domenica 27 marzo 2011

New York è una finestra senza tende

New York è una finestra senza tende, di Paolo Cognetti Editori Laterza

“Roosevelt Island l’isola che tra di noi chiamavamo l’isolaccia: e lì, ogni sera, fumavo l’ultima sigaretta davanti a uno spettacolo messo in scena soltanto per me, la vita quotidiana dentro i dodici piani di finestre illuminate del palazzo di fronte”

La prima volta che ho sentito la voce di Paolo Cognetti era una sera d’inverno e Radio3 Fahrenheit trasmetteva l’intervista all’autore sul suo ultimo libro: New York è una finestra senza tende, ricordo che pioveva e guardando fuori dal finestrino dell’auto vedevo specchiarsi in mare le luci tremolanti dei palazzi.

Mi ha incuriosita questa visione di New York, senza segreti, spogliata e trasparente dove la vita passa attraverso le finestre dei palazzi ed è come vedere un maxi schermo dove per cambiare canale non serve il telecomando ma basta spostare lo sguardo, viene messa in scena la vita, lì davanti solo per chi è spettatore.

Leggendo il libro avvertivo l’affetto e la familiarità con cui l’autore parlava della città, come uno che ritorna.

E mi ritrovo con un bicchiere di cartone pieno di caffè, quelli che compri da Starbucks.

Ma in fondo New York fa sempre questo effetto, come di un posto che sai di aver già visto, un déjà vu, o forse perché è stata per anni lo sfondo di film, di fumetti che ci hanno accompagnato nel tempo a renderla così familiare.

Mi ha colpito il primo fotogramma, quell’intreccio di immagini e associazioni di pensieri che fanno la tua prima istantanea di un luogo.

Io di New York sono affezionata a un ricordo, che non è il mio primo ricordo di quella città, ma l’immagine che mi ha raccontato un amico, che non me ne vorrà se la descrivo: una busta di plastica con la scritta I Love NY che sventola da un ramo di un albero, vista dalla finestra di una casetta nel Queens, e lo skyline di New York sullo sfondo.

Paolo racconta delle scale antincendio dei palazzi e le cisterne dell’acqua sui tetti, come il suo primo mattone, che a fine libro diventano cisterne arrugginite e sulle scale antincendio l’autore beve la città, nella sua tazza di caffè, come Hemingway racconta di Gotham come un buon posto per scrivere.

Gotham raccontato come nelle parole di Sulla Strada: “Io gli correvo dietro come ho fatto tutta la vita con la gente che mi interessa, perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi”

Gotham e le sue storie commoventi, come quella del pennacchio dell’Empire che sarebbe dovuto servire per far attraccare i dirigibili.

Avrebbe attirato più fulmini che dirigibili e oggi è la mano che cerca di afferrare sogni in cielo.

Perché questa città che ci racconta Paolo è l’emblema del sogno, questa città con le finestre a ghigliottina, granito e acciaio e fili come ragnatele a raccontare il ponte di Brooklyn.

Central Park come la racconta Salinger, quando si ghiaccia il laghetto, viene spontaneo domandarsi dove vanno le anatre, qualcuno le porta via, forse semplicemente volano via e basta.

Paolo fa parlare di New York dagli autori che ha amato e le loro voci si rincorrono regalando istantanee che a volte non ci sono più.

Perché New York è anche questo: un luogo dove le cose iniziano e finiscono a velocità impressionante.

Whitman, Ginsberg, Melville, Miller, Salinger, Moody, solo per citarne alcuni, raccontano un pezzetto di questa città e si fanno coperta patchwork di pensieri da tenere sulle spalle, da solo, la notte di capodanno a Time Square quando piovono le note di Imagine di John Lennon, perché in fondo Paolo ce lo spiega bene, a New York non sei mai da solo.

La città che ci racconta lontano da quella Manhattan che siamo abituati a conoscere e che personalmente amo, come pattinare a Bryant Park o fermarmi affascinata a Grand Central.

L’autore sceglie di raccontarci l’altra metà del cielo, perché come dice lui quando attraversi il Ponte è come cambiare casa o quartiere.

E cammino con le mani in tasca tra le pagine verso il molo, dove con lo sguardo si abbraccia la baia, il ponte di Verrazzano e come dice Paolo, è l’unico posto della terraferma dove guardare in faccia la statua della Libertà.

Questa città che ha fatto da sfondo ai fumetti della Marvel, che sembra le quinte di uno spettacolo, con i grattacieli così belli da sembrare irreali e quel vuoto che tutti cogliamo come una grande ferita, là dove si alzano le torri gemelle, quel giorno che la loro caduta ha rappresentato la fine dei sogni. Perché anche i sogni finiscono.

Ed è bellissima l’immagine in metropolitana della ragazza che legge un libro, guarda in basso a destra e sorride: in basso a destra per ricordare, in alto a sinistra per immaginare.

Una città che è una finestra senza tende.

E il caffè di Starbucks, freddo, nel mio bicchiere di cartone.

Da leggere.

lunedì 21 marzo 2011

Nakupenda wewe


Ai giorni nei grandi parchi

“Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova distesa sul suo dorso;

degli aratri nei campi e delle facce sudate delle raccoglitrici di caffè.

Ma l’Africa conosce il mio canto?

L’aria sulla pianura fremerà un colore che io ho avuto su di me?

E i bambini inventeranno un gioco dove ci sia il mio nome?

O la luna piena farà un’ombra sulla ghiaia del viale che mi assomigli?

E le aquile, sulle colline Ngong, guarderanno se ci sono?” da: Out of Africa

La pioggia era caduta incessante dalla notte prima, allagando le strade e i giardini.

I fiori di ibisco alzavano i loro calici per un ultimo brindisi, prima che le corolle rovinassero a terra.

Il grande baobab se ne stava là, gigante buono del mio giardino, con la sua corteccia ruvida e i tagli nel tronco, le tane degli animali, degli uccelli, e nella cultura animista africana sono tasche di un dio dove rigenerarsi.

E quando i giorni pesavano come nuvole gravide di pioggia nel cielo di Mombasa anche io appoggiavo le mie mani in quelle “tasche” del mio albero in giardino. Indovinando la risposta quando il vento che fremeva da nord mi invitava al silenzio, parlava d’amore se spirava da sud. Era foriero di notizie da est e da ovest mi invitava ad ascoltare la voce dei morti. Il nostro vicino passare.

Le previsioni meteo non erano buone, erano iniziate le grandi piogge, quelle per cui l’Africa si trasforma e lo stesso paesaggio si fa mutevole e ti prende quel sottile dolore alla bocca dello stomaco quando sei lontano: il mal d’Africa.

I bambini disegnano sul grande tavolo e il loro parlare tiene compagnia ai miei pensieri.

“Hai la pioggia negli occhi”, dice uno di loro.

Mi viene incontro un ricordo, bagnato di pioggia, nel Masai Mara. Il viso rigato di lacrime d’Africa, procediamo a piedi, in una fila ordinata, l’askari davanti tiene sollevato un fucile.

L’erba alta un metro mi avvolge le gambe con una ruvida carezza, si scivola, si sale a fatica lungo il pendio, a pochi metri da noi placidi rinoceronti bianchi brucano.

Piove, il tergicristalli della jeep ipnotizzava gli occhi scorrendo ritmico sul parabrezza.

Respiro il profumo della terra bagnata, della salvia e della menta selvatica, respiro l’Africa e in ogni cespuglio c’è un palpito di vita: il frinire monotono delle cicale, il laborioso volteggiare delle api, instancabili tra i fiori.

Dopo la pioggia sbocciano grappoli di fiori sconosciuti, grandi con petali viola, simili ad ali di farfalle o piccoli miracoli rosa, gialli, arancioni, nell’erba verde.

Mi riscuoto dai pensieri e guardo il mio giardino dalla veranda di questa casa, ascolto, l’Africa mi parla, mi tende i rami spinosi delle acacie, mi afferra e non mi lascia andare.

“Quando la pioggia finisce, possiamo dormire in tenda in giardino? Come facciamo a Tsavo?”

Guardo i bambini e sorrido.

“Vedremo” rispondo.

“E dai devi prometterlo” insistono.

I giorni di Tsavo. Li ricordi i giorni di Tsavo? Le promesse non mantenute. Scappare da se stessi, perché mantenerle sarebbe stato soffrire. Pensavo. Così credevo. Poi tu conoscevi le piste, sapevi le vie percorse, al tramonto mi hai insegnato la via per tornare al campo.

Una civetta appollaiata tra i rami di un’acacia ci osserva sospettosa e lancia il suo canto nella penombra, annuncia che la notte è vicina, si desteranno i grandi predatori, felini silenziosi, creature nate per la caccia e domani un’impala o una zebra non vedranno il sorgere del sole.

È la legge della natura per non morire di fame.

Quando un vecchio leone soccomberà e i suoi resti si mescoleranno alla terra, germoglierà erba verde per zebre e impala: è il grande gioco della vita, nessuna regola, se non sopravvivere.

Chiudevamo la cerniera della tenda. Nella credenza swahili la cerniera chiude idealmente la mente all’interno del cuore.

I bambini vogliono vedere le grandi lumache che escono dopo la pioggia.

Sta imbrunendo. Alzo lo sguardo e vedo le luci di segnalazione di un aereo, probabilmente diretto in Europa. Quante volte mi soffermo a pensare a quanti vengono in questa terra e sono suoi figli, per un po’, poi se ne tornano. Con grandi storie da raccontare. E quel cielo così curvo all’equatore che pare di sfiorare le nuvole con le dita.

“Possiamo portarne una in casa?”

Il mio sguardo severo li zittisce.

“E uff, viviamo in Kenya e non possiamo tenere un babbuino o un leopardo”

“Certo, e un elefante no?” domando.

Si sta alzando il vento. Soffia da est. Porta notizie.

Sarà che nella lettera mio fratello mi informava che a fine settimana tornate.

Avrò tante cose da raccontarti.

E spero non ci sia una grossa lumaca nella nostra cucina.

lunedì 14 marzo 2011

La vita facile


Prodotto da Domenico Procacci per la Fandango, La vita facile alza uno sguardo su uno degli stati dagli aspetti più contrastanti dell’Africa: il Kenya. Terra di colonia, e di colonizzatori come Lord Delamere, tempi dei grandi safari, quelli della caccia grossa ai big five e negli anni convertita alla semplice caccia di foto e documentari in 8 millimetri.

Ha conosciuto ed è stato attraversato da grandi ricchezze, come diceva Padre Angelo nella missione di Ukunda, ma il Kenya è rimasto una fetta di terzo mondo e povertà; la ricchezza accumulata nelle mani di pochi e i poveri sempre più poveri. Qui si muore per un’infezione, senza scomodare lo spettro di Ebola o della malaria.

Lucio Pellegrini, il regista, sceglie di ambientare questo film nel nord del Kenya, Archer’s Post, su vicino alla Somalia, terra dei Samburo, attraversata dal fiume Ewaso Ngiri. Scorci straordinari che solo questi luoghi sanno regalare, un piccolo aereo che plana sulla pianura africana, dove non c’è acqua corrente o energia elettrica.

Il regista racconta la storia di un medico, Stefano Accorsi, che da anni vive e lavora in un piccolo ospedale da campo, in Kenya, dove manca tutto, ma non la passione e l’amore che lui mette nel suo lavoro.

Fuggito da se stesso, dall’amore e da suo padre.

Ma non ci si può nascondere per sempre.

Lo raggiunge l’amico Pierfrancesco Favino, anche lui medico affermato, che aveva tutto, o almeno così credeva, perché l’Africa gli apre gli occhi e l’anima.

Tra i due uomini, una donna, equazione perfetta, luogo comune o scelta studiata?

Sì perché tutto si può dire ma non certo che il personaggio di Vittoria Puccini sia banale.

Certo sopra le righe, alla ricerca di stessa, del futuro. Dell’amore?

Camilla Filippi, seconda donna nella pellicola, è un’altra scelta d’amore per l’Africa.

Ecco non è cosa li ha portati in Kenya, ma il fatto che si siano arrivati.

E dove tutto è polvere che macchia i vestiti, dove echeggiano richiami swahili, poco ha valore il conto in banca.

Anche se non mancano i colpi di scena, fino all’ultimo fotogramma, nulla è come sembra.

La vita facile sembrerebbe quella della Roma bene, tra calici di vino, tangenti, belle case, ma forse la vita facile è quella che ti dona l’Africa se la sai apprezzare.

Se togli l’orologio quando arrivi e ti dimentichi del tempo.

E l’Africa dà sempre le sue risposte, basta saperle leggere.

Qua e là il richiamo a vecchie ed evocative canzoni, come Ti sento dei Matia Bazar e La stagione dell’amore di Battiato.

Straordinaria la colonna sonora di Gabriele Roberto.

Girato tra Kenya e Salento, atmosfere esotiche e assolate che richiamano al film di Ettore Scola Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa?

La vita facile, bel film e straordinarie riprese. Da vedere.

sabato 12 marzo 2011

Karibu, Kwaheri



“In un salotto una vecchia signora parlava della sua vita. Era disposta a viverla tutta di nuovo per dimostrare che aveva vissuto saggiamente. Sì, pensavo io, la sua vita è di quelle che bisogna vivere due volte prima di poter dire che è stata veramente vissuta” Karen Blixen

Lo sguardo si fermò sulle collane vicino alla foto nella cornice d’argento: volti amici mascherati sullo sfondo di Venezia, una fetta di campanile.

Quanto tempo era passato e quanto era lontana l’Italia in quel momento.

Iris stava seduta sul bordo del letto le arrivò ovattata la voce dell’amica:

“Ma come? Non sei ancora pronta”

E così dicendo afferrò la gruccia con il vestito, facendo ruotare in giro di valzer le rose sulla stoffa.

I pensieri andarono a un altro ricordo.

Era l’ultima notte dell’anno.

Come era curioso, era Dicembre ed era il tempo giusto.

Ma durante l’anno quante occasioni si presentavano per rifesteggiare quella notte. Ogni volta che qualcuno tornava, ogni volta che si aveva voglia di incontrarsi.

E capitava così che si festeggiasse capodanno in primavera, o in qualche calda notte d’estate, questo dava loro l’illusione di aver imbrogliato il tempo, solo lo specchio si faceva impietoso sulle rughe e gli anni che passavano.

Avevano scelto l’Africa, qualcuno già si conosceva dall’Italia, altri amici si erano aggiunti, lasciati, ritrovati sul cammino e le loro case sulla costa con le lanterne cinesi accese la sera erano il rassicurante “Benvenuto”, Karibu, in Swahili.

Iris si vestì e attraversò l’ampia cucina, era curioso come le persone che c’erano state, avevano ancora un loro posto nel suo campo visivo, come calchi di gesso a Pompei.

L’aura che ognuno di noi lascia, un cuscino sgualcito, una gardenia sulla porta, il movimento degli scacchi, una mano che afferra un libro tra cento altri. Gli abbracci.

Passavano tutti di là, questo era curioso e sedevano al grande tavolo di noce che si era portata dall’Italia, venivano per una cena, per un consiglio, per ridere o per piangere e la casa li accompagnava con la sua benedizione.

Iris fece scorrere la mano sulle venature del legno, come vene sulla pelle.

Candele e giochi di luce, il profumo delle jacaranda e dei frangipane e quella tovaglia con le stelle di Natale che stonava in piena estate ma era il loro modo di augurasi “Buon anno”, perché prima non era stato possibile.

Ma quella notte era davvero il 31 Dicembre e chi era lì sarebbe andato al Mnarani Club.

C’erano molte persone e l’aria calda della sera africana avvolgeva con la dolcezza struggente di un kanga.

Le persone andavano e venivano, liquide nel suo bicchiere di vino e bollicine.

Anche i gesti delle persone o le loro manie o i loro difetti, fanno parlare di loro prima ancora di vederli.

Così faceva quella giacca fuori posto sul bracciolo di un divano.

Ne accarezzò il taglio con lo sguardo e sollevò gli occhi tra la gente fino indovinarne il profilo, di spalle, e sentirne la risata, come pioggia d’estate crepitante sulla terra arsa.

Iris appoggiò il bicchiere vuoto su un vassoio.

Si voltò e uscì.

Le voci della festa le arrivavano ritmate dal fragore dei fuochi d’artificio.

Mezzanotte che passa un anno e se ne va.

L’oceano ruggiva, giù sulla barriera corallina e la luna nuova africana dondolava tra le palme.

Kwaheri recitava l’insegna, Arrivederci.

Camminò sino alla sua casa.

Lentamente. La distrasse un bussare lieve.

Mentre guardava le rose sul vestito, pensò a giorni andati, ad altri fiori, per giorni tristi, per giorni dove Kwaheri faceva un po’ meno male di addio. A giorni di morte, che l’Africa a tutti quanti aveva chiesto il suo prezzo. Mesta la questua che tutti avevano pagato, l’assenza era il velo che scendeva come ad Amboseli, la nebbia, celando il Kilimangiaro.

Si affacciò alla finestra entrò il sole e il profumo di frangipane, come quella volta, Iris pensò, come ogni volta c’erano tutti, giù nel suo prato, nella sua casa che riecheggiava delle voci amiche.

C’erano in giorni di festa e muti in giorni di dolore.

Tornavano, a ondate e sedevano al suo vecchio tavolo di noce, dove sedeva anche lei, anche sola certe sere con un kanga sulle spalle, i cani con il muso appiattito sul pavimento drizzavano le orecchie quando avvertivano il rumore del vento fuori sulla pianura.

Il tè nella credenza e storie da raccontare, quando si tornava da Tsavo.

O dal lago Baringo, anche nei suoi ricordi restavano quei fenicotteri rosa in equilibrio perfetto, perfetto come bambole di zucchero su una torta di compleanno.

L’amica si affacciò alla porta, Iris fece scivolare la mano sul vestito.

“Andiamo? Non credo ti aspetteranno ancora a lungo”

Sul comò restava la foto del carnevale a Venezia, ma sembrava un’altra vita, le travi del tetto makuti avevano ancora l’impronta di chi le aveva tirate su, ad arte, come fosse una cattedrale, quella casa in Kenya.

E la casa conservava l’aura di chi l’aveva attraversata, per un caffè, per un consiglio, per stare a lungo o per brevi attimi.

Iris sentiva riecheggiare i suoi tacchi mentre attraversava la cucina e quando uscì sul prato vide le sagome delle acacie, le palme, gli alberi di casuarina, e i volti di chi aveva amato, che erano lì, come per un capodanno fuori data.

Lentamente si incamminò. La distrasse una mano che porgeva una gardenia.

E ancora l’ombra di un dèjà-vu, la distrasse un’assenza. Ma sarebbe stato molto tempo dopo.

Quello era il tempo dei frangipane.

Hic sunt leones












"Si era portato anche il grammofono nel safari. Tre carabine, provviste per un mese e Mozart.

Iniziò la nostra amicizia con un dono e in seguito, non molto prima di Tsavo, me ne diede un altro. Un dono incredibile, uno sguardo sul mondo con gli occhi di Dio e pensai: sì, vedo. Con questa intenzione mi era stato dato. Lui mi aspettava là, ma sto anticipando troppo la mia storia, questo a Denys avrebbe dato molto fastidio, gli piaceva una storia raccontata bene.

Avevo una fattoria, in Africa ai piedi delle colline Ngong”

Da: La mia Africa

sabato 5 marzo 2011

La Croce del Sud, da Lamu a Diani sono passati vent’anni


-“Nell’uovo c’è un messaggio per te” mi disse “ma se vuoi leggerlo devi rompere l’uovo”

Sembrava che volesse mettermi alla prova. Non aprii l’uovo. Rimase là per anni e anni finchè una mattina, dopo la notte più lunga della mia vita, ne compresi all’improvviso il significato. E allora non fu più necessario aprirlo.- Kuki Gallmann

Il Palazzo dei Dottula era attraversato dalla luce abbagliante del mezzogiorno e l’eco delle campane pioveva sulle case, per le vie strette, annunciando l’ora del mezzodì.

Margherita si tolse gli occhiali da sole, salì la scalinata centrale, non ebbe nemmeno il tempo di alzare la mano per bussare che la porta si aprì.

“Oh, bene, eccola finalmente” il funzionario la fece accomodare.

Appoggiò una busta sulla scrivania, tossicchiando imbarazzato.

C’era disegnata una margherita.

La ragazza allungò la mano, prese la busta.

“Se non c’è altro avvocato…” iniziò.

“No, solo questo” e la accompagnò alla porta.

Scese le scale, infilò gli occhiali da sole, osservò il fiore disegnato sulla busta scuotendo il capo, poi la ripose nella borsa.

Il traffico dell’ora di punta la inghiottì.

La decisone di partire forse nasceva tanto tempo prima, a questo pensava mentre attraversava la sala dell’aeroporto.

Era arrivato un messaggio. Controllò il cellulare. Lesse. Non rispose.

Seduta di fianco al finestrino guardò la busta, ma decise di non aprirla.

Il telefonino iniziò a squillare. Osservò il nome sul desplay.

Una hostess la avvisò: “Bisognerebbe spegnere i telefoni, stiamo facendo carburante e tra poco chiuderemo i portelloni, sa le disposizioni dell’aeronautica”

“Si, mi scusi” non rispose e spense.

Il volo nella notte fu come attraversare foreste di fantasmi del passato, da Lamu a Diani erano trascorsi vent’anni.

Stropicciata, nell’alba africana, Margherita fu avvolta dal clima umido di Mombasa, giravano lente le pale del soffitto nella sala degli arrivi e lente erano le pratiche dell’ufficio immigrazioni.

Accese il telefono e chiamò suo fratello.

“Sono a Mombasa”

“Bene, buone vacanze”

Il viaggio fino a casa fu l’alternarsi dei ricordi e l’abbraccio dei luoghi conosciuti che le venivano incontro dal finestrino.

Lasciò la borsa in casa. Appoggiò la busta con la margherita vicino alla statua masai sulla mensola e uscì.

Faceva caldo anche se il cielo era coperto.

Arrivò al Mnarani Club di Kilifi, entrò nella grande sala, vide in angolo il vecchio William seduto davanti alla scacchiera.

Si fermò a salutarlo.

Era curioso come in quell’angolo di mondo alcune cose invecchiavano ma erano sempre parte dell’immaginario comune. William era uno di questi, viveva in Kenya da vent’anni.

“Gioca da solo?”

“No, contro me stesso” gli occhi piccoli e chiari brillavano e sollevavano una ragnatela di rughe. “Prego, muova, le concedo una mossa” disse.

Margherita, si sedette, osservò la scacchiera e sollevò lo sguardo: “Comunque muova sarà scacco al re” protestò.

William osservò a sua volta a lungo la scacchiera, da giocatore professionista e parlò con la voce che l’esperienza insegna: “Vede signorina Margherita, è vero comunque muova io farò scacco al re, ma lei preferisce stare chiusa nella torre e non rischiare? Guardi la scacchiera e gli scacchi come rimarranno dopo il mio scacco” e così facendo mosse le figure come al ballo di corte, la notte del Gattopardo.

“La scacchiera è bianca e nera, ma nella vita tra il bianco e il nero passano un’infinità di sfumature di grigi” concluse.

Un cameriere aveva appoggiato due bicchieri di succo tropicale, il profumo quasi stordiva.

Fuori i frangipane si dondolavano nel vento e le mangrovie affondavano le loro radici a bere acqua di mare per lasciare sale sulle foglie.

“Fabrizio è uscito con la barca” concluse William.

Margherita si alzò, scese le scalette sul molo, appoggiò una mano a schermarsi dal sole, riconobbe una vela conosciuta.

La maglietta sbiadita del Marlyn Fishing Club di Diani.

Da Lamu a Diani erano passati vent’anni.

Alzò la mano in segno di saluto.

L’uomo si affacciò a buttare gli ormeggi.

“Non credo che tu sia qui in vacanza, non è il periodo migliore” disse lui.

“No, infatti”

“Era meglio se non venivi” disse scendendo dalla barca scansandola.

Lei lo seguì.

“Hai letto la lettera?” lui.

“No” lei.

Ora poteva muovere lo scacco al re.

La mattina dopo il sole filtrava tra le palme disegnando ombre in movimento sulla parete opposta.

“E’ meglio che torni in Italia Margherita”

“E tu che devi fare? Sono vent’anni che stai qui, pensi che a furia di pescare pescecani Eryn tornerà?”

“Io qui ci lavoro e ti prego risparmiami le tue considerazioni”

La lettera rimase a ingiallire come certi fiori chiusi in un libro a ricordare un attimo.

Le parole sarebbero invecchiate e solo allora avrebbero avuto il giusto tono come campane a mezzogiorno.

La notte era illuminata dalla Croce del Sud, in quel quarto di luna nascente.

Luna di Marzo.