Cristina:
Quando nasce in te l’idea di fare la Dakar? So che quest’anno farai la Classic, novità introdotta e raccontata
da Castera nella conferenza di primavera. Che cosa scatta perché si va, o
perché sei andato? Che cosa cerchi, che cosa ti aspetti, cosa pensi di portare
a casa?
Roberto: La mia
passione per la Dakar è nata quando ancora a 16 anni andavo in moto e guardavo
la corsa in televisione e sbavavo davanti allo schermo chiaramente, tutte le
sere che si vedevano i servizi su Italia 1. Poi nel 92 ho avuto modo di fare
assistenza al Rally di Tunisia, che era già rally di coppa del Mondo, io ero giù a fare assistenza a privati che correvano
e sono entrato in questo mondo. Ho conosciuto piloti e giornalisti che mi hanno
dato spazio sulle loro riviste e ho cominciato a organizzare viaggi nel deserto,
per gente in moto che amava il deserto come me. Ho comprato un camion e ho
fatto assistenza anche ad altre gare. Questa cosa qui di portare gente nel
deserto ha fatto sì che per me la Dakar diventasse un problema dal punto di
vista lavorativo, perché io lavoravo principalmente a Capodanno, quando la
Dakar partiva e per me sarebbe significato, oltre all’esborso economico
notevole che è la Dakar, anche un mancato introito. Quindi ha fatto sì che per
me fosse quasi impossibile avvicinarmi alla Dakar come concorrente. A parte la
partecipazione alla Dakar ci sono anche mie partecipazioni a rally minori,
anche se di Campionato del mondo, come il Marocco, la Tunisia, il Turkmenistan,
il Rally dei Faraoni come pilota del camion scopa. Con la Dakar ho avuto un
brutto rapporto, nel senso che nel 2008 dovevo correre come pilota su un camion
e il 2008 è stato l’anno che la Dakar è stata cancellata, in maniera, a mio
avviso, disonesta. A noi dissero che veniva cancellata per un discorso di
sicurezza. Ma la Dakar è stata corsa in anni ben più caldi del 2008, e qualche
mese prima avevo saputo, da una giornalista, che sarebbe stata l’ultima Dakar
in Africa, perché c’era già la certezza
che sarebbe andata in Sud America. La mia impressione è che i 4 morti
nel deserto della Mauritania, 14 giorni prima della cancellazione della Dakar,
siano stati il casus belli perfetto per
cancellare la corsa e giustificarsi verso i concorrenti, la stampa, lasciare
l’Africa e andare in Sud America e ora in Arabia. Per mero discorso economico.
Io avrei dovuto partire con un camion, a gara cancellata ho pensato che quello
che era stato il mio sogno per 30 anni non lo era più. Nel 2015 sono andato in
Sud America per un team lituano per i quali guidavo un camion dell’assistenza e
ora sono qui con Luciano Carcheri per fare la Classic.
La classic è una
sorella minore rispetto alla gara normale. Qui vince quello che riesce a
percorrere un certo percorso a una velocità media prestabilita, in questo modo
possono tenere una velocità media più bassa, abbassando i rischi, per far
correre chi aveva auto, con un livello di preparazione come sicurezza, a norma
negli anni 80 ma non per gli standard di oggi.
La Dakar è
quella che mi ha avvicinato all’Africa, infatti ho fatto tanta, tantissima
Africa al posto di fare la Dakar.
C.:
Hai detto che hai guidato il camion scopa, quindi mi immagino quando andavi a
raccogliere i concorrenti, la loro delusione?
R.: Del camion
scopa ricordo un aneddoto, ci fu un equipaggio, non ricordo di che nazionalità,
li raccattammo nel deserto con la macchina rotta, e li mettemmo al traino, però
questi qua veramente non erano capaci di guidare e allora quando facevamo le
dune loro invece di tenere la cinghia in tiro nelle discese si avvicinavano al
camion, quando poi arrivavano a una salita prendevano un “tirone” da staccargli
il collo.
C.:
Il deserto, i chilometri, la fatica. Che cos’è la paura?
R.: Bella
domanda, bella domanda. Allora la paura può venire da due cose: o stai facendo
qualcosa di sbagliato e allora pensi “m…da,
m…da, m…da” e aspetti che tutto finisca e speri che finisca nel modo
migliore. Invece un’altra paura può derivare da quando non sei sicuro di essere
sul percorso giusto, non sai se stai facendo la cosa giusta, per esempio io
tanti anni fa, mi son trovato in un viaggio in Africa, abbiamo voluto
improvvisare un po’ troppo, abbiamo perso la pista e l’abbiamo ritrovata dopo
un po’ di tempo con un po’ di fortuna. E, parlando con amici, che si sono
trovati alla Dakar negli anni ruggenti, mi hanno detto che viaggiavi senza
strumentazione, se sbagliavi percorso poteva finire male, rimanere a piedi e
nessuno ti avrebbe trovato. Cosa che oggi è un’eventualità impossibile. Ci è
vietato lasciare il percorso e in tempo reale l’organizzazione ci trova. È
impossibile essere abbandonato nel deserto perché sanno dove sei. Poi è chiaro
che l’errore e la sfortuna che ci possono mettere lo zampino. Per quel che mi
ricordo l’ultima persona morta Dakar perché perso fu un motociclista, in Sud
America, sparito i primi giorni e trovato solo alla fine. Ma in quel caso
qualcosa non aveva funzionato nel sistema di sicurezza di ricerca.
La paura
consapevole è quella che ti salva la vita, però se deve essere troppa tanto
vale che stai a casa, se devi vivere con l’ansia non venire a fare queste cose.
Poi come c’è scritto dentro tutti i circuiti anglosassoni: Motosport is dangerous. Andando forte puoi farti male, fa parte del
gioco.