mercoledì 31 agosto 2011

Villa Vallestì

Benedetta Cibrario

Villa Vallestì

“Ha srotolato tutto il Golfo di Napoli per farne un tappeto di gala”

Fuori dal tempo. O almeno di un tempo andato.

Camminare tra le pagine di questo raccontare è come muoversi in silenzio tra le mura di Villa Vallestì, che contiene in potenza il decadimento di una nobiltà perduta ed effimera, che ricorda che le cose restano e sopravvivono alle persone, come statue in giardino ricoperte d’edera, frammenti di affreschi ammuffiti, servizi di porcella sbeccati e dispari.

Un lento narrare come un frutto che marcisce. In senso buono. Il passare inesorabile sulle cose.

“Le mura mezze pericolanti di quella villa in cui vedevano cose diverse ma che sapeva difenderli dalle interferenze esterne e dalle reciproche frustrazioni, come una culla, o magari, semplicemente, una prigione.”

Una scrittura piacevole. Come la lettura.

L’amore quando c’era

Chiara Gamberale

L’amore quando c’era

“Perché l’amore, Fumi, sarà senz’altro meglio quando c’è.

Ma per persone come noi diventa perfetto solo quando c’era. Picco”

L’amore al tempo degli sms e delle mail, l’incipit un tema assegnato in classe che riflettere anche la professoressa: “Perché la vita ha un senso o perché non ce l’ha, secondo te?”

La domanda mette in moto il circo delle risposte, ed è quasi sempre l’amore a dare un senso o dolore alla vita. L’amore in tutte le sue declinazioni.

E quando non si ha il coraggio di riafferrarlo, l’amore, si entra in un circolo vizioso del non fatto, del rimpianto, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, insomma, l’amore è meglio quando c’era.

Gradevole racconto lungo, vicino al comune sentire.

domenica 28 agosto 2011

Parco della Vittoria


"E, infin dei conti, come dice un saggio persiano, -l'amore è una malattia dalla quale nessuno riesce a liberarsi.- Chi ne è stato colpito, non cerca di ristabilirsi; e chi ne soffre, non desidera essere curato"
P. Coelho






A Lory e Dario, “due strade incontrai nel bosco ed io scelsi quella meno battuta”, perché in fondo siamo tutti amici di Lupo...




Il tramonto aveva colorato di viola le montagne, una striscia rossa accarezzava l’orizzonte e in alto altissimo l’azzurro, una manciata di minuti prima dell’imbrunire, l’attimo più luminoso dopo il tramonto.

Il lago si beveva quello spettacolo capovolto. Capovolto come quelle sfere di vetro con un paesaggio e l’acqua e la neve, retaggio di un souvenir.

Mentre tenevo le braccia conserte, guardavo lontano, cercando una stella, ogni parte del mondo che ho visto aveva le sue stelle e le sue costellazioni, anche il taglio della luna era differente ai tropici rispetto all’equatore.

La croce del sud mi aspettava la sera fuori dalle tende, come gli ascari, come il tossicchiare dei leopardi, come quella manciata di cose familiari che fanno l’affetto.

I francobolli stranieri, i treni, la corsia di sorpasso in autostrada.

La vita srotolata con l’allegria di una tovaglia da pic-nic: un gioco, un rischio.

Ho comprato un albergo al Parco della Vittoria, andando per il Vicolo Corto, senza passare dal Via, pagandolo con i soldi del Monopoli e un intrigo con il destino, Parigi o New York, in base al fuso orario e alle mode.

La paura era l’azzardo, o forse nemmeno, la paura non esiste.

Esiste l’amore stemperato in un caffè, in una cucina lontana mille anni dei miei ricordi bambini. E la Lanterna vegliava un porto e una città addormentata sul porto.

Quel tempo dell’orologio, tre quarti d’eterno e un margherita disegnata sulla maglietta.

Lo strappo delle vele a strapiombo su un mare che non navigammo.

Lo sky-line del mio sguardo è l’orizzonte del mio pensare: agitato e come mari in tempesta solcati da galeoni fantasmi e l’anima distesa per poco, su una spiaggia bianchissima, giusto il tempo i asciugare tormenti e lacrime, che domani è già qui, il senso inverso di chi corre contro fusi orari differenti, così il tempo dura di più e puoi vivere due volte la stessa vita.

E vendere l’albergo di Parco della Vittoria per uno scoglio e due palme nell’oceano di mezzo della mia vita tra le parole e un nuovo romanzo da raccontare.

Ancora non so, se sia troppo presto o troppo tardi


lunedì 15 agosto 2011

Watamu beach, maisha marefu

"Ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto:
ti hanno inventato
il mare eh!"D.Modugno


La sera all’equatore arriva sempre così, improvvisa, senza darti il tempo del tramonto e poi del crepuscolo. Qui è giorno ed è notte 12 ore al giorno, né una di più, né una di meno.

Lo sguardo inciampa su Aldebaran,una stella che portiamo tra libri e ricordi

Sulla terrazza osservo il giardino, gli alberi di casuarina e giù sullo sfondo l’oceano.

Lo sento ruggire contro la barriera corallina, la marea si è alzata. Anche le maree qui si inseguono, ogni sei ore, l’oceano arriva e copre tutto o si ritrae così lontano che non sembra più minaccioso e allora nelle pozze lascia scoperti piccoli cammei: stelle marine, conchiglie, ricci striati.

E i due isolotti che caratterizzano l’orizzonte, come il monte Elicona, hanno un fascino misterioso.

Vedo alcune persone rientrare dalla spiaggia, giù per la strada bianca di polvere.

Elisa mi raggiunge in terrazza.

-Allora domani arriveranno tutti, l’aereo dovrebbe atterrare a Mombasa alle 9-

-Sono già decollati?-

-Stavano imbarcando-

Villa Bahati è il nostro porto. Ci torniamo, a ondate, in tempi diversi, ma ci torniamo, qualcuno forse solo con il pensiero.

Elisa mette un cd, e le note dei violini dell’overtoure della Traviata riempiono l’aria della sera.

Le volpi volanti sono ombre nel buio, furtive che appena sono raccolte dallo sguardo già ne escono.

-Ti ricordi i pipistrelli giù a Wasini?- le chiedo.

-E come no, sembrava un film dell’orrore-

-Esagerata-

-Ma ti ricordi Marco che si rifiutò di entrare nel ristorante e mangiò i suoi crabs sulla spiaggia?- dice.

È curioso come di alcuni di noi resta un’immagine qualcosa che ci lega a un ricordo che evocato ti fa subito ricollegare fatti e persone.

Un aereo solcava il cielo quasi buio. Per un po’ ne seguii la scia. Posta esattamente sotto la luna piena: come il segno di un gesso sulla lavagna.

-Lo sai che la scia degli aerei è fatta di ghiaccio?-

-Ah, no, non ci avevo mai pensato- risponde Elisa.

Curioso. Non pensavo di aver parlato a voce alta.

-E chi te l’ha detto?-

-Un amico, tempo fa. Ogni volta che vedo quelle scie nel cielo mi viene in mente-

Il vento tra le foglie delle palme.

La musica arriva fino a noi è di Violetta quell’addio.

Un po’ come sul monte di Elicona tengo nell’abbraccio il presente come una conchiglia che del mare ne riporta il rumore, ancora e ancora.

-Per il dolce- inizia titubante Elisa -il rum dovrebbero portarlo domani-

-E voglio sperare, come si fa a fare il babà senza rum, poi Gino chi lo sente. Havana Club?-

-Il rum è rum- risponde lei.

-No, il rum è Havana Club- conclude con me.

-Come il basilico deve essere a foglia piccola- mi prende in giro.

Ridiamo.

È il tempo dei frangipane, di un capodanno fuori stagione, che solo noi sappiamo perché.

È notte, qui a Watamu. Una bottiglia di vino del Sud Africa. I calici, le candele, le tovaglie.

Maisha marefu








sabato 13 agosto 2011

Mi Ida


-Non era per niente male, lo sguardo, soprattutto, o piuttosto quel modo tutto suo di guardare- Aleida March

(a proposito del Che)

Mi Ida

che sfiori i miei capelli di alghe,

tra pensieri di sabbia,

verticali vertigini vergini

le isole sull’orizzonte.

Mi Ida

frange di palma le tue ciglia,

a schiudere delle perle gli occhi.

L’isola chiusa tra mare e oceano.

Così dicevi su quell’isola che rinasceva la notte tra le tue parole e i tuoi sogni.

Mi Ida

domenica 7 agosto 2011

Bari. Binario due ovest



“Spero che non ti sfugga che questa città l’hanno resa moribonda per averle distrutto una struttura teatrale che la immetteva in circuiti internazionali, scambi culturali, confronti con altre espressioni artistiche, e speriamo che si sia trattato di un incidente. Ma se poco poco la cosa è dolosa, c’è davvero da preoccuparsi e attrezzarsi seriamente per salvarla, ammesso che si sia ancora in tempo per riuscirci…” F.Pirro
Una falce di luna se ne stava appesa, tra il campanile della cattedrale e il faro.
Il mare era illuminato dalle luci delle lampare e la notte aveva quel respiro caldo, come l’abbraccio di un amico, il posto dove stai che ti si è cucito addosso come un mantello.
La volante si era fermata all’imbocco del mercato del pesce, l’odore di mare, alghe e salsedine entrava prepotente dai finestrini abbassati.
“Sindaco, era meglio se continuavi a fare il tuo vecchio lavoro”
La scritta sul muro era vergata con una bomboletta spray, c’erano ancora le colature, decisamente non un murales e un lavoro fatto di fretta.
La seconda scritta offensiva in pochi giorni.
I due militari scesero dall’auto scuotendo la testa, un bell’impiccio, ora chi lo diceva al sindaco?
-Maresciallo, guardi la vernice è ancora fresca-
L’uomo più anziano annuì, era stata una telefonata anonima a farli arrivare lì, ma di certo da lì a qualche ora pure i giornali avrebbero riportato la notizia.
Ecco, manco a dirlo si avvicinò una Vespa con a bordo due uomini, che accostarono, uno dei due fotografò la scritta, e salutò il maresciallo. Appunto la stampa è sempre la prima o la seconda ad arrivare sui luoghi giusti, che le soffiate arrivassero pure a loro?
-Via, per cortesia- intimò l’uomo agitando una mano.
-Maresciallo, stiamo a fare il nostro lavoro-
-Ecco, appunto, pure noi-
-Pensa a un’intimidazione?-
-Direi un consiglio, un amichevole consiglio- e lo disse con aria sarcastica.
Dalla città arrivavano le note della musica.
-Maresciallo, che ne dice, una ruota di focaccia?- domandò il giovane ufficiale.
-Dai andiamo- disse il maresciallo invitando con una mano i due giornalisti.
I loro passi riecheggiavano nelle vie strette, tra turisti e avventori dei pub.
Il colpo di pistola suonò sinistro, seguito da un secondo.
I due militari corsero avanti, le persone scappavano.
I giornalisti corsero anche loro.
Una motocicletta con un uomo a bordo con un casco integrale passò tra la folla. A tutta velocità.
-Non sparare, non sparare- intimò l’uomo più anziano.
Arrivati sul luogo della sparatoria trovarono la vetrina infranta del panificio, sangue a terra, ma nessuno sembrava ferito.
-Ecco, lo sapevo niente focaccia- disse il giovane militare. Il maresciallo gli lanciò un’occhiata torva.
Si raccolse un capannello di persone. La motocicletta era arrivata improvvisa, l’uomo con casco era sceso tenendo la pistola in mano sparando, era successo tutto all’improvviso. Ma chi avesse colpito e perché non si capiva. Si affacciarono anche alcune signore gridando che non si stava più tranquilli, che nessuno difendeva l’anima vecchia di quella città abbracciata a un santo e a un campanile. Veramente c’erano più santi che chiese in quel quartiere, ma il maresciallo preferì tenere per sé la considerazione.
I giornalisti scattarono qualche foto e salutarono i militari.
Poco dopo si alzò anche un elicottero e la zona fu presidiata.
Ma non si dipanava la matassa su chi avesse colpito chi, dato che pur essendoci sangue a terra, non risultavano feriti. Si trovò un solo proiettile, conficcato nella vetrina.
I colpi esplosi però erano due, li avevano sentiti distintamente.
Quindi, un colpo doveva aver colpito qualcuno.
-O qualcuno si è difeso e ha sparato e il sangue a terra è del motociclista- lo disse a voce alta guardandosi intorno, il maresciallo, ma nessuno raccolse la provocazione.
I rilievi durano diverse ore dopodichè la città tornò a dormire, tra il campanile e il faro.
Sul mare la luna stava appesa in angolo. Come un’attrice che sta uscendo di scena.
-Caffè?- propose l’ufficiale più giovane.
-Sì, che qui abbiamo fatto notte vediamo se sta qualcosa aperto-
Il mattino vestiva la città con l’aurora, un velo rosa avvolgeva l’istmo del borgo vecchio, pareva proprio una città del medio oriente, a vederla così dal mare.
Ripassarono davanti alla scritta sul sindaco, il maresciallo pensò che doveva mandare qualcuno a cancellarla.
Arrivò in quel momento una segnalazione: “Un uomo sul binario due ovest, stazione centrale, cadavere”
-Vuoi vedere che?- il maresciallo non terminò nemmeno la frase, partì a sirene spiegate.
Era un ragazzo, appena vent’enne, la moto era fuori dalla stazione. Era l’uomo che la notte aveva sparato nella città vecchia.
Era un segno dei tempi, delle cose che andavano cambiando, delle guerre tra clan rivali e nuovi capi che pensavano di poter inventare un nuovo mercato, dopo gli anni bui degli scippi, dei vicoli blindati, del contrabbando delle sigarette.
Una città che aveva fatto sentire la sua voce, rialzando la testa, ricostruendo il vecchio e facendo cadere il nuovo, tra polveroni non solo di macerie cadute, ma anche di polemiche e guerre politiche.
La città che si era ripresa il suo orizzonte, tra il faro e il mare, giù a sud, sempre più a sud.
Ma ora le cose stavano cambiando, di nuovo, lo dicevano le scritte sui muri e le locandine che in una notte avevano tappezzato il vecchio borgo: riprendiamoci la città vecchia.
Il silenzio era forse il solo a far paura, ancora, al ritmo di focaccia blues e concertini improvvisati, la sera sulle piazze. Una ghironda di colori.
A chi conviene che torni se non il buio, quanto meno l’imbrunire di una città che sembrava essersi salvata?