martedì 23 dicembre 2008

Buon Natale

"un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia"

Christamas star al Fishing Club


Adeste fideles laeti triumphantes

Dalla veranda di quella casa sul mare a Diani mi stringevo un kanga sulle spalle, la sera arrivava sempre il vento dal mare, il respiro dell’oceano che frangeva le palme scarmigliandole e solleticando la pelle abbronzata di un brivido.

Sul tavolo la cartina che attraversa la costa del Kenya, è un tratteggio in rosso che passa per il villaggio di Noa fino a Tezo Kwa Chokwe, che sembra la mappa del tesoro. E un po’ un tesoro lo è, lei l’acqua, il nuovo oro nero, il bene comune. Tezo è un villaggio fatto di capanne di fango e paglia, di bambini e galline che razzolano nella nuda terra. Ogni giorno per arrivare al fiume le donne percorrono due chilometri, andata e ritorno,con l’acqua di una giornata in equilibrio perfetto sulla testa. Un progetto, chi ci ha creduto e chi ha sostenuto ed oggi c’è l’acqua. Per tutti. Qui a Tezo.

Gli occhi di Mama Ester raccontano più delle mani callose e dei piedi scalzi.

 
Venite, venite in Behetlem

Questo posto è la mia conchiglia sul mare, mi cammina dentro come una malinconia.

Al Fishing Club hanno appoggiato i fiori delle stelle di Natale, Christmas star, come centrotavola, che è notte di vigilia, notte di attesa.

Padre Angelo ha fatto il suo presepe sotto le palme e una cometa brilla sulla sua chiesa, la vedi quando a Ukunda giri a destra, sulla strada che porta verso il mare.

Natum videte regem angelorum

Quei giorni che pioveva ci sedevamo sulla veranda. Philip e Fabrizio giocavano a domino. Paul armeggiava con le canne da pesca e ondate d’acqua scrosciavano sui nostri pensieri.

“Sarah e Mark, i compiti!” Marika non ammetteva repliche, trovammo un accordo.

Giocavo a scacchi con Mark, otto anni, ripetendo le tabelline.

Feci scrivere un tema a Sarah su una colonna squadrata del patio.

La sua grafia curva, a tratti incerta si mescolava con qualche accento dimenticato.

“Oh, no” disse suo padre.

Ma sapeva, sapevamo che bastava un po’ di colore per cancellare. Tempera bianca. I muri andavano rinfrescati.

E intanto leggevamo libri e fumavamo sigarette mai spente.

E Bach stava chiuso in un CD.

Venite adoremus
Venite adoremus
Venite adoremus Dominum

Dalla raccolta Cote d’Or

A Kuki G., Katana, Mama Ester, Triza e quel quarto di cielo d’Africa che porto tatuato sulla pelle

giovedì 11 dicembre 2008

Pinturas. Oil on canvas



Al MoMa c’era una mostra itinerante e il pittore se stava seduto a terra con le gambe incrociate su una stuoia in smidollino chiaro. Pareva uno di quegli incantatori di serpenti che ti trovi davanti in certi bazar e mercati all’aperto viaggiando verso oriente.

Cercatori di perle

Dalle vetrate scure si intravedevano i grattacieli e la vita che scorreva attraverso le finestre.

Olio su tela, due mani a sorreggere il mento, allungato e un po’ triste di due occhi che frugavano oltre me, come se dietro ci fosse il vero interesse dello sguardo.

Pezzi di vita, scampoli di un normale presente con la messa a fuoco sbagliata, uno di quegli scatti che ti sfugge, mentre non pensi, non inquadri. Colpendo in pieno un sentimento. Qualcosa di Roma, distratta madrina di una sera di Novembre, o forse sullo sfondo il chiarore di certe vie di Montmartre.

Così una manciata di attimi a ricomporre un vita. E due mani a riscaldarsi o a celare un volto. Forse solo a nascondere uno sbadiglio.

Cacciatori di perle si raccontavano aneddoti su alligatori albini nelle fogne di New York

Canovaccio sgualcito e macchie di colore. Pinturas. E il lamentoso intercedere ritmico di un flamenco. Comprare una rosa sulla Rambla e andare a letto quando l’alba incalza.

Dipingere così, imbrattando il presente per renderlo irriconoscibile, salire la scala mobile della metro e trovarsi trapiantato a Central Park.

Questa sera hanno acceso l’albero di Natale davanti al Rockfeller Center. Come accade da un po’ di sere ormai. Volevo raccontartelo, mentre passeggio sulla Quinta e penso che stasera andrò a cena nel Queens.

Stretto nelle mani il volantino che racconta una mostra itinerante. Pinturas. Qualcosa di buono per essersi guadagnato una sala a New York. Ma tu lo sai bene, sfondi solo se passi da queste parti e se qui rimani appeso alle pareti. Abbastanza a lungo per diventare storia contemporanea. No il nome ora mi sfugge, ma è un artista indiano. Un orientale. Lo sai che però ho un debole per Pablo.

Picasso aveva un debole per Parigi

Qualche vecchia foto, cartoline scritte con un inchiostro spesso ma senza sbavature, quello che la clemenza del tempo aveva lasciato. Di loro due. Li incontrai a Parigi. Poi ne persi le tracce.

venerdì 21 novembre 2008

Ritratto naif au savon de Marseille




Modì, Manu’, Francine.

La terrazza si affacciava sul golfo, quel giorno il mare era di azzurro carico, a tratti sfumato di turchese, e il paese si adagiava dalla collina alla spiaggia, un quadretto naif, di quelli che piacevano a Pierre.

Attraversavamo gli Champs-Élysées calpestando un tappeto morbido di foglie dal colore caldo, ambrato, come un bicchiere di cognac, una mezzaluna sinuosa e ondeggiante come quei giorni a Istanbul. Parigi di assenze. Di cartoline mai spedite, di camere con vista su moschee e minareti.

La parola dei muezzin e nuovi dei. Cartelloni pubblicitari a rincorrere il miraggio di un illuso benessere. Quando anche Parigi era una chimera e le serate davanti alla scritta azzurra del Lido, a tirare l’alba, annunciata dalle campane da l’Ille, Notre Dame, ora pro nobis.

Ci pensammo tardi a collezionare foglie appassite e rughe per i nostri anni a venire.

Biglietti d’aereo comprati così, senza pensare e valigie mai disfatte ai piedi del letto. E noi stare distesi e nudi ad aspettare che gli Champs-Élysées si vestano da sera, per scivolare con una crociera sul Tamigi, certe notti che il sonno non arriva.

Modì camminava lentamente lungo la banchina della stazione per ingannare l’attesa. Manu’era rimasta seduta ai tavolini azzurri del Bar du Cap, a leggere Nice Matin, voleva che l’amica vedesse da sola Francine.

Già Francine, che le aveva telefonato poco più di un mese prima. In fondo Modì un po’ se l’aspettava quella chiamata. Una sconosciuta terribilmente legata alla trama della sua vita, il passato di macerie su cui lei aveva eretto un tempio glorioso, di parole fatue, di attimi così brevi da domandarsi se mai fossero stati tessuto fertile del reale.

Sapere, conoscere quel passato l’aveva salvata. O forse condannata a vagare i gironi del suo inferno personale, ascendente, spirale di parole rubate a un telefono, a una voce che da sola riempiva una stanza, inondandola di sole, facendole venire voglia di ballare, di cambiare il posto dei mobili, di pulire la casa, di sentire nell’aria l’aroma di savon de Marseille.

Lui, a volte vicino, più spesso in mille posti del mondo, e il viva voce con lei che riempiva l’auto di note accordate al tocco sapiente delle sue dita.

La bouganville lungo il muro perimetrale della villa era un trionfo di sfumature lilla. Quell’anno il viola era di moda, se ne doveva ricordare, comprare qualcosa di quella tinta, un maglione o un paio di calze.

Un campanello annunciò una voce metallica che informò dell’arrivo del treno al binario due. Modì alzò lo sguardo incontrando il numero stampato sul fondo bianco: binario due.

Attendevo nell’atrio del teatro il tuo ritardo. Stretta nell’impermeabile fradicio di pioggia

-Perdonami, su facciamo presto, che inizia l’opera-

I fuochi d’artificio salutavano un nuovo anno.

Bon'Année. Bon'Année.

E le bocche si facevano di fumo. Nuvole di drago nel centro di Parigi come per strada a Hong Kong. Tanti anni prima. Ricordi?

Modì si riscosse dai suoi pensieri. Le mani nelle mani e mille pensieri che a ricordarli, in quel giorno sarebbero stati un groviglio scomposto di emozioni da dipanare.

“Menton. Gare de Menton”

Francine portava un vistoso paio di occhiali da sole, per il resto era vestita sportiva. Si scusò del suo abbigliamento osservando Modì, forse un po’ troppo naif, di sicuro terribilmente francese.

Parlarono della moda, per dissimulare l’imbarazzo. Mentre le ruote del trolley le seguivano per le stradine.

Lo studio di Modì si apriva su un’ampia vetrata da dove si vedeva il mare.

Francine osservò discreta che si aspettava di trovare qualcosa del pittore, di quell’uomo che a sua volta aveva provato ad amare.

Modì scrollò la testa, era proprio quello l’errore, l’incapacità di porre la storia nella giusta ottica.

L’amore doveva andare oltre, così lontano dal pensiero comune fatto di quotidianità, qualcosa più simile a immolarsi di assenza. Consapevole di avere così, qualcosa di molto vicino alla metà del cielo. Come diceva nel suo libro. L’atra metà della mela, attenta sempre a non scivolare, mai più, mai più su quelle due parole che avevano decretato l’inizio della fine.

Francine, non capiva, scuoteva il capo e non capiva. Aveva letto il libro e si era riconosciuta, ma oltre non poteva andare e forse nemmeno le credeva.

Modì era lì davanti a lei e non tradiva sofferenza, così le sue parole vergate con tratti naif. Lei in quella terra di Francia, au savon de Marseille.

Andarono a pranzo in un locale sul mare, le raggiunse anche Manù.

Parlarono di viaggi, di politica e poi di lui.

“Grazie”

Lo disse Modì, e Francine non capiva. Una vita intera passata a cercare di cancellare, giorni di solitudine così vicina alla disperazione, del disegno delle vene così prepotente sotto la pelle da voler fermare tutto quel dolore. Poi si affacciarono giorni lividi come onde di rabbia e unghie a graffiare via un volto tanto da non ricordarne che i tratti, sfumati. Naif.

E ora il nulla, l’indifferenza. No, non capiva come Modì avesse potuto pagare un prezzo tanto alto, avvelenandosi d’amore. Perché questo era. E non doveva ringraziarla, perché quando avrebbe capito, sarebbe impazzita. Ma questo lei non voleva dirglielo.

Si salutarono alcuni giorni dopo. Mentre il treno scivolava tra l’oscurità e i riflessi nei vagoni Francine, sfogliò ancora una volta quel libro.

L’autunno era alle porte. Modì si strinse nella sua mantella, rientrando dalla stazione. Avrebbe dovuto andare giù alla grande casa tra i vigneti a Gonfaron. Lui l’avrebbe raggiunta là. Anche se per poco. Era come ricevere il regalo di Natale più atteso. E ora che l’aveva avuto non c’era un libretto d’istruzioni. Quanti funerali con Manu’ per seppellire il ricordo in un cappuccino. Sorrise, quello era il passato. Oggi si stringeva nel suo equilibrio e che Francine non lo volesse ammettere, non importava. Quella donna le aveva insegnato a fare un passo in più.

Amanti. Entrambe. Quasi vedove dello stesso dolore. Ritratti diversi.

In fondo lei rimaneva Modì, per il pittore. La sua Modì.

domenica 2 novembre 2008

L’ombra umida del mare di ponente





Le navi se ne stavano immobili, attraccate ai moli, dove i gabbiani si fermavano a riposare. In attesa di partenze improbabili si imbarcavano sulle cime tese, clandestini di un restare là. Dove non furono mai.
Gli aerei passavano alti lasciando a noi una manciata di scie e l’interrogativo della loro rotta da indovinare. Una manciata di scie nelle tasche e bottiglie abbandonate, vuoti a perdere e lettere, messaggi a mare, da tirar su con un congiuntivo.
Un cane stava accucciato su un mucchio di vecchie corde arrotolate su stesse, come un grosso serpente, da far esibire al suono ondeggiante e ipnotico di un flauto.
Rotte di caduti venti occidentali.
Il cane osservava il via vai dei mezzi pesanti sulle banchine del porto, vestiva i panni di cane guardiano dei grossi silos di grano. Abbaiava agli uomini, mentre una fila disordinata di gabbiani rubava dai sacchi vicino al deposito.
L’uomo passò di là allungandogli una carezza attraverso le sbarre del cancello.
Il cielo si stava coprendo di una sottile velatura, c’erano ancora due ore di luce prima del tramonto.
Poi la notte avrebbe inghiottito tutto, anche le ombre leggere e umide che l’alito del mare appiccicava alla banchina.
Le navi incrociavano nelle acque del porto seguendo le rotte per l’America.
Già l’America che aspettava distesa al di là della nebbia che si levava sull’oceano.
Quell’America che l’uomo teneva in un cassetto da una vita, un indirizzo scritto di inchiostro sbavato sul retro di una busta ingiallita.
Viaggi di carta. Leggeri e impalpabili come le scie di aerei. Porcellane d’ossa.
E l’America. Di là del mare.

mercoledì 15 ottobre 2008

TERZO GIORNO, SCIROCCO



L’orlo dei pantaloni bianchi pescava nella risacca e il vento faceva aderire il tessuto alle gambe.
Signorina Cotò sfilava nella spuma increspata sullo sfondo del cielo limpido e vuoto di nuvole.
Avanzo d’autunno, parlandoti, con te così avaro di parole a volte. Un acrostico rimasto impigliato tra ossi di seppia e vuote conchiglie.
Chissà una rosa da conservare, ma già scuoti il capo.
Dividiamo una pagina di Miller, mi pare, mentre le foglie delle viti si fanno dorate, scampolo di una stagione che avanza e ci avvolge, come la fodera di una giacca parigina.
Signorina Cotò sfidava le onde e la notte incrociava i contrabbandieri di sigarette venuti dall’Albania.
Le palme scarmigliate annunciavano il vento di caduta: terzo giorno scirocco, da annotare sul calendario dietro alla porta, tra le stampe di Pino Pascali.
Mescolavo sabbia alle tue caute parole, così da trattenerle per conservarle nei gusci di lumaca, ad attendere la pioggia, per far germogliare la mia rabbia e il tuo perdono. Ancora.
Poi sfiniti restavamo fermi sulla veranda di fronte all’oceano, i miei piedi che ancora calpestavano sentieri d’Africa.
Voglia di fragola, una macchia sulla pelle, da seguirne i contorni e immaginare una farfalla.
Vola.
Guardavamo le vele sfidare lo scirocco, l’American’s Cup, come la Parigi-Dakar.Bevendo il caffé nelle tazze di Gerusalemme. Comprate al mercatino di Portobello, la domenica mattina.
Tiravano in secca una barca, a fine stagione, Signorina Cotò, c’era scritto sullo scafo.

sabato 4 ottobre 2008

Strada Santa Teresa delle donne




Il molo srotolava il suo nastro di cemento come un’appendice di terra putrida verso il mare, che respirava l’odore delle casse del pesce appoggiate alle barche.
Le reti riposavano al sole le fatiche dei pescatori.
Anche Vito era un pescatore, portava una fasciatura sul braccio sinistro. Un incidente con qualche attrezzo, ma lui preferiva raccontare di un grosso pesce che lo aveva aggredito mentre cercava di levare l’ancora vicino a una secca. Una buona storia, credibile dopo qualche bicchiere di rum, da Fra Diauue quando fuori il cielo si faceva di piombo e le case allungavano le ombre sul borgo antico.
Il gatto sonnacchioso stava seduto impettito sulla porta dell’osteria. Davanti a lui due tazze, una per il cibo e una per l’acqua.
La nonna di Nico scendeva lungo il vicolo tenendo stretto lo scialle sulle spalle e un segno di croce in tasca, davanti a Santa Teresa delle donne.
Strano posto, arroccato al di qua del mare, come un’isola, per scambiarsi le sorti di una città, una torta da dividersi tra famiglie e onore. E storie sussurrate sui portoni delle case a un cenno di intesa.
Non si scrivono i cognomi dove le parole scivolano come acqua di mare. Lasciando solo colature di sale sui vetri.
Quelle stesse vie, fatte di panni stesi tra i vicoli, come bandiere, si riflettevano negli occhiali da sole del ragazzo che camminava di fretta. Le stesse lenti che poche ore prima, al di là dell’oceano specchiavano i grattacieli della metropoli che amava.
Sulle labbra l’ombra delle onde e la sua oasi di sole, tutta italiana.
Un colpo esplose nell’aria, alzò lo sguardo seguendo lo sbattere d’ali dei colombi impauriti. Come applausi a teatro alla fine del primo atto. Si dorme bene allo spettacolo di mezzanotte con il biglietto ridotto.
Qualcuno aveva sparato. Spiavano le imposte socchiuse, trattenendo il respiro, tacevano gli usci sbarrati.
Arrivò la polizia, annunciata dal suono lamentoso delle sirene. Ma ormai era già tutto concluso e gli elefanti sulla basilica guardavano giù dalla muraglia, verso il mare.
E a lei sul polso il segno del tempo e del suo passare, chiuso nel gioco geometrico delle lancette dell’orologio. A barattare un attimo con l’eterno. Perché Parigi stava nella fodera del cappotto, come la carta avanzata di un cioccolatino, nelle tasche.

mercoledì 10 settembre 2008

11 Settembre. Era l’America


“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”

La mia finestra su New York si apre su uno squarcio di cielo che lo sguardo riesce a ritagliare in quella corsa in verticale fatta di grattacieli, di appartamenti incasellati uno sopra l’altro, di persone, sopra le persone, sopra le persone, su su, seguendo il numero dei piani sul display dell’ascensore.

La personale conquista del cielo dei magnati, degli uomini del petrolio, dalle foto d’epoca che ritraggono operai appesi a colazione su lastre d’acciaio, lo scheletro di nuovi dinosauri, ai ponti in equilibrio perfetto di uomini sulle auto di auto sulle navi, di navi sui treni.

Già perché questa è l’America, questa è New York, Big Apple , mangiata nel suo interno da un grosso verme, la metropolitana, che raggiunge ogni angolo più lontano, il Bronx e Long Island, gli Heights e Wall Street, collegandoli, creando una rete di scambi che sulle cartine sembrano il complicato intreccio di cavi e fili elettrici, non la via sotterranea di una metropoli.

La città che respira uno scarto di odore di mare e sbuffi di vapore, quel che brucia dentro.

Incrocio gruppetti di persone a fare jogging la domenica mattina a Central Park mentre sorseggio un caffé, nel bicchiere di cartone di Starbucks.

Indovino le bandiere che distinguono i volti e le nazioni di migliaia di uomini, dagli occhi a mandorla, dalla pelle color cioccolato, da quel caleidoscopio di razze di nuovi cammellieri e saggi venditori di datteri.

E ogni volta che esco dalla metropolitana a Wall Street, immancabilmente alzo lo sguardo e cerco di colmare il vuoto sul cielo e di abituarmi allo skyline cambiato, deturpato, come una cicatrice invisibile che si è portata via piani e piani di scrivanie, di uffici, di persone e persone e persone tra calcinacci e vetri frantumati. Un gigante buono piegato su stesso colpito al cuore. Muezzin sulle torri a chiamare alla preghiera. L’unica cosa che resta. Mentre un portoricano vende giornali all’angolo di Morris Street e si fa la fila per pranzo dall’indiano che cuoce gli hot-dog all’ombra del presente sopravvissuto. Di un luogo che è tutti i luoghi. Di una città che è tutte le città.

domenica 7 settembre 2008

Bengasi a lume di candela



Di Danys Finch-Hatton si è detto:

“Può calpestare uomini inferiori con la sua lingua. Può punire con una parola- e questa è un’abilità meravigliosa.”

Lui soleva ripetere le parole di un sonetto:

«Credo che potrei morire contento in un tramonto a Ngong, guardando le colline che sfumano i loro magnifici colori sopra la cinta scura delle foreste...»

“Devi mutare il tuo canto luttuoso in un ritmo gaio; non verrò mai per pietà, ma per piacere”

Ma sa l'Africa una canzone che parla di me? Vibra nell'aria della pianura il barlume di un colore che io ho portato, c'è fra i giochi dei bambini un gioco che abbia il mio nome, proietta la luna piena, sulla ghiaia del viale, un'ombra che mi somiglia, vanno in cerca di me le aquile del Ngong?" (Karen Blixen - da "Out Of Africa").

Bengasi, 1931

Aveva portato tante persone in Africa con lei, lasciando impronte sulla terra rossa, volando sugli altipiani, di quando in quando.

Denys l’avrebbe portata via.

L’Africa è un fuoco che ti brucia dentro, l’inclinazione esatta dell’Equatore, la curva di un sorriso.

Viverla, afferrarla, sapendo che se ti allontanerai, tornando la troverai diversa, e lei, la terra, ti avrà dimenticato.

Perché sei solo un passaggio, ad ovest, poco più in alto della notte.

La perla nera di un continente, di segreti sgretolati la sera, sotto un cielo che racconta di una sola stella, la Croce del Sud, di un’unica via, lo stesso linguaggio.

Tam-tam di tamburi nell’ombra, la sua notte, desolata e perfetta, malinconica come il ritorno capriccioso delle maree a lasciarle scoperte le gambe.

Di rumori amplificati e vicini, di un vento tormentato.

Romantica cantilena di bocche a versare gocce di swahili accanto al fuoco.

Denys era parte del tutto, tracciava la linea perfetta di una mappa, partiva per mesi, tornava impolverato e distratto e leggeva libri.

Non capì mai se quello che raccontava lo aveva vissuto o letto nelle pagine stropicciate di un testo invecchiato.

Oggi sa che quello che leggeva lo viveva alla perfezione, lo calzava come un guanto, per rovesciare su chi incontrava, spettatori a teatro, attimi eterni, come chicchi di caffé, se ne sentiva l’aroma, di polvere e libertà.

Volava con il suo aereo, un Gipsy Moth, e di lassù trovava sempre la rotta perfetta, la linea di fuga, la libertà mancata a terra.

Una scommessa: Nairobi-Bengasi-Copenaghen.

L’avrebbe aspettato a Bengasi, se avesse coperto la terra d’Africa in quei tre giorni, sarebbe andata con lui a Copenaghen.

Condizioni di volo perfette, sotto di lui, l’Africa, distesa e viva, dannata e nuova ad ogni alba.

Viaggiare soli in Africa sulle ali di un piccolo aereo è l’esperienza di totale abbandono a se stessi, sì, penso sia lì che ha capito che esiste l’anima.

I chilometri si intrecciavano, il paesaggio in alcuni punti si faceva uguale a se stesso, le nuvole, i segmenti delle strade si snodavano, nessuna strada.

I massicci e il deserto.

A volte soffia il vento, e le ali tremano, la polvere arriva sin nella piccola cabina.

Si sa, lui è il vento dispettoso, che cambia i paesaggi e non sai più dove ti trovi.

Bengasi, Berenice, Hesperides.

Sporca, spazzata dal Ghibli, scolpita di rumore e volti, girandola di colori.

Arrivò un telegramma: “Denys sarà qui stanotte alle 2, aspettarlo sulla pista”

Guardò il cielo tingersi di rosso nel silenzio di un pezzo d’Africa tatuato sulle labbra, Jacob la osservò nell’ombra, aspettando.

“Vorrei che mi trovassi delle candele” disse.

“Ma…Memsahib, non vuoi andare sulla pista ad attenderlo?”

Sorrise.

“E dovrei perdere l’occasione di cenare a lume di candela su questa terrazza, davanti al golfo della Sirte? Denys conosce la strada”

Dopo un po’ le fecero avere le candele.

Restò ancora a respirare il Mediterraneo, senza luna.

Poi arrivò sulla pista avvolta in una coperta Masai.

Accese una candela, e restò nel cerchio rovesciato della sua luce.

Finchè non si spense.

Mezzanotte

Un’altra candela.

Si alzò il vento, dannazione, non sarà facile portare il Gipsy sulla pista.

L’una

Raccolse tra le dita, ragnatele di rughe, solchi di lacrime, di giorni miseramente rotolati come infuocati tramonti, lasciando in cenere il ricordo.

Tutti i loro ieri

Tutti

Ieri

Candela

Ancora niente.

La caduta di vento lasciò l’aria muta, spezzata sulle ali, la forza del motore e nell’ombra un nuovo nemico: sabbia e vento.

La via giusta del vento a favore e la scommessa con polvere di deserto, che si infila ovunque, distrugge, blocca, lascia macchie indelebili.

Le due

Il cielo, occhi a scrutare l’oscurità.

Le fiammelle danzarono nella lampada antivento.

Il silenzio carico di attesa.

Le due e un quarto

Morse piano il labbro, calcolando il tempo, il vento, la notte.

-No, Denys non sbaglia.

Vento

Un pugno di sabbia può fermare il suo volo.

Perché la morte è un gatto a nove vite, come il suo esistere.

Una cartina nelle mani è l’atto di assoluta fiducia di un uomo in un altro uomo: quella è la via giusta.

Guadagnare l’Europa in un passaggio d’Africa, un domino ad incastri la vita.

Ha in mano il passaggio per l’Europa (lei).

Ha ali per farlo (lui).

Ma è notte, a Bengasi.

La voce gracchiò alla radio, attoniti e stropicciati gli occhi in quella notte africana.

Lo prese sottobraccio, l’unico locale aperto era oltre le mura, le assi dei tavoli erano coperte di muffa e sul pavimento si muovevano scarafaggi.

Appoggiò la lampada su un tavolo e gli sorrise, a lume di candela a Bengasi, 1931.

Quando ti muovi alla velocità della vita scontrarsi è inevitabile.

Lei, era la morte.

L’aereo di Danys era decollato dalla pista del Distretto di Voi, nello Tsavo National Park,

il 14 Maggio 1931,

aveva girato in tondo

due volte,

poi era piombato a terra dove si era incendiato.

Nessuno seppe mai perché.

sabato 16 agosto 2008

Sii dea, sii rupe, sii sarcofago. Oh mia Eniathia





“Iniziava quindi un triduo di lamentazioni, accompagnate dal suono dei flauti ricurvi e dalle urla cadenzate dei Galli, i sacerdoti delle divinità. I discepoli di Attis”
La seta mossa appena dal vento si drappeggiava sugli scogli lasciando intravedere il piccolo piede bianco. Scalza Eniathia rapita dalla furia delle onde.
Lo Scoglio del Tonno era un luogo che amava da bambino, quando raccoglieva conchiglie fossili, figlie del tempo e dell’acqua.
Le commesse del centro stavano sedute sui gradini dei negozi.
Noi eravamo invisibili.
Gli alisei modellavano le rocce sottocosta di grotte e anfratti, il rantolio del mare di mezzogiorno.
E le cicale si stavano zitte. Zitte, zitte.
I solchi lasciati sulla strada dalle ruote dei carri, le monete perse dai viandanti, canti antichi, avanzi degli dei, ossi di seppia. I passi scalzi di polvere.
Mangiavamo frutti di mare nascosti nella cucina di un ristorante.
I muretti a secco definivano i bordi della strada bianca. Si levava l’odore di fumo. Lontano, nella campagna bruciavano le stoppie. Da qualche parte un campanile piangeva. Indovinammo mezzogiorno, contando i rintocchi.
I passi scalzi sul molo, ricci di mare a pungere le dita di un bambino. I panni stesi nei vicoli, il cicaleccio delle donne. Ricordi.
Il tempo ci invecchia e le rughe spaccano la pelle come mosaici sbiaditi. Le tre Grazie a fare l’autostop sulla 16 bis.
Il fruscio delle serpi nei muretti vegliavano quel tempo dell’attesa e il veleno ai bordi delle coppe e gli spiriti arresi nei sarcofagi sul mare a far crescere alghe putride.
Le amanti che vanno a chiedere scusa anche a dio.
Sacerdotesse e schiave immolate alla parola di incensi e zolfo dalle spaccature della terra.
Egnathia si protendeva sulla rupe come fosse l’ultimo dei suoi giorni, amante ritrosa a sottrarsi alle lusinghe dell’Adriatico. Mare Nostrum.
Amante perduta Eniathia, dal nome gentile, di sesso sottocosta, incrostato in otri dei venti del sud, ora giacevano a 30 metri. Figli degli dei.
Parlavi come Neruda nei tuoi gesti attenti dopo l’amore.
Segreti fusi in statue d’oro, preghiere e sillabe a tremare parole smozzicate.
Dove giacciono oggi le bianche colonne, le tue braccia tese oh Egnathia?
La musica pioveva dalle finestre “Donna se vuoi, sai tenere in pugno anche gli eroi…”
I piedi bianchi sul limitare degli scogli, solo un attimo, poi i bambini si tuffavano nel riverbero accecante. Maschera e boccaglio per una nuova caccia al tesoro sul litorale egnatino. Come i pirati alla TV.
Tombe sconsacrate sul bordo del mare e impietoso il lavoro del vento. Ma non si cancella il tuo passo di pietra.
Ancella al vespro che si affaccia alla sera, tu sulla porta di un tempio sconsacrato: la voglia.
Sacrificami alla parola arresa. Nessun altare su cui pregare.

venerdì 1 agosto 2008

Villa Elina e “Broccolino”, nel nome del padre



Si vedeva dalla strada, non servivano indicazioni.
Era avvolta dai campi grano e capovolti mazzi di papaveri ai bordi dei fossi.
L’abbraccio protettivo e misterioso di quegli alberi grandi, pini marittimi ed eucalipti la celava un po’agli sguardi indiscreti.
La ricerca di ombra dalla calura, i giochi dei bambini, i gelati, il lavoro paziente al tombolo.
Quando parcheggio davanti all’ingresso Donna Marita è già lì, seduta sul muretto con un fazzoletto sulla testa e la mano a proteggere lo sguardo dal sole.
Ha fianchi appesantiti dai 4 figli, e gambe gonfie per la cattiva circolazione.
Mi accoglie con un abbraccio che sa di mare e torta di mele. Un po’ si commuove e scuote le mani al cielo mentre fa scivolare via il pesante catenaccio che tiene chiuso il cancello. Lei ha la chiave. Resta l’unica custode e la memoria del tempo. Di anni e segreti tra queste mura.
La ghiaia scricchiola sotto i nostri passi sul viale ombroso di Villa Elina.
Due scale laterali si alzano sulla porta principale. Le finestre sono sprangate con pesanti assi di legno, a chiudere un segreto che filtra dai vetri come pulviscolo luminoso.
Il segno pesante di chi ha vissuto qua.
Facciamo il giro intorno.
Sta collassando su se stessa la struttura di ferro della serra.
“Le orchidee non erano fiori per questa terra di calura, ma in inverno fiorivano era l’estate la loro incognita. Donna Carmen però le adorava” Marita ricorda e attraverso le sue parole alzo il lembo di una tenda pesante, il sipario calato e scuro sul passato remoto.
La cisterna dell’acqua ha lunghe colature di calcare e ruggine. Ninfe decapitate le statue di pietra avvolte di edera, di muschio e di muffa.
Qua e là fioriscono i ciclamini selvatici.
Ci sono i sigilli alle porte. Ma anche i segreti hanno le loro serrature.
Entriamo da una piccola porta celata sul muro. Donna Marita non ha solo la chiave. Ha la maniglia e la appoggia sul muro dove c’è un foro. E la parete cede sotto la pressione della mano sapiente. Mi guarda come a condividere un segreto.
Di porte così e passaggi segreti crollati queste ville ne hanno a decina e se non conosci il gioco rischi di rimanere murato per sempre in uno specchio, dietro una colonna a fare il fantasma in notti di luna piena e fuochi fatui.
La scaletta di pietra scende per una rampa poi un’altra porta e si accede alle cucine.
Rifugi di guerra, cunicoli di fuga in anni di incursioni.
L’aria è calda e ci accoglie la penombra.
Restano appesi a chiodi grossi e arrugginiti pesanti utensili curvati dal tempo e dall’usura.
Nicchie che fungevano da dispense. Contenitori scavati nella pietra.
Una sedia appoggiata al muro. Una gamba spezzata. Grosse ragnatele filano dal soffitto.
Altre scale, fino al salone di rappresentanza.
“Doveva essere sempre lucido questo pavimento” la voce di Donna Marita mi fa abbassare lo sguardo sulle mattonelle di marmo chiaro, venate appena da striature nere. Sentii per un attimo il rumore dei tacchi e la sinfonia di un orchestra del tempo che fu. Come un carillon interrotto.
Quadri bui di antenati impettiti ci osservavano.
Per ognuno di loro Donna Marita ha una storia. Qualcuno lo aveva anche conosciuto.
La storia che più amavo era quella di Elina.
Il suo quadro era appeso in quella che un tempo fu la biblioteca.
Era ritratta quando doveva avere avuto 16-17 anni. I capelli sottili biondi sfioravano le spalle. Il viso era sostenuto da un collo alto che sbucava dalla camicia austera che si stringeva sul suo petto florido. Sembrava un bucaneve appena sbocciato.
Sedeva impostata come si conveniva nei ritratti di famiglia. Un cane, un setter stava molto più quieto ai suoi piedi.
“Era un’irrequieta. Si innamorò di un giovane squattrinato. Ma lo fece per far la ribelle, perché si annoiava tra cipria e balli in giardino. Scappò con lui e andarono in America. A Broccolino”
“Brooklyn, Donna Marita. Era Brooklyn”
“Eh. Io cosa ho detto. A Broccolin”
Rido, e un tintinnare di argento e calici mi fa voltare. Da una finestra rotta entra una folata di vento che fa oscillare il lampadario di cristallo.
Marita mi osserva di sottocchio un po’ offesa. “Posso continuare o non vi interessa?” domanda.
Faccio cenno di sì con il capo.
“Ah, la famiglia non si riprese mai da quel gesto. La signorina Elina, l’unica che portava il nome della trisavola, finire così. Immigrata a vendere il pesce dall’altra parte dell’oceano”
“Ma non tornò più qui?”
“No. Il padre l’aveva ripudiata. Non potè tornare, nemmeno per il funerale. Una volta le cose andavano così.”
“Chi l’ha dipinta? Il pittore intendo, è ancora vivo?”
Donna Marita ci pensa un po’ su, poi fa cenno di sì con il capo.
“Ma è vecchio. Vive in una casa di riposo. Ha l’alzaimer”
Mentre torniamo indietro sento pesante il ricordo, un po’ di malinconia che non riesco a spiegarmi.
Le porte si chiudono dietro di noi. Ma i ricordi, il loro parlarne, il risvegliarsi di anime, mi fa compagnia mentre entro in casa di Marita.
Ora è in pensione. Era stata a servizio della villa quando era giovane. Mi offre una fetta di torta e mi dice di farmi vedere più spesso, che alla sua età non si sa mai.
Decido di tentare e cerco il pittore del ritratto.
L’inserviente della casa di riposo mi accompagna nel giardino. Un signore magro, con pochi capelli bianchi e gli occhi attenti osserva altri anziani giocare a Burraco.
“Signor Fiorenzo, c’è una visita per lei”
Mi osserva incuriosito. Decido di andare subito al dunque. Gli racconto di Donna Marita, di Elina e gli domando se sa dove vive e se è ancora viva.
Sospira. E un sorriso scopre i denti mancanti.
“Quanto tempo. Lei mi fa ricordare quanto sono vecchio” sospira ancora, tossisce, si guarda intorno con fare cospiratore e poi mi dice: “L’ultima volta che venne qui fu per la festa della Madonna, l’8 Settembre. Ci vengono ancora gli americani. Cioè quelli che da qui sono emigrati.
Era una bella donna distinta. Il marito era diventato un pezzo grosso, là in America. Erano partiti come pescivendoli, poi il mercato passò nelle sue mani. Eh, che bella soddisfazione. Aveva perso la villa e i suoi tesori, che per me altro non erano che debiti accumulati e la facciata di apparenze.”
Poi si interruppe, fu scosso da una tosse violenta.
Riprese: “L’ultimo indirizzo che ho è 46 Broadway & Rector St a Nuova York”
“È sicuro?” domando.
“Certo, sono vecchio, ma il passato me lo ricordo bene. So che pensano che sia malato. Alzaimer lo chiamano. Ma a me sta bene così. Non devo preoccuparmi troppo in questo modo. Alla nostra età qualcosa lo dobbiamo pur avere. A me han dato questo Alzaimer.”
Resto ancora un po’. Quando sto andando via mi raggiunge la sua voce: “Ci andrà? Andrà a Nuova York?”
Torno indietro e lo guardo curiosa, “può darsi” rispondo vaga.
Fiorenzo annuisce. “Entri al Flatiron c’è un quadro che le piacerà all’ingresso”
Sento che sa molto di più di quello che mi dice, come sa bene che si è guadagnato un’altra mia visita.
Mentre lascio questa terra di ulivi e mare, di terra generosa e antiche ville, lo sguardo dal finestrino dell’aereo che sorvola Palese abbraccia un angolo di Italia che so gli emigranti han portato tatuato sulla pelle.
New York mi si para davanti agli occhi mentre il taxi percorre la strada dal Queens.
Manhattan, è la mia isola che non c’è, un posto magico.
Il cielo è chiaro, dalle feritoie sull’asfalto le fumarole si levano come anime inquiete.
Mi fermo a comprare un hot-dog. I miei preferiti sono su Canal Street, ma anche qui nella zona di Wall Street non sono male.
L’indirizzo è vicino a Trinity Church.
Ho un tuffo al cuore, c’è davvero il nome di Elina.
Mi apre la porta una cameriera orientale e mi spiega che la signora Elina è al piccolo cimitero attiguo a Trinity Church, va sempre lì a dare il pane secco ai passeri.
Quando la raggiungo non ho dubbi. Il collo alto avvolto da rughe come collane di perle. I capelli bianchi, le braccia coperte dall’intreccio di vene sottopelle. Un bucaneve avvizito.
Le parlo in italiano.
Mi propone di prendere una bibita. Ci sediamo in un locale all’aperto.
Non bado all’espressione curiosa del cameriere quando domando due limonate. Né agli sguardi stupiti degli avventori che mi vedono parlare da sola.
Prima di tornare in Italia entro al Flatiron.
Un portiere mi saluta ossequioso.
Scorgo un quadro. O meglio, una finestra. È Villa Elina. C’è una coppia ferma sul cancello. E nel viale giocano dei bambini, sullo sfondo una festa. Riconosco Elina in quella coppia, e indovino sia il marito l’uomo che le è accanto.
Anime.
E Broccolino, nel nome del padre.
Mi incammino lentamente verso la villa, la ghiaia scricchiola sotto i piedi.

venerdì 18 luglio 2008

Il dio degli gnostici


Abrázame
Y no me digas nada, sólo abrázame
Me basta tu mirada para comprender
que tú te iras –Julio Iglesias-



Le note del violino colavano dai muri, quel pomeriggio afoso di controra. Quando il mendicante nomade passava nell’ombra del borgo antico. Accarezzando le note malinconiche di un tango argentino. I gerani rossi alle finestre, i giochi fermi dei bambini, il brusio di una TV accesa.

L’ombra del borgo era un’ampolla chiusa e trasparente, ovattata di silenzi, di segreti pubblici, di misteri consumati come rosari e lunghe gonne nere testimoni di un lutto.

Il sole a picco entrava nelle rovine che ancora sfidavano il tempo, rovine che il verbo passato chiamava chiese. Lo testimoniavano le colonne, o quel poco che di loro restava, e il transetto chiuso dal muro di una casa dove le donne stendevano i panni ad asciugare. E il muschio che cresceva tra i tasselli mancanti di un mosaico.

Una pausa, tra l’apostrofo e la parola, questo era il borgo.

Poi c’era il porto, la strada e si arrivava veloci, fuori dalla città.

Il frinire incessante delle cicale entrava dal finestrino dell’auto, sulla statale 16 bis.

Il blocchetto con il appunti segnati a matita stava lì, sul sedile a fianco. I numeri, le “x” di incognita ancora cerchiate e isolate. Potevano essere tutto, una vocale o una consonante, un numero, un più o un meno. O il semplice segno come sulla mappa del tesoro “X”, qui, ici.

I numeri rotolavano come in una slot-machine, per fermarsi esatti sulla data e sull’ora, lo scarto di 60 minuti, calcolando anche l’ora legale.

Tamburellavano le dita sul volante, la musica riempiva l’aria, ma nelle sue pause, dalla terra arrivava il cicaleccio delle cicale.

Ossessivo, nel suo perpetuarsi incurante della calura.

La masseria del Monsignore aveva uno squarcio profondo nel muro portante. Scritte fatte con la vernice. La nuova arte di strada. I rovi stavano invadendo tutto. Qualcuno aveva acceso un falò, c’erano ancora i resti scuri e neri, e la cenere.

Sudavano le foglie delle viti.

C’era uno spazio vuoto all’apice della cappella, che colmai con il ricordo di una campana, arrugginita. Caduta o rubata?

Non avrei trovato risposte lì, solo una manciata di indizi che confermavano che la strada era giusta.

Il gozzo sarà Nakabaa

I Macabei. Sì dovevo appuntarlo, un paio di ricerche. Anzi guardando l’orologio e con un po’ di fortuna avrei trovato la biblioteca aperta.

La strada bianca scendeva dritta al mare.

Lì la vita scorreva nell’ora dolce del tardo pomeriggio, la spiaggia, i suoi bagnanti, i ragazzi che giocavano a calcio balilla in costume e con i capelli bagnati, i bar all’aperto, come su in Costa Azzurra.

Come la Provenza che conserva le mie radici in un piccolo cimitero del Dipartiment du Var.

Curioso, anche là frinivano le cicale.

Via Franchigena e via Traiana cercando dio. Trovando più spesso demoni e falsi dei.

Ormai non cercavo più “segni”, c’erano stati, ora dovevo solo trovare. Se solo avessi capito cosa stavo cercando.

Negli anni avevo salito il mio Golgota personale, in ginocchio sul cammino di Santiago.

La verità era ancora celata, tra altari barocchi e piccole cappelle abbandonate.

Non trovai nulla di rilevante e la biblioteca era calda e soffocante.

Uno sguardo all’orologio, c’era tempo, ma un po’ di anticipo mi sarebbe servito. L’uscita era una delle prossime, il traffico scorreva lento, diviso dal colore cangiante degli oleandri.

Scendevo al mare, all’ombra dei palazzi calpestando le chianche in pietra, quando la processione mi si parò davanti. L’eco funebre della banda che accompagnava la croce di un dio morto ancora.

Passò la folla, a sgranare rosari nel cammino inevitabile di questa terra.

Poi si aprì l’orizzonte al mio sguardo. Il bastione, il porto, la cattedrale. La cattedrale, il porto, il bastione.

Scrutai le persone, cercando un indizio, qualcuno sospetto, un gesto o un movimento che potesse in qualche modo guidarmi.

Nulla. Non c’era nulla lì.

Attesi seduta su un ceppo dove ormeggiavano le barche.

Alle 20,00 mi incamminai scalza fino al molo 19. I gabbiani lanciavano richiami. Le rondini volavano basse cibandosi di insetti.

Tornai che era notte, la luna piena entrava dal finestrino laterale con l’aria più fresca. Le cicale si stavano zitte.

Era necessario fare tutto da capo. Doveva esserci un baco nel sistema, un errore, qualcosa di cui non avevo tenuto conto. Fu allora che lo vidi, un’ ombra che allungava la mano facendo l’autostop.

Rallentai guardai il viso, lo sorpassai frenando. Lo vidi alla luce degli stop, nello specchietto retrovisore mentre facevo retro marcia. Ma lui non c’era più.

Molto lontano nella campagna, un gallo cantò.

Tornai all’auto, lo sportello era rimasto aperto. Ma non solo quello.

Mentre tornavo a casa con la notte tenevo per le mani la mia risposta. Abra cadabra di una porta aperta.

Attesi quel lento sciamare di anime.

Un giorno dopo l’altro.

Che un dio stanco aveva lasciato scappare.

domenica 13 luglio 2008

La vie en rose



Certi mattini ti svegliano con la fretta e la nostalgia che deprime il cuore.

Gracìa passò la mano sullo specchio, per togliere via l’opaco di umidità creato dall’acqua della doccia.

Il suo riflesso non le sorrise, di una ruga stretta sulla fronte, quasi la rabbia, svegliarsi triste.

Appoggiò l’accappatoio sulla parte libera del letto, come a consolare un’assenza di lenzuola disordinate e vuote, a tradire che da sola aveva dormito la metà del letto.

Prese le prime cose che si affacciarono dall’anta dell’armadio, evitando lo specchio.

Tornò indietro e afferrò la cintura, sorridendo tra sé a una sua vecchia battuta:

-Non hai la cintura, praticamente è come se fossi nuda-

La vie en rose,

che percorreva distratta dalle note della radio, la mattina, mentre scendeva lo sguardo verso il mare, che sempre portava in porto una qualche nave, carica di speranze e di sogni.

Lei le navi le accompagnava per mano, le vedeva nascere e morire, era il suo lavoro.

Addomesticava il mare.

Stravaganze di pensieri da girare piano come zucchero nel caffé e titoli dei quotidiani sfogliati di passaggio, già scordati, come inserti che restano lì, per mesi sull’angolo di una presenza,

perché sappiamo più cose inutili di quante non sono necessarie.

L’oroscopo ancora a prenderla in giro:

“Incontri improvvisi e nuovi voli da salvare”

Scuotendo la testa, che chi cura certe rubriche gioca a metà, tra pianeti distratti in collisione con quel che vorremmo e voli pindarici di fantasia.

Chissà, forse poesia.

Pensò alle poesia guardando i pini marittimi sfilare sul mare, quelle imparate a scuola, quelle che restano dentro.

La vie en rose,

si snodava dolcemente al parapetto di illusioni che si tengono come ricordo, per non dimenticare, il segnalibro tra le pagine stropicciate di giorni tutti uguali, casa, ufficio, strada, polvere, supermercato, chiesa, di quando in quando in cori d’organo e ostie a metà.

All’improvviso svoltando un vicolo lo vide, chiuse gli occhi un attimo, certi scherzi la vista te li gioca, complice il caldo, ma quando Gracìa li riaprì era ancora lì.

Un gallo, ma uno vero, con le piume colorate, la cresta e i bargilli rosso sangue.

Camminava, saltellando guardando il mondo dal basso verso l’alto, incurante delle auto, della gente, della donna al quarto piano che stendeva il bucato incredula e divertita.

Un gallo, ma uno vero, in città, notizia da raccontare a spettatori increduli e divertiti.

Gracìa chiamò i vigili, che intervennero per catturare il volatile, perché non fosse ferito o ucciso dalle auto.

Ma il gallo corse via, passando accanto a Gracìa, aprì le ali volò sul parapetto e planò nel fiume, dove anatre selvatiche tagliavano la scia dell’acqua con il loro passaggio.

Lei sorrise e salì in auto, abbassò il finestrino, faceva caldo, era stanca e sorrideva.

Semaforo rosso

La vie en rose,

il tempo dal rosso al verde, per cambiare la sua vita, o per farle il dono di una carezza.

Il ragazzo con la maglietta grigia e il coccodrillo sulla destra si affiancò.

Lacoste

La costa era il luccicare di ultime onde, sul tramonto.

-Posso dirle una cosa?-

Lei lo guardò incuriosita: -Mi dica-

-Ma lo sa che è una bella donna, glielo dicono mai?-

Rise e scosse il capo, quel mattino non si era neppure truccata, per fortuna aveva almeno la cintura a disegnarle la vita, se no, se no è come se fosse uscita nuda.

A spogliarla con gli occhi ci pensò lui, la metà dei suoi anni, il doppio del suo credere ai sogni.

-Le posso offrire un caffé?-

-No, grazie-

-Ma è sposata?-

-Sì-

-Felicemente?-

-Sì-

-E…-

Semaforo verde

La vie en rose,

che a volte gli oroscopi hanno ragione, è questione di pianeti e congiunzioni.

E,

congiunzione,

di due periodi.

-Io lavoro al ristorante giapponese, quello sul porto, la aspetto-

Le auto sfrecciarono via, mentre lei scosse il capo.

Quella sera tracciò con cura la linea sotto gli occhi, passò l’ombretto sfumando in angolo, disegnò le labbra, raccolse i capelli,

alti, sul capo.

Lasciò scivolare l’abito di seta sulla pelle,

la vie en rose,

profumi a gocce dietro l’orecchio,

ad aspettare sussurri.

Il porto si beava sul mare di quell’ora luminosa prima della sera.

Il sushi è pesce crudo, tipico della cucina giapponese, affacciata sul mare una candela si consumò.

La vie en rose,

des nuits d’amour

à plus finir

Gracìa passò la mano sullo specchio, per togliere via l’opaco di umidità creato dall’acqua della doccia, poi lasciò cadere l’accappatoio accanto ad un altro, nel disordine stropicciato di certi letti, il mattino dopo, che non hai dormito, ma la pelle ride e non serve la matita sotto gli occhi.

Importante una cintura, in vita, perché senza sarebbe come essere nudi…e nuda lo era stata tutta la notte, sulla discesa della via en rose,

e un coccodrillo, sulla maglietta…




a un'amica

Il ceramista del Giardino di Boboli


Il collezionista di ceramiche viveva al Giardino di Boboli, nel lento cammino dei passi perduti sulla scia di fontane e il frinire di cicale, tra ulivi e cipressi.

In ordine perfetto si posavano nelle vetrine tazzine da caffé nel lento giro del tempo che faceva equazione di volti screpolati e gli Sdruccioli dei Pitti, nella pagina rovesciata di guide turistiche e cartine per perdersi.

I ponti erano l’abbraccio di due sponde quando si raccontava di case abbandonate con persone abbandonate dentro dal balcone su quella città dalle vie strette che era Firenze.

Il Duomo rintoccava l’aria di mezzogiorno,

chiamava

San Lorenzo rispondeva.

Io ti dicevo: Ti amo,

e tu tacevi.

Tenevi il tempo di una cena a lume di candela in giro di sol tra le dita mentre la luna apparecchiava in quel che restava nei bicchieri, tra mezzanotte e note mezze scalze sugli Sdruccioli dei Pitti.

-Ti voglio liquida tra le mie dita

Mentre Mozart stava chiuso in un CD e tazzine da caffé di porcellana viennese.

Liquido il tramonto sull’Arno, liquida la luna da Ponte Vecchio.

Giro di sol, nel Giardino di Boboli,

quel caffé che a berlo ci abbiamo messo quasi un anno.

Caffé lungo.

venerdì 11 luglio 2008

Era solo un gerundio


Fummo già creta, costole della terra e di barbariche invasioni, prigionieri nell’odore di muschio e di sesso.

Passaporti

Che già seppellii briciole di ossa, quel che restava di noi dopo, per far nascere l’albero di un figlio, orfano di parole. Le avevamo già dette tutte nel lento disgregarsi dei nostri discorsi deliranti. Era solo un gerundio. Proposizione implicita. La malaria ci assaliva con ondate nere mentre affondavamo le dita come radici di mangrovie, sputando sale dalla pelle.

Pane azzimo quello scarto di presente coltivando un fazzoletto di cielo tra palazzi verticali. Zingare con i bambini in braccio, nuove madonne a mendicare.

Non ci indurre in tentazione

Solo un vecchio orologio da tasca batteva ritmico i minuti e le ore dal fondo di un cassetto dove ogni sera lo riponevi dopo aver dato la carica.

Le travi del soffitto piovevano polvere di tarli.

Fummo più vecchi, fummo amanti e acerrimi nemici e ancora amanti, nella tragedia umana del nostro sopravviverci.

Non ci indurre in tentazione

E quando terminò l’orgoglio, quando avidi bevemmo l’ultima goccia di liquido seminale, quando il cuore guarì i lividi, arresi ci amammo.

Con passione e furia, con l’urgenza di un tempo avverso, non nostro, era solo un gerundio.

Al vecchio monastero di Colonna i pescatori riponevano le reti.

Istantanee

Così, sfiniti amanti, passandoci uno zuccherino al laudano su labbra livide.

Così guarderai le mie curve morbide come le donne di Botero.

E l’amore di parole lavate con il sapone di Marsiglia, appese al collo ad asciugare vergogna di schermaglie e regole infrante, come vecchie porcellane inglesi. L’ora del tè era solo un gerundio.

L’amore.

Che ci sconfessammo tutta la vita, negandoci l’odio, l’unico rancore che potesse salvarci.

E fummo schiavi della terra.

Arrivammo all’altare quando dio se ne era già andato.

mercoledì 2 luglio 2008

La curva di San Martino

Alla Contrada del Bruco



Il sole era rotolato dietro alle colline, lasciando in cenere la notte; tossivano le luci alle ultime finestre, si soffiava sulle candele fino a spegnerle.

Cera rappresa a creare fantasmi contorti.

Notte nera e senza luna, un uomo incappucciato camminava appoggiato al suo bastone, l’ombra di una falce sulla strada e un rosario da sgranare, di lamenti e tarli a consumare le idee.

La città dormiva quando bussò alle sue porte.

Chiuse

Dormivano le sentinelle, languiva il fuoco tremando ombre sui muri.

Bussò infrangendo le dita sulle borchie di ferro e aloni di ruggine.

La zingara girava i Tarocchi.

Il Carro

Dal cappello la massa incolta

spioveva sul viso.

Lui, ora fantasma

prigioniero di fogli pigri di polvere e inchiostro,

notte di vento

che la luna non è ancora sorta.

Beve dalle fontane

il tempo rimasto

a un sogno rubato dalle tasche di una zingara.

Note di vento

a giocare con le carte del destino

e dietro la collina

dei perduti domani,

una falce di luna.

Tarocchi.

Passi stanchi in Via degli Orti.

Il Destino sa aspettare, arriva poco prima di una scelta.

La Nonna vegliava nell’attesa del volo della civetta.

L’alba sussurrava alle contrade agitando appena gli stendardi, fremeva il giorno di attesa e ferri di cavallo.

Sabbia la piazza, valva di conchiglia, l’uomo col cappuccio mescolò cavalli e cavalieri nell’intreccio di una giostra.

-Il dado è tratto-

Medio Evo-Medio Regno

Chiese e confraternite a mormorare nell’ombra tra sacro e pagano e zoccoli di cavallo lungo la navata dove l’uomo col cappuccio consumava i suoi piedi scalzi, scheletri sul pavimento.

Rideva forte svuotando le acquasantiere, battesimo dei contradaioli.

Fuori, nel giorno a volgere le chiarine intonavano un canto antico, il mossiere lasciava cadere il canapo a terra.

Gira, gira la piazza che un uomo e il suo cavallo, zoccoli e polvere, un colore, una contrada, il cuore salta un battito.

Muscoli, nervi e testa.

Dove va la testa quando Bastiano alla curva di San Martino è ancora in testa.

Gira, gira la piazza e impazza la folla.

L’uomo col cappuccio si alza sugli spalti e tiene il tempo di un mistero glorioso. Palio dell’Assunta.

Vespro della sera.

Le rughe sulla fronte, le mani strette al Destino, polvere, un tamburo nelle orecchie, piegato a tagliare l’aria che la curva di San Martino cade, disarciona, uccide, il Drappo nelle mani, un cavallo capotavola, la notte quando l’uomo incappucciato cade in polvere sulla sabbia della piazza e la curva di San Martino è solo un pezzo di cerchio all’ombra della torre, quando si posano le sedie di un bar.

Un parterre di chi sa che esserci è un’altra cosa, tre minuti su un orologio, il tempo fratto la velocità in radice quadrata di un destino nelle tasche di una zingara.

Misticismo e religione di piazza, parole perpetue, Ave Maria e riti profani.

Medio Evo-Medio Regno.

Passa una zingara, impronte sulla curva di San Martino.

domenica 29 giugno 2008

Zucchero e cannella alla New York Public Library












Dedicato a Claudia Carucci







In fondo, la settima onda, è solo un’onda più alta delle altre

Zucchero e cannella in catalogo alla New York Public Library:

http://catnyp.nypl.org/search?/Xcardone&SORT=D/Xcardone&SORT=D&SUBKEY=cardone/1%2C41%2C41%2CB/frameset&FF=Xcardone&SORT=D&3%2C3%2C

Dalla prefazione:

(…) Il corpo resta e la mente prende il largo, aggrappata a quei gusci di cocco stretti in una rete da pescatore, sui quali Henri Charrière detto Papillon, scappò dall’Isola del Diavolo, gettandosi da una rupe. Anch’egli per quel tuffo, attese di rompersi sugli scogli della settima onda. L’unica capace di sospingere la sua rozza imbarcazione verso il mare aperto e mandarlo incontro alla libertà. -Claudia C.-

sabato 28 giugno 2008

La mia Itaca







Ho navigato acque agitate dalle tempeste, ritrovando a tratti, di Itaca, solo uno scoglio vestito di muschio sul volto notturno di una luna nuova.

Il mare nostrum di acquari e vele colorate a punteggiare l’orizzonte erano la compagnia mentre cercavo la mia Itaca.

Il vecchio Ulisse annodava le reti tra i pescatori sull’isola di tetti azzurri e gatti appisolati nei vicoli, ascoltando un canto venire dal mare.

Suonavano le campane di San Giovanni e la Gran Madre parlava.

I Cappuccini rispondevano. Come allora.

La mia Itaca è stata un pezzo di corallo, il riflesso perlaceo di una conchiglia che ancora conserva la mappa dei nuovi viaggi e all’orecchio, sordo, l’eco del mare. Che chiama.

Che chiama.

Come chiamò Ulisse.

La mia Itaca è terra di pensieri, lo spazio bianco tra le parole, la libertà barattata con una tempesta che fa vacillare l’anima, guscio di noce. Poi l’orizzonte, limite allo sguardo.

Al di là troverò Itaca.

Forse più vecchia, spopolata, il brandello di un’odissea lunga una vita.

Allora percorrerò la sua lunga spiaggia fino al tramonto e siederò con Ulisse e i pescatori ad annodare le reti.

Colmando lo spazio bianco tra le parole.

La distanza di un’assenza.

domenica 22 giugno 2008

Il venditore di tappeti sulla Promenade des Anglais

Scorcio della Costa Azzurra










Un pomeriggio afoso, i primi di Agosto, l’aroma di anice nei bicchieri sedute a un tavolino all’aperto sul lungomare, una manciata di chilometri da Genova.

Le gambe abbronzate, gli occhiali da sole appoggiati sul capo e sul tavolino numerosi depliant: per over-booking salta il viaggio a Montego Bay.

Rafaela e Gracìa propongono come alternativa un last minute a Marrakech, che ci fa recuperare anche un po’di soldi dall’assicurazione, che so già, spenderemo in inutili souvenir.

Una valigia per l’Alto Atlante di costumi e un dopo-sole (azzardato).

Gracìa inizia a raccontare la storia di un conoscente del nonno, un marocchino che gli salvò la vita in guerra e che ora vende tappeti sulla Promenade.

Poi il fragore di un tuono ci costringe a correre al riparo. Piove.

Il figlio di Rafaela ci accompagna alla stazione di Milano, in mosaici i pavimenti, conto i tasselli mancanti, erosi dal tempo e da valige da trascinare.

Mercanti improbabili e il peso di un aggettivo, da portarsi al collo, come il colore della pelle e reinventarsi un nome.

L’aeroporto, i turisti, il check-in, i ritardi.

Decidiamo per un caffé, l’ultimo “bevibile” da brave italiane esigenti.

-3 caffé–

-Uno macchiato–

-Uno con dolcificante-

-Uno leggermente lungo-

Il ragazzo dietro al bancone ci guarda e ride, avrà sì e no vent’anni.

Ridiamo anche noi rovesciate nelle vetrine dei duty-free.

Volo tranquillo tra riviste e libri a metà.

Amara sorpresa al nostro arrivo: i bagagli non ci sono. Dopo aver visto sfilare per l’ennesima volta l’ultima valigia sgualcita sul nastro ci dirigiamo al banco Lost &Found.

Compiliamo un paio di moduli.

-Visto che non era di nessuno, potevamo prenderci quella valigia…- inizia Rafaela.

-Sì e chissà cosa c’è dentro! Con la fortuna che abbiamo ci fermano in dogana- dice Gracìa.

Ci avviamo all’uscita. Piove.

Rafaela e Gracìa si voltano e mi guardano.

-Non piove mai in questi posti. Lo dicono anche le guide.- Mi difendo.

Andiamo a cena a fuori, dato che non dobbiamo passare in albergo a disfare i bagagli.

Il taxi è comodo, sa di nuovo, peccato che i sedili siano ancora avvolti dal cellophane, mi si incollano le gambe.

L’autista ci scambia per spagnole e mette su un CD, che racconta di un pianto a Gàlizia.

Il cibo speziato, le luci e complice la musica che inebria l’aria, ci ubriachiamo, tra respiri di narghilé e tè alla menta.

Perse nel souk a comprare vestiti da odalische.

Facciamo l’alba sulla terrazza del nostro albergo a raccontarci vecchi amori e amanti perduti.

Arrivano le valige e organizziamo la nostra vacanza alle porte del deserto.

Gracìa con i bigodini in testa, Rafaela con un’improbabile maschera al garofano e io lego una cavigliera a tener fermo un drago tatuato sulla caviglia, ombra di hennè.

L’ultimo giorno ci fermiamo a una fabbrica di tappeti, ci illustrano lavori pregiati, migliaia di nodi, il lavoro paziente di piccole mani, al telaio. I prezzi sono esorbitanti, chiedo conferma nel timore di non aver capito bene la traduzione.

-Ma dai, se vuoi un tappeto lo compri da quel marocchino che ti dicevo, sulla Promenade des Anglais- dice Gracìa.

-E poi sarà più facile da trasportare!- le fa eco Rafaela.

Il mercante di tappeti ci guarda senza capire.

Fuori si fa scuro.

-Pioverà?- domando.

-Inshallà- risponde l’uomo.

sabato 14 giugno 2008

Anhabell

Picasso







Anhabell non ha età

Si nasconde nell’ombra dell’umiliazione delle sue rughe, tra i riflessi di una vita bugiarda che ha colorato d’argento i suoi capelli e di polvere le monete di un’elemosina e pietà.

Il solco di un sorriso amaro le taglia il volto obliquo in due

e

mani scartavetrate di carezze per i cani.

La sua carta d’identità è un documento falsificato dal tempo.

Leggo i dati anagrafici sbiaditi e mi soffermo su quei

“s e g n i p a r t i c o l a r i”

S e g n i

La conosco da sempre e ne osservo gli anni curvi sulla schiena come croci dimenticate e mi domando come si possa riassumere una persona con un nome, data di nascita e quei

“s e g n i p a r t i c o l a r i”

S e g n i

Anhabell osserva la gente che scende dai sogni e sale sui treni

Figli di un’altra stagione e una comune povertà o di una vecchia fortuna, chiusi nei pensieri grigi come segni di lapis su una pagina da scrivere.

Capriole di nuvole e neve il cielo oggi

Giornali stropicciati

Cafè

Passa in fretta la vita alla stazione della nostalgia per i sogni abbandonati lì vicino ai binari, su rotaie morte, scarpette dimenticate di un’illusione, le ballerine di Renoir un cartellone ingiallito.

Arabesque e Arrière non van d’accordo con le pratiche in ufficio che attendono.

Non c’è spazio per i rimpianti nel giorno che incalza come vento di Borea sulla malinconia.

Anhabell ha cuciti addosso gli scampoli di un’illusione, stracci lacerati di vecchi “perché” rimasti nell’assenza di una risposta.

Scialle di consumati ieri intrecciati a fili di lana e solitudine nel cammino stanco di chi ha per compagna un’ombra.

Fiori nelle aiuole ad appassire di sole e di mai.

Margherite.

In ginocchio al canto di un Osanna e questua di confraternite, il sagrato di una chiesa il suo cortile.

Anhabell osserva la gente che scende dai sogni e sale sui treni

Nella tasca di un soprabito dalle maniche consumate, il paziente lavoro dei tarli e del tempo,

una manciata di sbiaditi coriandoli,

il regalo di un bambino.

Qui alla stazione dei sogni abbandonati, scambiati con la vita, stelle appese e Natale presto a venire.

Re Magi a portar doni e eco di nenie e di canzoni, qui alla stazione del tempo che vola via.

Anhabell libera da vincoli e di troppi giorni lenti da dimenticare

Di sale nelle pieghe di una gonna da gitana

“Senza tetto” li chiama

………………………..( chi ha perso il cielo e pensa di proteggere un’anima nell’illusione di una ………………………..casa di muri e imposte chiuse)

“Barboni” la voce disprezza

…………………………….(chi è messo in “scacco” dalla vita e pensa di comprare anche la libertà)

“Clochard” perbenisti

……………………..(chi regala una moneta e fa silenzio sulla coscienza)

Anhabell non ha età

Anhabell è una storia interrotta il 18 Aprile 1964.

L’ultima data impressa su questo documento scaduto, dati anagrafici e una foto in bianco e nero.

Trine e merletti, Anhabell vestita di stracci e di cielo, stelle ricamate come neve, la brina sui capelli.

Questa mattina.

E

una storia.

Per chi vuole ascoltarla.

Che non ci sta stretta in quella riga:

“s e g n i p a r t i c o l a r i”

S e g n i

Anhabell osserva la gente che scende dai sogni e sale sui treni