domenica 23 dicembre 2007

T'amo da morire al Romanzo di thè





Cristina Cardone e Maurizio di Credico presentano Zucchero e cannella e Benvenuti a Castleville

Bari

03/01/2008
"Romanzo di thè" book bar Via Principe Amedeo 122 ore 20,30

martedì 18 dicembre 2007

Buon Natale-Bon Noël a Tutti!



Coloro che amano i gatti che non fanno neppure le fusa,

o che sono magri e stanchi e molto vecchi, si chinano

su di loro per strada e gli accarezzano il pelo e gli

grattano le orecchie e gli lisciano il petto, e gli

prendono le zampe, e guardano nei loro occhi d’oro.

Francis Scarfe






Mon beau sapin

Chant de Noël traditionnel

Mon beau sapin, Roi des forêts
Que j'aime ta verdure!
Quand, par l'hiver, bois et guérêts
Sont dépouillés de leurs attraits
Mon beau sapin, Roi des forêts
Tu gardes ta parure.

Toi, que Noël planta chez nous
Au saint anniversaire
Joli sapin, comme ils sont doux
Et tes bonbons et tes joujoux
Toi, que Noël planta chez nous
Tout brillant de lumière.

Mon beau sapin, tes verts sommets
Et leur fidèle ombrage
De la foi qui ne ment jamais
De la constance et de la paix
Mon beau sapin, tes verts sommets
M'offrent la douce image

(Canto tradizionale francese)








venerdì 14 dicembre 2007

Tropico del Capricorno





“Quella mattina ho pianto.

Ho pianto perché amavo quelle strade che mi strappavano ad Henry e che mi avrebbero ricondotta da lui.

Ho pianto perché diventare donna era stato difficile e doloroso.

Ho pianto perché da allora avrei pianto di meno.

Ho pianto perché non provavo più dolore

e non mi ero ancora abituata alla sua assenza.” Anaïs Nin

Parigi era avvolta dalla nebbia e il sole era un disco bianco in un cielo plumbeo, incolore.

Anaïs camminava stretta nel suo cappotto, ritmo di tacchi sui marciapiedi, girando pagine di storia, evocando il rumore di ruote dei carri sul selciato. Voltando pagina.

Le foglie sugli Champs Elysées erano morte. Definitivamente. Bagnate d’umidità non scricchiolavano più sotto i piedi, ma attutivano i passi.

Si bemolle.

La nebbia, era scialle di fumo, dalle bocche delle fontane, sulle labbra dei passanti; sigarette a metà.

Camminava, i capelli scivolavano morbidi in una carezza, o uno schiaffo al tempo, come il passato sfilava dai ponti e sotto le arcate gli anni facevano muffa.

Consumò un paio di scarpe quella sera a Parigi. Passando per il Tropico del Capricorno.

Parigi, i suoi passages couverts, i boulevard, i café all’aperto e tazze di brina come panna montata.

Salì le scale nella luce fioca.

Gli abiti un pezzo alla volta sul pavimento, i passi nudi e il rumore di gocce.

Alzò il viso verso il getto, lasciandosi avvolgere, pensando che lui era nella stessa città, mentre l’acqua lavava via il suo piacere, scivolando tra le gambe. L’acqua.

Eau de Paris.

L’amore da durare il tempo di una sigaretta e poi mai più.

Mai più.

Mai più.

Mai più.

Mai più.

Ancora.

Ancora.

Ancora.

Riprendeva la musica di carillon, sfumava la nebbia come sipari a teatro, tra il primo e il secondo atto, alzando gli orli alle gonne, di una nuova moda, presto a venire.

La città stava muta nel riverbero del tramonto, sotto la carezza leggera delle campane da l’Ille.

I semafori lampeggianti a strizzare l’occhio al buio, mentre un grillo cantava, aveva un do diesis per le mani.

Di bronzo gli scalini della torre dal Campo di Marte, notti di guerre clandestine, come amanti, dietro a un portone, nel mantello notturno, darsi così mentre le risate arrivavano soffocate dalla strada, da fuori, dalla vita.

Genuflessi al piacere e freddo tra le gambe, di un inverno parigino, eretico ed erotico.

Far l’amore così come su arazzi di Claude Audran.

Sì l’avrebbe fatto anche lì, nella trama e l’ordito di antiche scene epiche.

Vinti.

Sui campi elisi.

Di nouvelle mélancolie.

-Sono la tua scrittrice preferita?-

-E io sono il tuo soggetto preferito?-

-Toucher-

Tovaglie di fiandra apparecchiate di lavanda, e il Jules Verne era solo un ristorante.

Ricominciarono da un caffé, girando gli anni come le piazze e pagine di storia.

Mescolando fondi di caffé e avanzi di monete straniere.

Le montagne sull’orizzonte ferivano le nuvole.

Nevicava zucchero sui Boulevard e i suoi capelli si confondevano nell’orlo scucito del cielo.

Fermando carrozze a Versailles.

Bruciando in roghi alla Bastiglia.

Narrando nuovi amori, figli di vecchi amori consumati nell’ombra di una Parigi più povera, fatta di mimi ed artisti, di sesso e scarafaggi, attraversando in una notte o due il Tropico del Cancro.

Il sesso era solo una droga.

Comprando tulipani al mercato di Montmartre, tra rose di Gerico e Rosa croce, nel nome del Padre.

Poi la notte, nera come carbone, fuliggine di pioggia, a Pigalle le ballerine erano nude sotto gonne di taffettà.

Sipario, sipario.

Volo di colombe a sbattere le ali, come applausi.

Applausi.

Per un Macbeth recitato sulla strada, la notte della prima.

L’ultima cena. Con Andy Warhol.

Mettendo in ordine i pensieri come file di rosse formiche.

Lui.

Lasciato in croce, su rami d’ulivo, la domenica delle Palme. A Galizia.

Non qui. Non di questo tempo. Imperfetto.

Parigi mon amour.

-Che c’entra l’amore adesso?-

-C’entra. C’entra-

Uno sparo.

Sinistro, senza eco, a trafiggere un cuore.

Solo un buco, per le tele di Fontana.

Stanno chiudendo il MoMa e una voce avvisa di avvicinarsi all’uscita.

Che strana Parigi, vista da Manhattan, attraversando il Tropico del Capricorno.

In una notte, o due.

( A Henry e Anaïs, da qualche parte)

domenica 25 novembre 2007

Da Montmartre a Montparnasse andavamo a piedi



“Si deve appartenere al proprio tempo. Ogni epoca ha prodotto i suoi capolavori che non sono i nostri” Jean Planque

Jean Planque lavorava per la Galleria Beyeler, lo conobbi al mercato delle pulci di Losanna, l’occhio attento di chi sa riconoscere un Dubuffet, bozzetto stropicciato tra vecchi ritagli di tempo e cianfrusaglie inutili.

Falsi, riproduzioni curiose, pezzi superflui.

Vecchi.

Non antichi.

Si fermava con minuziosa curiosità sulle cornici, alzandole in controluce, cercando qualcosa di prezioso o dimenticato.

Ha raccolto per anni una collezione di piccoli capolavori, figli minori di grandi geni, Degas, Picasso, Monet.

Cammei, scolpiti come parole sul guscio duro e fragile di conchiglie.

Dalla tasca del cappotto mi porse un foglio ingiallito, piegato in due.

- Questa è Sabine- mormorò.

Si trattava di un falso, certo, anche se la firma in calce era davvero ben fatta.

Mi spiegò che cercava l’originale, non per denaro, poteva valere poche centinaia di franchi, ma per la storia che celava.

Un amore tormentato, una passione di un tempo andato.

O forse la suggestione di chi per anni cerca di svelare misteri là dove sulla tela sono semplici macchie di colore.

Sabine lavorava da un pittore, per qualche soldo, amata ad ore. La sera serviva ai tavoli nel quartiere di Montmartre, i capelli raccolti alti, fissati sulla nuca, a mostrare gli zigomi acerbi in contrasto con il corpo, morbido, minuto.

Lui, il pittore, amava dipingerla sproporzionando il gioco degli zigomi, una provocazione, come i lunghi colli di Modigliani.

Le regalava uno sguardo di superbia, gli occhi erano così chiari da sembrare la superficie increspata dei mari del nord. Lineamenti duri a sposare l’abbondanza delle forme, la generosità delle curve tra le lenzuola. Dopo.

Pre-cubismo?

Dicevo, la sera lavorava in un bistrot, si respirava odore di sigari, gli scrittori ebrei stavano sempre in un tavolo vicino alla finestra dai vetri appannati, parlavano piano, fitto tra loro.

Cercavano ispirazione. Si diceva.

Intanto nei loro bicchieri restava l’aroma di assenzio.

I pittori sorseggiavano vino scadente e cercavano donne facili con cui fare nottate. O forse solo la notte.

Nei vicoli i gatti miagolavano, magri, affamati e le risate dei locali ondeggiavano tra le fiammelle delle candele e lische di pesce, avanzi di povertà.

A volte qualche ragazzo un po’ brillo cercava di abbordare Sabine, ma c’era sempre chi sapeva, chi li zittiva.

-Come? Non era al corrente? Lei era la modella nella stanza del pittore.

-Excusez moi- mormoravano abbassando lo sguardo.

Poi lo rialzavano, immaginandola a fare muffa su una tela nella cornice erosa dai tarli. Magari appesa al Louvre. Pittori.

Fece un provino per Le Chat Noir e la scelsero per una parte, le scrissero.

Arrivò la lettera e la padrona di casa la portò su nella soffitta, sotto i tetti di Parigi, dove viveva, apostrofandola:

-Dì un po’, non avrai creato qualche problema? Io qui la Gendarmerie non ce la voglio-

Sabine non sapeva leggere. Infilò la lettera all’interno della cornice di uno specchio senza aprirla.

Sfumò l’occasione di una vita.

Il teatro rimase immobile, chiuso in una scatola, così l’eco di giovani passi fruscianti in taffettà, il parterre silenzioso, gli applausi in tasca, musica ferma di un carillon spezzato.

Ci fu la guerra e di quelle tele non si parlò più.

Poi un incendio a cancellare la parentesi parigina.

Qualche fortunato deve conservare i ritratti appena abbozzati di Sabine.

Perché un amico mi ha mostrato la lettera nello specchio.

Nulla va guardato con superficialità tra le bancarelle dei mercatini di cose vecchie.

Da Montmartre a Montparnasse andavamo a piedi.

Contando il resto di una vita in avanzi di monete straniere al mercato. Soldi sulle dita, abaco di pensieri.

domenica 18 novembre 2007

Una barca vacia sin palobres
















Una barca vacia sin palobres

llevadas en alto del viento

fregando los piedros del mar,

nido de gaviotas solitarios,

para encontrar el camino

de plata de los olivos.

Recogo ibiscus

como menchas del corazòn

sobre la tierra àrida.

Y me siento naufraga,

come una barca vacia sin palobras.

Una tela apoyada

a una melancolìa,

humedesco mis cabellos,

mojadas con agua de mar,

a dibujar una emociòn:

tu ausencia






(Immagini di Barcellona-2006)

domenica 11 novembre 2007

Rennes-le-Château et huile de Lavande

















Era estate quando navigarono mari di lavanda in terra di Francia.
Citron nei cesti dei contadini.
All’abbazia di Notre Dame de Senanque le campane tenevano il tempo con il cicaleccio delle donne e i rosari da sgranare come petali di gelsomini.
Al frinire incessante delle cicale, rispondeva l’eco lontana di Nostra Senõra del Pilar.
Molto lontana.
Si arrampicava una via dal mare, nascosto in gusci d’ostrica dal riflesso perlaceo e attraversava campi autunnali e solchi di terra.
Semi nudi a germogliare parole di pane quotidiano.
ECCE PANIS ANGELORUM FACTUS CIBUS VIATORUM
Un uomo camminava, seguendo la voce dei fari di Provenza, luce silenziosa per i viandanti.
Portava monete romane nella tasca e il sigillo di Salomone sulle labbra.
Santiago era un altro cammino, per piedi scalzi e orme fedeli.
Al di là delle montagne, più in là dell’inverno si stendeva la terra di Bianca di Castiglia.

Huile de Lavande

A Rennes-le-Château la nebbia saliva leggera de un automne in cornice e monete nascoste.
Dipartimento dell’Aude in Linguadoca.
Asmodeo a bere dalle acquasantiere. Béranger Saunière era morto molto tempo fa, e la sua lingua prima di lui.
Con lui una leggenda.
Da disseppellire, (Gesù cade per la terza volta)
da cercare, (abbi pietà di noi)
da interpretare. (cantate un canto nuovo)
Le donne a pregare.
Miséricorde, pitié
Irriverente e blasfema l’offesa degli altari a celare sigilli di cera.
L’uomo in ginocchio a raccogliere una benedizione, nella navata laterale, tra la terza e la quarta mattonella di marmo, dove il pavimento è tagliato in rombi bianchi e neri.
Bianchi e neri.
In scacco la vita.
Un fascio di luce a cadere nel solstizio d’inverno, nell’ora perfetta e l’ombra esatta del segno di Croce.
Parlava latino l’iscrizione sulla parete, e tra le lettere, la serratura.
Rotolato un calice tra le note prigioniere del coro.
Una donna vestita di nero nascosta tra le sue rughe.
Una donna qualunque. Qualunque donna.
L’uomo si rialzò, percorse la navata e uscì.
Molti anni dopo.
L’ombra dei Pirenei cadeva verticale, nella sera di Dicembre.
Incontrò quell’uomo su vie romane, nel riflesso di una vetrina.
Gli domandò del tesoro di Rennes-le-Château.
-Era l’amore. E mi ha lasciato molto povero-
Se ne andò, e con lui l’aroma di huile de lavande.
Di una donna qualunque. Qualunque donna.








Amen












Le immagini sono tratte da: http://www.cathares.org

venerdì 9 novembre 2007

Bulle de champagne

















Pour l’amour d’une bulle

Lisa era arrivata alle prime ombre della sera, di una notte magica.

L’aeroporto e le valige, poi il bus, le auto, i turisti, e infine eccola, la Tour Eiffel.

Era a Parigi.

La notte più folle dell’anno.

Aveva cercato di non pensare, di non sperare, guardando i palazzi e i monumenti sfilare davanti al finestrino.

I capelli raccolti in un basco bianco, come le sue unghie, troppo corte, troppo poco parigine.

C’era un vociare allegro intorno a lei, a intermittenza i flash illuminavano il buio, cartine della città, e qualche brindisi in anticipo.

Souvenir.

L’autobus fermò davanti a le Méridien.

Lei guardava l’orologio, poi decise così all’improvviso, scese, la sacca a tracolla, le mani in tasca, la bocca che si faceva fumo.

Nei suoi vent’anni, maldestri, inesperti e colpevoli.

Che poi erano venticinque, ma il tempo lo aveva fermato là, in quei cafè parigini.

Cinque anni prima.

Sì, cinque anni prima aveva vent’anni.

Lei era lì per scrivere, lui tornava da una guerra, l’ennesima, l’ultima missione.

Narrano leggende metropolitane che da Montmartre si erano spostati a Montparnasse, e lì si aggiravano, come in sogno, anime stravaganti o raffinate, estete o blasfeme, eretiche o condannate, di poeti e artisti, ballerine e nobildonne, clochard e spacciatori, condottieri e uomini dell’Est.

La sua anima era nata lì.

In una soffitta sulla Senna.

Léonard l’aveva ritratta, vestita, spogliata, in lacrime, stanca e felice.

Colori.

Luci e ombre di quella Parigi a gambe aperte, un po’ puttana, un po’ signora irriverente e stanca.

Forse l’aveva anche amata, facendone dono, presentandola a Pierre, Napoleon, nome in codice.

Lisa si fermò davanti all’Arco di Trionfo, gli Champs Elysées ridevano di luci e lei era ubriaca di gioia e suoni, un’altra notte, l’ultima, forse.

C’era folla, e cominciava a piovere.

Di un pianto sottile, che il basco riparava, appena i capelli, sfuggiti, a incorniciarle il viso.

Davanti a Fragonard si esibivano ballerini sudamericani e l’aria profumava di fragranze provenzali, nipote di quella terra che amava.

Fece le scale di corsa, due gradini alla volta, premendo il dito sul campanello.

Il viso di Léonard non era stupito.

“Napoleon?” domandò.

“Certo, anche per me è una gioia vederti, sto bene, sì…e tu?” la provocò lui.

“Scusa, rifacciamo, ciao, come stai, io bene, allora dov’è Napoleon?” e attraversando la stanza arrivò davanti alla porta del bagno cominciando a spogliarsi.

“Ho bisogno di una doccia, se non ti dispiace”

Léonard scosse la testa, sì, era matta, matta davvero.

Uscì poco dopo con i capelli avvolti in un turbante, scalza, gocciolando acqua.

“Pierre stasera è al Lido, ma sa che sei qua?”

Lisa non ascoltava più, dalla sacca tirò fuori lo smalto rosso e le sue mani diventarono molto parigine.

Uscirono lei e Léonard, per le vie affollate, tenendosi sottobraccio, raccontandosi un po’, mentendo, ridendo, ricordando.

Cenarono all’angolo di una malinconia, anche le candele sui tavoli.

Camminarono lungo gli Champs Elysées, fermandosi davanti alla scritta azzurra del Lido.

Voci e fumo, belle donne e sigari, calici e festa.

Pierre la vide subito, alzandosi scocciato, le mascelle rigide, sorrise a un paio di persone che lo avvicinarono, ma mentre copriva il terreno tra loro due si capiva che era guerra.

“Lisaaa, ma che piacere” disse afferrandola malamente per un braccio e chiudendola contro una parete, spalle al muro.

“Che diavolo ci fai qui?” sibilò.

Poi tornarono con gli altri ignorandosi per cinque minuti.

Fu tregua armata, il resto della sera.

Aggirarsi, studiarsi, colpire per primi.

Rimasero fuori tutta la notte.

Il mattino dopo si svegliò tardi anche l’alba.

Rientrarono a casa di Léonard, solo per litigare.

Si può essere fedeli ad un’ amante?

C’erano ancora molte cose di Pierre, in quell’appartamento, comprato insieme, due amici e una donna.

Lei, Lisa.

Quando era arrivata Napoleon affittò per loro una soffitta a le Tuileries.

La tenne nella sua vita e in quella stanza come un quadro, per quattro anni.

Sfibrandosi, fin all’ossessione di lei.

Troppo lei.

Sfumata, percepita, non definita, l’infinito, questo era lei.

Aveva conquistato terre, non poteva conquistare o possedere un’idea.

Lei era un calice di champagne che va bevuto con tutte le sue bollicine.

Se lasciato lì, svapora.

Muore.

Diventa un vino di terz’ordine.

Il vecchio ascensore scricchiolava, mentre a piedi saliva la vecchia Madame Lora con due baguette, li osservò, salutando Lisa.

“Mona Lisa, è tornata?”

Pioveva.

Attraversarono gli Champs Elysées fin all’obelisco, litigando più volte e facendo pace.

Nei giardini de la Tuileries lui le si avvicinò.

Lei aspettava un bacio, almeno uno.

Lui le tolse un capello scuro dal cappotto chiaro.

Lisa chinò il capo piangendo.

“Compriamo una casa” disse lei.

“Per restare da soli? Dai Lisa sii realista, tu e il tuo lavoro io con il mio, rischieremmo di non trovarci mai”rispose Napoleon.

Lei, gli occhi e la voce di pianto, lo prese per mano correndo verso la ruota panoramica, lui si lasciò travolgere, un’altra volta, una ancora, l’ultima si promise, ubriaco di lei, una bambina le guance rosse e quel sorriso.

Quel sorriso.

Poi entrarono al Louvre e lei rientrò nel quadro.

Sotto c’era scritto: Mona Lisa.

Oggi, il primo gennaio il Louvre è chiuso e lei può piangere senza dover regalare al mondo il suo sorriso.

Quel sorriso.

Che Leonardo dipinse e Napoleone amò.



(Parigi, 31-12-05)






martedì 30 ottobre 2007

Seven miles bridge, on the road from Key West








Le palme si tuffavano con me nell’oceano verde-azzurro in quell’ora calda del noon che zittiva anche le cicale.

L’oceano, mio silenzioso amico nell’eco di una conchiglia dimenticata sulla battigia, del gioco presto abbandonato di un bambino dalla pelle color cioccolato e un castello di sabbia, eroso dalle onde, con l’alta marea.

Un pezzo dopo l’altro.

I primi anni cinquanta, dei grandi viaggi, le frontiere, i profughi, i safari di qua e di là del mare.

Le Everglades si estendevano per chilometri, selvagge, paludose, fatte solo di acqua e specie vegetali. A tratti la scia increspata sui canali.

Alligatori.

Tavolozze di farfalle e il canto dei pappagalli, un parlare sommesso.

Landa desolata.

Deserto d’acqua.

Ossimoro

L’auto al tramonto pescava quel che restava di aironi cinerini e il riflesso arancio sull’acqua.

Lo speaker alla radio era "Perdito en un barco".



La pioggia arrivava improvvisa, il parabrezza alzava onde d’acqua e i finestrini laterali erano feriti da lunghe gocce di pioggia.

L’asfalto assorbiva la luce dei fari delle auto nell’ora più chiara prima del tramonto che affogava nelle paludi delle Everglades.

Thomas, la loro guida di colore, sorrideva tenendo in mano lo scatto di una Polaroid.

La sua foto. L’unica se si escludeva quella sui documenti.

Guardava la sua fotografia e l’avrebbe guardata a lungo, finchè non si sarebbe sgualcita. Tanti anni dopo. Su un divano sfondato, una birra a metà, cartoni vuoti, avanzi di cibo cinese.

Solo il riflesso dello specchio in bagno, al fondo del lungo corridoio, gli restituiva un’immagine distorta, vecchia.

La foto, se pur sbiadita era rimasta giovane.

Guardava la TV, distrattamente, un “Go” da Houston e Cape Canaveral segnava un passo sulla luna.

La fine degli anni sessanta.

Fuori pioveva.

La pioggia qui nel sud della Florida, sulla strada per Key West, arriva spesso all’improvviso.

E la bandiera americana restava afflosciata inzuppata d’acqua.

E stelle stropicciate.

Ma loro, adesso, avevano la luna.





(Key West Luglio 2007)

venerdì 26 ottobre 2007

Ko-hi-noor, il Mare di Aral


Nel 1960 il mare di Aral era ancora uno dei più grandi mari interni del mondo.

Oggi la superficie del mare è ridotta, l’ecosistema è gravemente perturbato.

La popolazione soffre di malattie e fame.

A Muinaq le navi giacciono sulla sabbia, il vento porta alla bocca il gusto del sale.

Aspetto.

Tardi, sulla caduta del cielo all’orizzonte, ecco la tua ombra.

La mia mano a piagarsi sulla corteccia ruvida del tuo difenderti.

Le tue dita a ferirsi tra i cristalli delle mie lacrime,

il mio non arrendermi.

E’ nuvoloso

il tuo parlare oggi,

arresa piango.

In temporale

gli occhi, le lacrime

sono ko-hi-noor.

Ruga di sale a vestire la pelle.

Sono il mare di Aral, e porto in secca il tuo passare.

Tornerai marea e scopriremo nuovi diamanti,

di mattini di pioggia.

Lacrime, come kohinoor.

Forse in ginocchio, davanti a tutti i nostri ieri,

rotolati su qualcosa come il perdono,

che lascia in cenere questo passare.

La notte.

L’amore, mai per sempre

e

forse senza domani,

di un mare esasperato e ridotto a stagno di lacrime e sale.

Sei il mare di Aral,

quel deserto di navi in secca,

sull’ultima onda dell’incompleta variabilità

del tuo negarti,

un pezzo di noi tatuato sulle labbra,

sbavate di parole non dette.

Di due mani, un domani,

Aral ha solo ieri e lacrime di sale.

Ko-hi-noor,

hai

pioggia negli occhi.





sabato 6 ottobre 2007

La strega che abitava all'Angst









"Quattro zampe di topo, una coda di serpente, un dente di ragno, quando la luna rotola a oriente e le nubi intrecciano le loro trame con la notte strane cose cominciano ad accadere…"

Queste parole, figlie di tradizione popolare risuonavano nelle mie orecchie, sin da bambina, quando tra le ragnatele polverose della soffitta andavo a caccia di streghe.
Un vecchio baule era l'inizio di un sogno, nessuno a casa ricordava di chi era, ma si sapeva che aveva fatto un lungo viaggio, e prima della guerra si era fermato all'Angst, uno dei più grandi hotel italiani che scrisse la sua storia tra il IX e il XX secolo, nella cittadina di Bordighera.
Dentro non c'erano che vecchi ritagli di giornale, abiti passati di moda e frammenti di uno specchio che le mie mani bambine cautamente evitavano.
Non volevano che mi arrampicassi da sola sulla vecchia scala della soffitta, ormai in pessimo stato, erosa dalle tarme, ma nei pomeriggi d'estate quando le ombre si disegnavano sul cortile e tutti riposavano, io in silenzio salivo lassù, e stavo ore a osservare quel baule, come se mi stesse parlando.
Un giorno una vecchia zia che viveva con noi scoprì il mio segreto e mi raccontò quella che per me è sempre stata a metà tra una favola e una realtà taciuta, un segreto da non rivelare.
Zia Ninin, era minuta, stava seduta accanto al fuoco, con lo sguardo perso, i capelli raccolti e un golfino rosso, il colore dei ricordi, se chiudo gli occhi rivedo ogni ruga che disegnava le sue mani, piccole strade e sentieri familiari quando accarezzava la mia guancia.
La sua voce cominciava a raccontare e strani rumori provenivano dalla soffitta e si mescolavano con quelli della sua sedia a dondolo, lei parlava…parlava…

Angst significa "paura", e dare questo nome a un hotel nel 1800 fu una sfida al destino.
Adolf Angst arrivò a Bordighera con un sogno: costruire il più imponente hotel d'Europa, ci riuscì, ma luci e ombre accarezzarono il suo progetto.
Sulla terra dove voleva erigere l'hotel anni prima abitava una donna, un personaggio curioso, una strega dal nome Ghella.
Viveva in una piccola capanna, circondata da alberi di sorbo, sterpi, rovi coprivano il sentiero e gatti neri si affacciavano dalle piccole finestre, fruscio di serpi nell'erba, voci sinistre la notte.
Molti cercarono di convincerla a vendergli quel terreno, ma Ghella era una strega, il tempo e il denaro non avevano valore per lei, che rifiutò.
Una notte qualcuno si avvicinò alla capanna, dandogli fuoco, il corpo della strega non fu mai ritrovato, ma tra le fumanti rovine rimase uno specchio, grande, antico.
Adolf lo trovò, ricoperto di edera e decise di portarlo con sé, avrebbe dovuto troneggiare nella hall dell'hotel, invano cercarono di fargli capire che sfidare nuovamente il destino sarebbe stato pericoloso.
Una notte senza luna l'uomo vide una figura scura aggirarsi nella stanza e udì una voce: "L'Angst è mio e me lo riprenderò, pezzo dopo pezzo, e la paura abiterà con te."
Lo specchio sarebbe stata la porta del mondo dell'oscurità dal quale Ghella sarebbe uscita la notte per poi rientrare prima che l'alba avesse spento tutte le stelle.
Adolf non vide mai Ghella, ma ogni giorno trovava accanto allo specchio della sua stanza fragili capelli d'argento, segno che la strega passava indisturbata tra le stanze attraverso gli specchi.
L'Angst in breve tempo divenne uno dei più prestigiosi hotel d'elite per la bella Europa del tempo.
Nelle notti gli ospiti cominciarono a sentire rumori sinistri, porte che si chiudevano all'improvviso, quadri che si animavano, fantasmi e rumore di catene gettarono sull'Angst un alone di mistero e di paura.
Ogni sera quando Adolf andava verso la sua stanza udiva passi alle spalle e nonostante si voltasse spesso non aveva mai incontrato nessuno.
L'alone di mistero che aleggiava intorno all'hotel aumentò il numero dei visitatori, anziché essere un deterrente.
Una sera di luna piena la strega decise di partecipare alla festa che si teneva nel grande salone, arrivò evanescente e leggera, al suo passaggio gli specchi della sala si scurirono e alcune candele si spensero, qualcuno gridò: "Strega", il grande lampadario cominciò ad oscillare, i muri si sgretolarono, una violenta scossa di terremoto devastò l'hotel, e si levò una voce: "L'Angst è mio e me lo riprenderò."
Era il 1887, i danni furono gravissimi, ma Ghella commise un errore, quando arrivò davanti allo specchio e la sua superficie si fece liquida per permetterle il passaggio era già l'alba e Angst alle sue spalle la vide e capì.
Ricominciarono i lavori per permettere all'hotel di tornare agli antichi splendori, le centottanta stanze in breve tempo risplendevano di nuova luce.

Passò la storia per quelle stanze, nomi illustri e patti segreti si intrecciarono.

La paura abitava ancora lì, gli ospiti che si riflettevano in quegli specchi erano colpiti da una maledizione, che nel tempo avrebbe eroso le loro vite, come tarli in sinuosi.
Passi…ancora passi e porte che si chiudevano e non permettevano più di uscire, grida che nessuno sentiva e le notti sempre più lunghe e nere.

Angst, significa "paura".

Adolf attese in silenzio, una notte che Ghella uscisse dallo specchio e poi fece velare tutte le superfici riflettenti delle stanze, nessuna porta per la strega per tornare indietro.
Quella notte fantasmi chiari si levarono sul giardino, e lungo le scale, passi, voci, bisbigli, sino all'alba.
Quando la luna percorso il suo cammino, si curvava sul cielo, Ghella arrivò allo specchio, ma non potè entrare, corse sulle scale, ma ogni specchio era velato.
Scappò gridando nelle cucine, seguita dai fantasmi che con la luce si sciolsero sui marmi, creando un chiaroscuro di macchie e colori.
Quando il cielo incendiò l'oriente, la luce invase gli scantinati buii e della strega rimase solo un mucchio di stacci scuri.
Tutti gli specchi si frantumarono. Un vecchio baule fu riempito di ricordi.
Ma Adolf non aveva vinto, quello fu l'inizio della fine.
Nel 1917 l'hotel divenne un ospedale militare, fu pesantemente colpito dalle bombe.
Adolf Angst morì nel 1924.
L'hotel non si riprese, anzi cominciò un lento declino, furono bruciati e trafugati marmi, infissi, arredi, lampadari.
Gli sterpi e i rovi invasero il giardino, l'imponente scritta sulla facciata cadde.
Oggi è un immenso edificio in rovina, dove la notte danzano fantasmi all'ombra della luna.

Io so che Ghella è chiusa in quel vecchio baule e si agita per tornare, ferendosi sulle schegge di specchi, riflesso del passato, ma io non so la strada per riportarla a casa.
Ancora oggi la notte ascolto i rumori sinistri e familiari dalla soffitta, chissà che non si sia abituata alla nuova casa…

"Quattro zampe di topo, una coda di serpente, un dente di ragno, quando la luna rotola a oriente e le nubi intrecciano le loro trame con la notte strane cose cominciano ad accadere…"



(Questo racconto fa parte della raccolta Samhain 2004
http://lnx.area31.it/index.php?ind=reviews&op=entry_view&iden=77

domenica 30 settembre 2007

New York Public Library


















New York, Luglio 2007
I romanzi Zucchero e cannella di Cristina Cardone
e Benvenuti a Castleville di Maurizio Di Credico
sono stati donati alla Public Library.
I leoni di pietra, Patience e Fortitude, all'ingresso vegliano le parole scritte...

sabato 15 settembre 2007

Las Meninas










“E se non stai buono” aggiunse Alice “ti faccio andare nello specchio” Lewis Carrol

Dentro la cornice nera come fuliggine c’è la prova dell’illusione, fatta di realtà virtuale e presunta.
La sala è buia, il quadro è al centro della scena, ma dov’è la scena?

Las Meninas

Museo del Prado e una pioggia battente all’uscita mentre Foucault appoggiava la pipa alle labbra, lasciando disperdere nell’aria onde di tabacco trasparente.
Quell’ora incerta, di luce obliqua, molto prima del tramonto rovesciata da un cielo di piombo a tuffarsi in una pozzanghera.
I pensieri in ordine e un’occhiata alle finestre alte, solo custodi di un mistero, un enigma, un gioco forse, si trattava di cogliere la giusta strategia.

Partire

Mille chilometri di terra aspra rubata al mare.

Il mare

Il mare

Il mare

Barcellona viveva di un violoncello solo per Maisky sulle Rambla, e bozzetti di Picasso come souvenir.
Foucault e Théophile seduti su vecchie sedie impagliate giocavano a scacchi, tagliando in rombi la prospettiva di un tempo imperfetto e pittori distratti.

Distratti,

distratti.

Las Meninas, fatta a pezzi di cubismo nel gioco di colori di Picasso.
Dov’è la soluzione, per finire la partita?
Prendiamo tutti i personaggi e buttiamoli a terra come carte di tarocchi, l’Infanta, Maria Augusta, i nani, il pittore, il cane, Nieto, i sovrani, i due servitori scatola cinese, camera oscura, dipinto nel dipinto.
10 personaggi.
Davanti al quadro, dentro, dietro la tela.
Spettatori confusi, senza posto a teatro, a vagare le sale di un palazzo, come il gioco di un caleidoscopio di colori e sala degli specchi.
Las Meninas, fermo immagine su un angolo di corte, di vita andata, erosa dai tarli.
Seduti per ore davanti a un quadro, Foucault e Théophile con il marchio della croce di Santiago sulle dita, cammino coraggioso di luce perpetua.
Misurazioni matematiche e cambi di prospettiva, dov’è la coppia riflessa nello specchio?
Non è davanti allo specchio.
Non siamo noi gli spettatori, ma la coppia regnante, celata nello specchio che li nasconde finchè
Nieto solleva la tenda e li mette in luce.
Presto venite, noi siamo al posto dello specchio.
Dentro o fuori dall’immagine?

Prigionieri

Noi siamo in questo spazio dove passa il nostro tempo.
Cercando disperatamente di sfuggire alla morte.
Foucault si fermò sulla soglia, Margherita, sua nipote, sedeva sul grande tappeto, aveva figurine nelle mani e narrava:

Sono stanca di parlare con la bambina nello specchio. Non vuole darmi le sue carte con il Re e la Regina, ecco ora le volto le spalle così non la faccio più amica.

Noi siamo gli spettatori e la malinconia produce un distacco tra il personaggio e chi lo guarda.
Foucault ebbe un’intuizione, fuori Parigi era allagata da un temporale, pensò che sì, ne avrebbe discusso con Théophile, non appena fosse entrato nello specchio.
Noi, in questo tempo imperfetto.



Foucault 1926-1981

Théophile Gautier 1811-1872

Las Meninas 1656-1657




lunedì 10 settembre 2007

September morning







“I can’t watch”

(Quanto dura la fiammella di una candela?)

“Ore 8,46 il volo American Airlines 11 colpisce in pieno la Torre Nord a Manhattan

Ore 9,03 il volo United Airlines 175 si schianta contro la Torre Sud

Ore 9,59 la Torre Sud (la seconda ad essere colpita) crolla, collassando su se stessa

Ore 10,28 crolla la Torre Nord

Ore 11,02 Mayor Rudolph Giuliani order the evacuation Lower Manhattan”

Il meglio che possiamo fare è sopravvivere.

È quel che ci hanno detto.

Sopravvivere è il meglio che possiamo fare.

Attacchiamo e ci ritiriamo, e causiamo la morte.

Ma non si è mai abbastanza preparati all’orrore.

Coriandoli di anime 58 gradi Fahrenheit, di impiegati in camicie bianche a tuffarsi sull’oblio di fumo.

Vuoti d’anime a perdere.

La terra si sgretola, e l’unico suono sinistro è l’urlo angusto delle sirene dei soccorsi.

Oggi, quando esci dalla metropolitana a Battery Park e alzi lo sguardo tra i grattaceli, dando le spalle a Ellis Island capisci senza bisogno della mappa che là dove si alzano quelle gru, là dove un vuoto innaturale si fa largo tra i palazzi, sì là c’era il World Trade Center.

I venditori ambulanti spiegano le T-shirt con la scritta I LOVE NY.

I turisti giapponesi scattano foto.

Ground Zero

La bocca spalancata sull’inferno, la voragine di milioni e milioni di metri cubi di cemento, acciaio, il simbolo della potenza, il vanto, l’illusione, il sogno.

Il dolore.

Quello che ti prende la bocca dello stomaco e ti vela gli occhi.

E lo sguardo al cielo troppo azzurro, troppo azzurro.

Dov’è dio?

Ruggivano i leoni di pietra, Patience e Fortitude, davanti alla Public Library.

“2986 morti, tra cui i “bravest of bravest” 342 pompieri e 70 poliziotti”

Il meglio che possiamo fare è sopravvivere, così dicono.

C’è un silenzio innaturale nell’antico cimitero di St. Paul’s Chapel.

La donna anziana all’ombra dei sicomori tiene gli occhi socchiusi nella luce chiara del primo pomeriggio.

Sbriciola del pane secco per i passeri, poco alla volta perchè a terra non si sporchi.

Peter Huggenford, 1795, c’è scritto sulla vecchia lapide.

Gli anni in cui Battery Park era il porto per l’America, quell’America da sognare.

“Tu vuò fa l' americano
mmericano! mmericano!
ma si nato in Italy!” ritornello che rimbalza.

I transatlantici si fermavano a Ellis Island dove la terza classe era costretta a severissimi controlli.

E “Broccolino” nel nome del padre.

L’America del Rockefeller, 14 piani ogni due mesi.

L’Empire.

Il Chrysler.

Battere i record costruire in altezza per conquistarsi un po’ di cielo da coltivare.

“Colpire New York, è come colpire i bambini” hai detto su quella che oggi è Liberty Street.

Libertà.

Quella promessa da una statua, un simbolo.

Libertà.

Quella di milioni di anime venute giù tra calcinacci e macerie a ricoprire il piccolo cimitero di St. Paul’s, alle spalle del World Trade Center.

(Quanto dura la fiammella di una candela?)

La vecchia signora accenna un sorriso e domanda:

“How are you?”

Poi, senza aspettare risposta racconta brandelli di ricordi.

Di un dramma, di terra senza ritorno.

Un figlio da piangere, anima in pulviscolo tra migliaia di anime in quel piccolo cimitero, vecchio come le sue lapidi dove non si legge quasi più nulla, dove le ossa sono polvere.

E la polvere delle torri lo ha ricoperto dopo il crollo.

Terra, alla terra.

Non è mai stato costruito uno scalpello che possa distruggere un sogno.

E il sogno sopravvivrà alla cenere.

Sai, sai perfettamente che nulla sarà mai più come prima.

Che il mondo si è fermato, la Borsa è crollata.

Poi più niente.

“14 Settembre 2001, il sindaco chiese al Reverendo di St. Paul’s di suonare le campane a mezzogiorno.

-Come fare? Manhattan è senza luce-

Poco dopo il Reverendo con due uomini del servizio d’ordine salì il buio campanile e a mezzogiorno in punto fecero suonare la campana.

12 rintocchi

I soccorritori si fermarono, tolsero i loro caschi e stettero in silenzio.

In segno di rispetto.”

La donna aspetta.

A Battery Park c’è il simbolo in bronzo che si è salvato dal crollo delle torri.

Lì brucia una fiamma perenne.

Ora so quanto può durare una candela.

“I can’t watch”

“Don’t watch, run. It’s going to come down”

domenica 9 settembre 2007

The ruins of Gede. La "Preziosa"







“Denys Finch-Hatton non possedeva altra casa in Africa, che la mia fattoria: là viveva, fra un safari e l’altro, là teneva i suoi libri e il suo grammofono (…)

Con lui, sedersi su una cassa da imballaggio, in una casa vuota, sembrava la cosa più naturale e cara del mondo. Mi recitava una poesia:

Devi mutare il tuo canto luttuoso

In un ritmo gaio;

non verrò mai per pietà,

ma per piacere.”

-Karen Blixen-

A Malindi su un promontorio che si spinge verso l’oceano Indiano c’è una colonna di blocchi di madrepora, la Croce Pradao, costruita da Vasco de Gama che all’ingresso del Mida Kreek di Watamu riuscì a nascondere le sue navi.

Nelle stive aroma di indian saffron.

La magia di quei luoghi rivive fra le rovine delle moschee di Gede, la Preziosa.

Il sito è circondato da due cerchie di mura che hanno resistito al tempo.

I blocchi di corallo non hanno subito alcuna alterazione dal XVII secolo.

I baobab si protendono al cielo, nella vegetazione lussureggiante, le scimmie urlano dalle cime dei rami. Le lucertole frusciano tra le rovine e tavolozze di colorate farfalle fioriscono sull’erba: kipepeio intonano i bambini.

Ricordo il Kenya e i suoi laghi, i deserti sconfinati del nord, al confine con la Somalia, dal finestrino di un bimotore.

Il paesaggio quasi lunare intorno al Lago Rodolfo, un mare di giada su spiagge di soda.

Baringo e Nakuro, stretti nelle giacche a vento, a spiare il volo di fragili flamingo, ballerine di carillon.

Un bouquet di piume chiare, strette in una piccola mano d’ebano, quante sfumature può avere il rosa…

Ora, seduta su questa veranda guardo un punto impreciso davanti a me, in quello spazio sconfinato, quel deserto che scopre la bassa marea, ascoltando, lontano, il ruggito dell’oceano sulla barriera corallina.

I dhow lasciati in secca, le vele latine sgonfie come meduse sulla riva.

Aspettando l’alta marea dall’imbarco del Malindi Fishing Club, e partenze per la pesca d’altura.

Turisti.

E le prime barche dell’Hemingways Club, una vecchia sfida.

Di marlin e improbabili storie di pescatori e pescecani.

Rum nei bicchieri.


Malindi, Luglio 2002



venerdì 7 settembre 2007

El Mir, quadrilatero romano

















Sul petto aveva ancora l’alone indiscreto di un sole distratto, alti i gradi cuciti sulle spalle, veglia delle sei scendendo i gradini della Consolata.

Consolami il ricordo di antichi fasti la tua cattedrale di silenzi

Quattro campane a intonare l’Ave, alternato ai passi pesanti degli anfibi dell’esercito attraversando un ponte, venivano incontro i sampietrini, tagliati perfetti in quattro angoli di pietra.
L’ombra del duomo vestiva avanzi di colonne romane, prima lettera ai Corinzi, delineando il quadrilatero disteso all’incrocio di vie e piccole piazze, già tovaglie dei caffé all’aperto.
Carovane di cammelli cercavano di passare dalla cruna di un ago; ero nelle gobbe ondulanti, fatte di mari interni che navigammo, su barche alla deriva con la prua a oriente.
Bianche polene addormentate su vermiglie arene, di mari in infuso di ibisco, schiave di nuovi dei decaduti.

Cucimi il silenzio su labbra d’albicocche secche comprate al mercato de la Boqueria, leggendo Neruda sulle cartine dei cioccolatini

Avanza l’uomo in uniforme e forse il coprifuoco stanotte spegnerà le candele rosse del ristorante libanese, El Mir.
Joan Bayèn ha scritto sul menù: Cap i pote.
L’odore dolciastro di melassa inciampa l’orlo del bicchiere, brucia piano la fiamma nei narghilé e arabi affondano nei puf le loro litanie, sans papier, clandestine voci di minareto.

Fa che ti perdoni il ricordo glorioso di città antica in veste di festa, vello d’oro, giorni di eroi stanchi, o noi stanchi di loro.
Fa che ti consegni al ricordo come passato fiorente e colto in macerie di torri.
Quadrilatero, oggi il loro resto, monete dispari.
Perdonami lacrime di cera sulla tua città che brucia, vinta, saccheggiata, data alle fiamme eterne anche l’ultima conquista imperiale, una storia già sentita. Troppe volte.
Lasciami deserto questa cenere a cadere su un monastero. Il mio silenzio


-Dove andiamo a cena?
-Hanno chiuso l’Imbarco numero sei.
-E l’Idrovolante è volato via.

mercoledì 15 agosto 2007

Kiss Kiss Bang! Bang!







Il 23 Agosto, alle ore 21, nella splendida cornice della Masseria Serra dell'isola a Mola di Bari, il Culture Club, di Mimmo Sparno e Annella Andriani, presenta:
Zucchero e cannella e Benvenuti a Castleville, una serata in cui si parlerà di eros e thanatos.
Interverranno gli autori, Cristina Cardone e Maurizio Di Credico, il direttore artistico Annella Andriani, la giornalista Rita Guastamacchia, l'attrice Annamaria Carella.

venerdì 10 agosto 2007

Miami, Ocean Drive

La grande mela

giovedì 9 agosto 2007

Picasso, Les Damoiselles d’Avignon (Nyk-MoMa)



















“Sette, otto, pirouettes, isolamento e pausa”


Scendevamo a Grand Central per una cena romantica,
nascosti da tutti, all’Oyster Bar,
mentre sfrecciavano le linee della metropolitana verso downtown.
La donna di colore aveva un fascio di rose rosse
e
un Picasso, sulla copertina del menù.
Stavo in punta di piedi
su arazzi di Claude Audran, il tappeto del mio scendermi in verticale,
il Golgota del suo ventre.
Lei.
Big Apple.
Di labbra rosse, da mordere, appena.
Nel segno del peccato.
Come back to Eden.
Insonne la notte,
per prendere l’ultimo taxi giallo, prima che salisse l’alba nebbiosa sull’East River






(New York 19 Luglio 2007)

martedì 17 luglio 2007

Mujeres sobre fondo claro








Tra le stanze del Museo di Picasso a Barcellona, leggendo un libro di Simona Vinci, nelle ombre di pomeriggi curvi sulla strada.

"Tu eri la mano che entrava dentro di me come sembrano fare le mani dei guaritori filippini, senza bisogno di bisturi, soltando facendo pressione sulla carne, ma eri anche incapace di gestire quel potere, tanto quanto io ero impotente di fronte all’avanzare delle tue dita dentro i miei tessuti: se ti avessi lasciato continuare sarei morta dissanguata" Stanza 411

Donne posate sulla ceramica
dal tuo pennello, a percorrerne le forme,
quasi casuali, curve e lunghezze,
il movimento fermato per sempre.
Le mani a seccare, mai rughe ad attraversarle,
gli occhi goccia di colore,
per fare il giro del mondo con lo sguardo
prima che la pittura asciughi.
Cos’è rimasto riflesso nell’iride?
L’ultima immagine prima di diventare cieche,
forse le tue mani,
in primo piano su questa fotografia,
nessun anello, nessun legame,
compagna fedele una sigaretta a metà,
cenere gli anni rimasti
e
capelli in stille d’argento
che un mago beffardo osò sfidarti.
Istantanea di chiaro-scuro.
Malaga,
in bianco
e nero.
Mujeres.
Mujeres su sfondo claro,
diafane di pomeriggi accartocciati di lillà,
come lividi sotto la pelle,
ombre pallide, che fanno male.
Le hai dipinte, amate, ammirate,
tutte e nessuna,
non contavano niente
e
lei lo sapeva.
C’è la tua firma, lì, in basso,
quasi tratto distratto.
Che rimane delle tue mani?
Senza fede, senza compagnia,
quei corpi arresi attendono, sulle lenzuola bianche,
che sangue ancora le attraversi.
Pennelli e colori rinsecchiti,
eco di passi scalzi in cucina,
sono rimaste solo loro,
Mujeres su sfondo claro,
ma non racconteranno mai cosa videro,
il segreto è in un po’ di tempera secca
al posto degli occhi.
Ma per capire, bisogna imparare a vedere,
nell’impasto di acqua e fango,
a cuocere creta,
stilla d’argilla,
frantumata dalle mie mani stanotte,
Mujeres su fondo claro, su questo pavimento
in cocci a picco negli occhi,
chiusi.
Ecco, ora chiusi.
Acqua a lavare quel che resta di schegge di polvere.
Acqua e sale a percorrere una via,
dalla virgola degli occhi, al mento,
forse lacrime.
Sicuramente sangue,
dita a ferirsi su tagli sbagliati, di donne,
in cocci sul pavimento.
E tu,
in un altro quadro.
Autoritratto.
Volo ad Est, a comprare il tuo essere uomo,
a pagare mujeres su fondo claro,
il tuo disprezzo.
Il mio silenzio
e
poi, mai più




( Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)

Barcellona




















Di passi sulle Ramblas, tra mimi distratti,
lampioni di Gaudì a Placa Real,
semafori spenti sulla Diagonal,
el Paseo de Gracìa, la sera, era solo un quartiere.


(Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)

-Barcellona, Aprile 2006-

domenica 15 luglio 2007

Sorrisi













Spesso i bambini in Africa non hanno le scarpe, eppure sono tanti i passi da percorrere...

(Kenya, Kilifi, Villaggio Noa, Luglio 2006)

Frammenti di francobolli












Gli ultimi 80 KM della Parigi-Dakar, la terra rossa del Senegal, e i suoi baobab, giganti buoni lungo la via...

(Dicembre 2001)