera. Nella cultura locale la cerniera chiude idealmente le mente all’interno del cuore.
(...)


Da un mio vecchio romanzo:

Côte d’Or : il figlio d’Africa

lunedì 18 giugno 2007

Parigi-Dakar, fermo posta Hotel de Ville









“L’amore colto al volo su un marciapiede, la giovinezza insolente su uno sfondo di grigiore quotidiano, ovviamente parigino…Ma nella mano sinistra del ragazzo c’era la sigaretta, che lui non aveva gettato via al momento del bacio. Eppure sembrava quasi consumata. Si sentiva che aveva tempo, che comandava lui. Voleva tutto, baciare e fumare, provocare e sedurre. Il modo in cui la sciarpa s’infilava nella camicia aperta tradiva la soddisfazione di sé, la disinvoltura ostentata. Era giovane.” -Philippe Delerm-

So che ci si innamora, disperatamente a Parigi e di Parigi.

Dalla borsa un’immagine scivolò mentre cercavo l’agenda, restai a fissare una riproduzione del“Bacio” di Doisneau, l’Hotel de Ville, rimanendo nella porta girevole di un albergo, guardai lontano la Tour de Montparnasse profilarsi all’orizzonte.

Al terzo giro un portiere discreto mi domandò se andava tutto bene, riportando indietro i miei pensieri da certi ricordi in bianco e nero.

Fermo posta, Hotel de Ville.

Fuori la vita scorreva sotto i colori grigi di una pioggia leggera, che bagnava i marciapiedi, le sedie vuote dei bistrot all’aperto, le fontane. Gli ombrelli fiorivano mentre sollevavo il bavero dell’impermeabile.

Burberry e Chanel, la tua giacca, la mia sciarpa a spasso sugli Champs-Elysées, la memoria di una foto, affogata in un cappuccino, di buoni propositi.

Per mano.

E’ curioso, gli amanti in questa città, dico. E’ curioso, sai li vedi, si sfiorano appena le mani, di giochi lenti come lo sciogliersi delle candele sulle tovaglie damascate, le finestre sulla strada.

Li osservavo e mi ricordavano vecchie foto d’epoca, chiaro scuro, dentellate, dai contorni incerti.

Chiunque abbia vent’anni potrebbe essere il protagonista del "Bacio", anche noi.

Non ho mai capito se quella sigaretta era consumata o spenta, trattenuta con delicatezza tra le dita, da assaporare come la rabbia al rum di certi pomeriggi di Marzo piegati su di noi.

Storie da un penny e Bourgogne, da sorseggiare lentamente, un aperitivo al Quartier Latin, al Café du Flore, ritmo morbido, quasi un tango sulle labbra, respirato piano, ubriachi del troppo esserci.

Una scommessa, un viaggio, Parigi-Dakar, un sogno legato stretto intorno al polso, come una bandana, di quei vent’anni.

Certi viaggi nascono dentro molto prima della partenza, e quel giorno lo sapevo, mentre compravo Le Figaro ai Giardini de Luxemburg.

Avevamo vent’anni e la fretta di uscire dai jeans, poi solo la radio, a tutto volume.

Avevamo vent’anni, ed era Parigi, di una Ville Lumiere a incantare ogni passo, tacco punta, arabesque.

Come il poster di una ballerina, appeso alla porta dell’armadio.

Tacco, punta, arabesque, volano via colombi ingrigiti, anche loro dal sapore chiaro-scuro.

La cena veloce nella soffitta sulla Senna, dove sono nata io. I poster di James Dean stinti alle pareti, come strappi nei jeans, briciole di baguette comprate calde, dal fornaio, all’angolo e le confetture dell’Epicerie, in rue St-Louis-en-l’lle, profumo di ciliegie nel cuore di Parigi.

Da raccogliere.

L’amore dopo aveva il sapore di avanzi di brandy e cartine stropicciate, Parigi si disegnava alla finestra, guardavo la Tour Eiffel salita tante volte con gli amici. Il Louvre era un altro ricordo.

Amavamo quelle domeniche d’Ottobre vuote di turisti a perderci tra sotterranei e sale, sorpresa ogni volta di trovare La Mona Lisa ancora là, a dispensare sorrisi.

Io non avrei potuto morire così, per questo non ti permisi di ritrarmi.

Le foto invecchiano, ingialliscano, sono sostituite da altre, i ritratti sono impietosi, fermano un momento in cui magari sei stato felice e ti obbligano a sorridere per l’eternità, come lei, Lisa.

Notre Dame rimboccava l’aria della sera con la voce rauca dell’isola, coperta della notte, avevo freddo uscendo dal Louvre, la tua mano sulla fronte.

Scottava.

Ora non ricordo se era calda la tua mano o ero io la malata.

La febbre tutta la notte, il verdetto a beffarsi di me, malaria.

Un cerchio rosso sul calendario, su un anonimo numero nero.

Arrivò e tu partisti.

Sarei arrivata dopo.

Fermo posta Hotel de Ville, lettere con francobolli stranieri, passaporti timbrati, departure.

Dakar si distendeva tra i palazzi altissimi e la sua periferia di disperazione.

Il Senegal è un paese che non dorme mai, sotto la luna guardavo i profili frastagliati dei baobab spogli, ardevano i piccoli fuochi ai lati della strada.

Dove andava tutta quella gente? Mi domandavo mentre il taxi mi portava in albergo, sfilava dal finestrino l’eterno caleidoscopio di divario tra le zone povere e le lunghe strade delle ambasciate.

Dormii poche ore tra lenzuola umide, e il chiassoso via vai del corridoio.

Il mattino dopo avevo appuntamento con uomo che mi avrebbe accompagnata nella zona dove presumevo tu fossi, mentre parlavo francese spendendo i miei CFA in un terribile caffé e i titoli di giornale.

Bocar mi aspettava vicino al mercato dove conciano le pelli di serpenti, sentivo l’odore acre e il martellare ritmico sulle squame mentre mi avvicinavo.

L’uomo che mi avrebbe portata verso la foresta di baobab e la savana era anziano, capelli grigi, il volto accennato di una barba incolta, gli tesi la mano mentre scopriva un sorriso giallo e qualche dente mancante.

La piccola auto sobbalzò sulla strada dissestata, mentre alla radio trasmettevano notizie di quella giornata di corsa, dal finestrino entravano nuvole di polvere rossa che lasciavano macchie indelebili, sui vestiti e nell’anima.

Bocar continuava a guidare, statua d’ebano, impassibile.

I bambini correvano agitando le mani alle auto che attraversavano i villaggi senza fermarsi, auto in panne, gruppi in attesa, cronometri, team agonizzanti.

-Sei in ritardo- erano le tue parole.

Percorsi gli ultimi 80 chilometri della Parigi-Dakar capendo la passione di chi corre, io ai 200 all’ora nella vita.

Non aveva importanza arrivare per primi, ma arrivarci al Lago Retba, meglio conosciuto come Lago Rosa per l’intensa colorazione fucsia delle sue acque, soprannominato il Mar Morto del Senegal, dato che le sue acque salatissime contengono una percentuale dieci volte superiore a quella delle acque dell’oceano.

L’arrivo della Parigi-Dakar, dove l’acqua costa più della Coca-Cola.

Nel lago galleggiammo ubriachi di niente e polvere.

Elle, c’era scritto sul mio costume.

La notte nel piccolo lodge la coperta di lana grezza mi pungeva attraverso le lenzuola, sentivo tornare i brividi della febbre mentre guardavo il tuo sonno tranquillo.

Tornando a Parigi chiesi al taxi di fermarsi, eravamo stanchi, il cielo era grigio, tu non capivi, ma non facevi domande, pagasti la corsa.

Sul marciapiede ti chiesi di baciarmi.

Eravamo lì, nei nostri vent’anni, un bacio davanti all’Hotel de Ville.

Tra passanti curiosi, forse a ricordare un’immagine in chiaro-scuro che aveva fatto il giro del mondo.

Noi, noi, infondo, avevamo fatto solo la Parigi-Dakar.

E nessun fotografo, su quel fermo immagine.



Cris -Ho percorso gli ultimi 80 KM della Parigi-Dakar, con un gruppo di amici nel Dicembre del 2001 per portare aiuti nel Sud del Senegal.
Di Parigi sono perdutamente innamorata...



domenica 20 maggio 2007

Malaika, makuti, mangrovie



- Dalla moschea di Kilifi

le preghiere si librano

entrano con me nella duka

a comprare zucchero - Kuki Gallmann



È una notte di Dicembre, che disegna merletti di ghiaccio ai vetri delle finestre.

L’aeroporto è quasi deserto, il buio riflette le immagini dalle grandi vetrate, il cielo è sereno quando salgo sull’aereo.

Dieci ore disegnano la rotta perfetta in verticale, sino a incrociare l’equatore, sulla terra d’Africa.

La notte sfuma leggera su un’alba all’equatore che non smette mai di sorprendermi:

una striscia di fuoco che taglia nettamente l’orizzonte.

Appesa al cielo la luna nuova africana

e

diecimila metri sotto di noi ardono i fuochi dei villaggi,

il cuore pulsante del Kenya che veglia.

È finita anche la notte più nera, sta nascendo il sole

e i cirri, con i loro pennacchi bianchissimi, si diradano nel blu.

L’aereo buca le nuvole e lo sguardo si fa abbraccio dell’ansa della laguna di Mombasa.

Fuori dall’aeroporto l’aria è umida, volano alcuni corvi tra gli alberi di Mango.

Appoggiata al sedile della vecchia Jeep osservo lo spaccato di vita quotidiana che mi viene incontro.

C’è traffico mentre attraversiamo il ponte, la gente scalza cammina nella polvere,

donne avvolte in kanga e kikoi coloratissimi,

profumo di frutta esotica al mercato.

I vestiti si appiccicano alla pelle, schermo con la mano la luce del sole,

mentre acquisto verdura e frutta, contrattando stancamente con i venditori.

L’aroma di spezie, le mosche sul pesce, il colore del nettare di frutta che imputridisce,

le facce sudate, e il cantilenare di una lingua che amo, lo swahili, dal sapore arabo.

Mi affaccio al negozio di un indiano, la duka è in penombra, la polvere aleggia sulla mercanzia più varia, stoffe, alimentari e oggetti cesellati in argento sotto il bancone di vetro convivono.

Compro del caffé, una miscela che arriva da Nairobi.

Fabrizio vive qui da anni, ha la pelle del colore della terra del Kenya, la testa di un elefante in osso, finemente lavorata, sulla cintura dei pantaloni kaki, e una sahariana aperta sul petto.

Ripartiamo senza dire tante parole, uno sguardo alle guglie della Holy Gost Cathedral,

poi l’ombra assente della foresta di baobab spogli in questa stagione.

Arriviamo all’imbarco per il ferry-boat che ci traghetterà sulla strada per Ukunda e poi Diani.

Una lunga fila di uomini e donne carichi all’inverosimile attende, con il loro carico di disperata povertà.

Ambulanti vendono schede telefoniche Kencell e copie di Taifa Leo, tenendo gli scellini arrotolati nelle mani.

Paghiamo il passaggio e saliamo sul ferry.

Fa caldo, dal finestrino entra l’alito umido di mezzogiorno, socchiudo gli occhi e li riapro, un ragazzo con la T-shit dei Metallica, biciclette appoggiate al parapetto, mentre il ferry attraversa lentamente il braccio salmastro di mare.

Malaika, questa malinconia che si diffonde con le note della radio.

Mangrovie, dalle lunghe radici e foglie impolverate di sale.

Come formiche scendono dalla parte opposta e ripartono, verso orizzonti lontani.

Sfilano donne avvolte nei chador, aroma di hennè sulle mani.

Poi la strada scorre via veloce, tra palme e baobab.

Un posto di blocco con rudimentali strisce di ferro con i chiodi, Fabrizio rallenta,

i poliziotti lo salutano,

la strada riprende.

Makuti i tetti degli alberghi, delle case e Diani si stende in spiagge bianchissime, dove già sento il ruggito dell’oceano

sulla barriera corallina.

Passiamo davanti al Blu Marlin fishing club, ma questa è un’altra storia.

Stanotte, cercherò il disegno di quattro stelle, la Croce del Sud



Cris 22.12.2003

lunedì 14 maggio 2007

Africa



Ricordo albe

come di perle rosa,

di aria frizzante accarezzarmi la pelle.

Ricordo di albe illuminate

dai fuochi da campo

e lontano sull’orizzonte

allontanarsi il mantello della notte,

e schiarirsi il cielo

fino a spegnere le stelle,

ad una, ad una.

Ricordo di albe africane,

di babbuini sulle acacie,

di orme fresche sulle piste.

Ricordo di albe

Sulla sagoma inconfondibile

del Kilimangiaro: il tetto d’Africa