mercoledì 15 ottobre 2008

TERZO GIORNO, SCIROCCO



L’orlo dei pantaloni bianchi pescava nella risacca e il vento faceva aderire il tessuto alle gambe.
Signorina Cotò sfilava nella spuma increspata sullo sfondo del cielo limpido e vuoto di nuvole.
Avanzo d’autunno, parlandoti, con te così avaro di parole a volte. Un acrostico rimasto impigliato tra ossi di seppia e vuote conchiglie.
Chissà una rosa da conservare, ma già scuoti il capo.
Dividiamo una pagina di Miller, mi pare, mentre le foglie delle viti si fanno dorate, scampolo di una stagione che avanza e ci avvolge, come la fodera di una giacca parigina.
Signorina Cotò sfidava le onde e la notte incrociava i contrabbandieri di sigarette venuti dall’Albania.
Le palme scarmigliate annunciavano il vento di caduta: terzo giorno scirocco, da annotare sul calendario dietro alla porta, tra le stampe di Pino Pascali.
Mescolavo sabbia alle tue caute parole, così da trattenerle per conservarle nei gusci di lumaca, ad attendere la pioggia, per far germogliare la mia rabbia e il tuo perdono. Ancora.
Poi sfiniti restavamo fermi sulla veranda di fronte all’oceano, i miei piedi che ancora calpestavano sentieri d’Africa.
Voglia di fragola, una macchia sulla pelle, da seguirne i contorni e immaginare una farfalla.
Vola.
Guardavamo le vele sfidare lo scirocco, l’American’s Cup, come la Parigi-Dakar.Bevendo il caffé nelle tazze di Gerusalemme. Comprate al mercatino di Portobello, la domenica mattina.
Tiravano in secca una barca, a fine stagione, Signorina Cotò, c’era scritto sullo scafo.

sabato 4 ottobre 2008

Strada Santa Teresa delle donne




Il molo srotolava il suo nastro di cemento come un’appendice di terra putrida verso il mare, che respirava l’odore delle casse del pesce appoggiate alle barche.
Le reti riposavano al sole le fatiche dei pescatori.
Anche Vito era un pescatore, portava una fasciatura sul braccio sinistro. Un incidente con qualche attrezzo, ma lui preferiva raccontare di un grosso pesce che lo aveva aggredito mentre cercava di levare l’ancora vicino a una secca. Una buona storia, credibile dopo qualche bicchiere di rum, da Fra Diauue quando fuori il cielo si faceva di piombo e le case allungavano le ombre sul borgo antico.
Il gatto sonnacchioso stava seduto impettito sulla porta dell’osteria. Davanti a lui due tazze, una per il cibo e una per l’acqua.
La nonna di Nico scendeva lungo il vicolo tenendo stretto lo scialle sulle spalle e un segno di croce in tasca, davanti a Santa Teresa delle donne.
Strano posto, arroccato al di qua del mare, come un’isola, per scambiarsi le sorti di una città, una torta da dividersi tra famiglie e onore. E storie sussurrate sui portoni delle case a un cenno di intesa.
Non si scrivono i cognomi dove le parole scivolano come acqua di mare. Lasciando solo colature di sale sui vetri.
Quelle stesse vie, fatte di panni stesi tra i vicoli, come bandiere, si riflettevano negli occhiali da sole del ragazzo che camminava di fretta. Le stesse lenti che poche ore prima, al di là dell’oceano specchiavano i grattacieli della metropoli che amava.
Sulle labbra l’ombra delle onde e la sua oasi di sole, tutta italiana.
Un colpo esplose nell’aria, alzò lo sguardo seguendo lo sbattere d’ali dei colombi impauriti. Come applausi a teatro alla fine del primo atto. Si dorme bene allo spettacolo di mezzanotte con il biglietto ridotto.
Qualcuno aveva sparato. Spiavano le imposte socchiuse, trattenendo il respiro, tacevano gli usci sbarrati.
Arrivò la polizia, annunciata dal suono lamentoso delle sirene. Ma ormai era già tutto concluso e gli elefanti sulla basilica guardavano giù dalla muraglia, verso il mare.
E a lei sul polso il segno del tempo e del suo passare, chiuso nel gioco geometrico delle lancette dell’orologio. A barattare un attimo con l’eterno. Perché Parigi stava nella fodera del cappotto, come la carta avanzata di un cioccolatino, nelle tasche.