sabato 31 dicembre 2011

Auguri


-Le onde rivelano la natura gioiosa dell’universo: un fluire e rifluire, incollerire, scatenarsi. Poi la beatitudine immacolata della bonaccia. Dopo tanti anni ho cambiato mare.-

Pietro Citati

Buon Anno…

mercoledì 21 dicembre 2011

Buon Natale


I tre "baffettieri", Margot, Tempesta e Beethoven augurano:

Buon Natale...

giovedì 8 dicembre 2011

Nicky Persico Spaghetti Paradiso

 
“L’istinto è lo spazio di un istante che non c’è.
Non-tempo.”
Il destino a volte percorre strade che a prima vista non avrebbero senso.
Spaghetti Paradiso è il titolo di un libro che lessi in estate sulla bacheca di un amico. Benedetto facebook
“Bel titolo”, ricordo che pensai. Quando metti mentalmente in elenco un libro da leggere.
Nicky Persico, Spaghetti Paradiso al Women’s festival di Matera.
“Già il libro che dovevo leggere” pensai.
Poi un’amica che mi parla di questo autore.
E no, mi son detta a questo punto il destino avrà qualcosa da dire, sarà che son un po’ distratta, ma questo libro me lo trovo davanti sempre più spesso.
Quando ho conosciuto Nicky e abbiam parlato del suo libro pensavo di sapere cosa fosse lo stalking.
La norma introduce nel codice penale l'articolo 612-bis, dal titolo "atti persecutori", che al comma 1 recita:
« Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita »
Già, il diritto penale, che il suo personaggio, Alessandro, avvocato, (non-sono-ancora-avvocato) definisce arido, schematico, anacronistico. Già poco poetico, per chi ama scrivere.
E commetto lo stesso errore del suo personaggio a cui viene chiesto Cos’è la mafia.
Ci sono cose, parole, che crediamo di sapere esattamente cosa significano, ma a volte il significato va al di là della parola stessa.
Inizio a leggere.
Mi piace lo stile, l’ironia e leggere di posti che conosco, scoprendo la stessa passione per i dolci siciliani di una pasticceria con i tavoli in ferro battuto e i disegni sulla ceramica di Caltagirone, nel murattiano.
Un viaggio che inizia tranquillo, questo libro, come sulla 16 bis, diritta, mare a sinistra se scendi a sud, mare a destra se Sali a nord.
Non avevo calcolato la variabile imprevista.
Tra le pagine dove l’autore racconta la vicenda di un quasi-avvocato che segue due donne perseguitate da stalker, viene fuori un ritratto, che angustia, schiaccia, fa male.
Spaghetti Paradiso è un libro di circa 250 pagine, ma nei giorni, in borsa, si fa sempre più pesante, come un vocabolario, e so, che quando avrò finito di leggerlo, peserà come un’enciclopedia, e avrà bisogno di un intero ripiano in libreria.
Fa male.
Procedo a fatica, come nella nebbia. Navighiamo a vista.
Un’amica mi dice di non proseguire, se non me la sento, mi viene in mente Daniel Pennac, il diritto di non finire un libro.
Nella vita tutto ha un perché, lo scrive l’autore.
E capisco il mio quando arrivo alla fine. Ma questa è un’altra storia.
Ritratto di un mostro, lo stalker, indifferente verso i sentimenti delle vittime, presenza di turbe nella sfera affettiva, la menzogna come lacerazione della verità, diffamazione, ego sovradimensionato, esercita un potere sugli altri, incapace di provare emozioni o affetti, non vive la vita ma recita una che si è costruito, si appropria di confidenze per poi usarle come ricatti.
Manipolatori, se messi in pericolo reagiscono con violenza e cattiveria, fin a diventare pericolosi, narcisismo ossessivo, psicopatie, mai responsabili di nulla, fanno leva sulla compassione, inteneriscono chiedendo di essere aiutati nei momenti di crisi.
Sono predatori, vivono una doppia vita, soggetti borderline
Narcisista perverso è l’aggettivo che racchiude chi è lo stalker, ed è molto peggio di quello che si crede leggendo i giornali.
La vittima in genere, è una persona confusa e molto indebolita psicologicamente, vittime scelte , spesso, perché delle splendide persone, massacrate il più delle volte sotto gli occhi di tutti, più la vittima è brava a costruire castelli, tanto più lo stalker ne sarà gratificato nel distruggerli: lui distrugge l’altrui essere per essere a sua volta. Come il cancro, mi viene da pensare.
Un brivido scende lungo la schiena.
E allora capisci che il non-tempo è quel momento in cui ti trovi a dover decidere, senza poter pensare, istinto di sopravvivenza. Perché l’unica salvezza è uscire, da quella porta. E non importa chi sarà ad afferrare una chela di morsa da banco. L’importane è avere qualcuno che creda che ciò esiste, che è l’inferno. Ma che ti puoi salvare.
Allora afferro quell’oggetto pesante in metallo, una chela di morsa da banco, e la lancio, con tutta la forza che ho, andrà ad impattare contro un fantasma, contro qualcosa che non esiste più, ora.
E comunque, sarà per legittima difesa. Un amico avvocato a difendermi.
Bello il crossover con la commissaria Lolita Lobosco, protagonista dei romanzi di Gabriella Genisi.
Spaghetti Paradiso, perché questo titolo?
Bè non ve lo dico. Lo dovete leggere, perché in qualche modo salverà qualcun altro.
Come una catena.
Intanto raccontare, raccontarsi, farsi raccontare sogni.
Il libro è finito, la paura non deve esistere.
Penso al Jungle Club, un po’ come il Roxy bar, o Mario, che riapre, prima o poi.
E guardo il mare anche io abbracciata alla mucca di Stefano Benni, perché le risposte arrivano, nel modo più impensato. E ti guariscono, e ti assolvono.
Leggetelo, per lo stile piacevolmente ironico, per la drammatica verità che racconta.
E come dice Daniel Pennac, il diritto di rileggere un libro.


Devo ricordarmi di dire a Lea di leggerlo, e ringraziare tante persone, che sanno perché…

Sant Jordi, i giorni dei libri e delle rose

“Stupirsi di come la forza travolgente della vita riesca a nutrirsi delle cose negative, mutandole in meravigliose” N.Persico

Barcellona

Ci sono posti che si affacciano nelle nostre vite, luoghi che restano impressi, come fotografie, che vivono nel ricordo, un mimo, la gente, gli ambulanti e le rose.

La Rambla si apre davanti a me, srotolando chilometri di messaggi che attraversano terre straniere, fino al confine di un’assenza.

Che pesa nel mio zaino, peraltro quasi vuoto, stamattina, uscita di fretta dal mio albergo in Plaza Real. La metropolitana, un’amica, il suono del cellulare che annuncia il tuo buongiorno, tra un cappuccino che mi manca e una poesia di Neruda.

I giorni dei libri e delle rose

È la festa di Sant Jordi.

Le fontane alzano un velo d’acqua che attraversato dal sole regala un caleidoscopio di arcobaleni.

Piove su noi una musica gitana e il volo di tortore mi fa alzare lo sguardo al cielo, tra le linee morbide di questi palazzi.

Tu, architetto ingrigito a seguire le linee di fuga verso pensieri orfani di parole. Tu che parli così poco.

Ci sono posti che restano dentro di noi, nel brandello di memoria, come una bandana legata al polso.

Oggi mi è venuta in mente Barcellona mentre corro sul lungomare, la musica in cuffia, le palme, il venditore di palloncini e quello delle rose, mare a sinistra, come consiglia un amico.

Corro e per la prima volta la avverto, la rabbia.

Sale nei muscoli su fino alla gola, che fa male pure respirare.

Stringo i pugni e corro, il mare oggi ha qualcosa di speciale, è immobile, sembra un lago, con le nuvole viola, sfilacciate come segmenti di pensieri, liberi.

Corro fin quando vedo il sole che buca le nuvole, un volo di gabbiani. Mi fermo, per riprendere fiato, le mani sui fianchi, un aereo solca il cielo con la sua scia, lo guardo per quello che è, solo un graffio nell’anima.

Mi giro, riprendo a correre, la città vecchia si sta svegliando tra le sue cupole e le linee ardite dei campanili. La rabbia è stato il prezzo della mia libertà. Ora, finalmente. Viva. Mare a destra.

Perché verranno altri giorni.

I giorni dei libri e delle rose

domenica 27 novembre 2011

Le voci del Ritz

A Lea e Gilda

Aprii la cassetta delle lettere e tra le bollette, le pubblicità c’era una busta color panna, con il mio indirizzo scritto a mano. Di questi tempi la gente scrive sempre di meno. In un’ epoca fatta sms, mms in tempo reale per farti sempre partecipe della vita degli altri, anche quando ne faresti volentieri a meno, è curiosa questa lettera.

Torno in casa e la apro. Leggo. Rileggo. Lea e Marco si sposano e mi invitano a Parigi, c’è pure la convocazione per il volo.

Quando ricevi una notizia così resti spiazzato, su un social network come facebook te la caveresti almeno con un “mi piace” e pollice alzato di memoria di epoca romana.

Squilla il telefono, è Gilda. Stesso invito.

Per giunta saremo pure testimoni, lei di Marco io di Lea.

Di questi tempi va di moda sposarsi in location particolari, la casa di Giulietta a Verona, un qualche castello nella campagna toscana, una spiaggia esotica, un po’ meno di moda Las Vegas.

Parigi in autunno è magica, ha quel sapore ambrato, come un bicchiere di cognac, quel volteggiare di foglie secche per gli Champs-Élysées.

La sera prima del matrimonio c’è una festa, A l’ombre di Notre Dame. La Senna scivola via liquida, assorbendo le luci dei lampioni, velata appena dalla scia dei Bateaux Mouches.

Pochi amici, una tavolata e le parole, non è casuale la scelta di Parigi, per queste persone che in un modo o nell’altro ruotano intorno alla vita di Marco e Lea. Si parla francese, ma ascolto la carezza morbida che solo l’arabo porta con sé, in concetti incomprensibili, ma espressi con una musicalità poetica.

A volte è così anche nella vita. Parlarsi intendo. O non parlarsi. Al di là della lingua con cui ci si esprime andrebbero colte le vibrazioni, le paure, le speranze che si celano tra le parole.

Passando accanto al bancone del bar una locandina attrae la mia attenzione: Noè espone i suoi quadri per una mostra temporanea a Montmartre.

Quando torno in albergo lo chiamo. In fondo la mia anima è nata qui. In una soffitta sulla Senna.

Il mattino dopo mi alzo presto, faccio colazione con i croissant di sfoglia. Solo qui hanno questo sapore, di burro e zucchero e mi ricordano certe merende d’infanzia in Provenza.

Sfoglio distratta Le Figaro.

Poi esco prendo la metropolitana.

È nuvoloso. Ma è presto potrebbe anche uscire il sole. Tiro su il bavero del cappotto e percorro le strade che conosco, in quell’angolo di città che mi calza come un guanto. I negozi, le strade, gli alberi, tutto così familiare.

Quando entro nella piccola bottega un trillo di campanello annuncia la mia presenza.

Noè sbuca tra le tele, maestro di immagini.

Il tempo scorre via veloce attraversato di ricordi, quando il presente è uno scampolo di città, lo spazio della scacchiera dove stare attenti a non muovere lo scacco al re.

Esco con la mia tela e la dedica del mio amico pittore per Lea e Marco. Per uno sciopero la metropolitana è chiusa. Avete mai provato a prendere un taxi a Parigi in queste occasioni?

Alla fine riesco a tornare al Ritz in tempo, o almeno credo.

Lascio la tela in reception, seguo le indicazioni ed arrivo nella sala in fondo a un corridoio.

Gli invitati si stanno sedendo. Un funzionario sta parlando con Lea e Marco. Gilda è già seduta.

Arrivo vicino a Lea che mi fulmina con un’occhiata.

-Ma che fine hai fatto?-

-Bel vestito.- cerco di stemperare.

Le voci del Ritz, quell’atmosfera di tempi andati, di poeti e pittori. L’amore nelle declinazioni più impensate.

E un sì. Doppio sì. Per un plurale di presenza. Da oggi in poi.

Lea e Marco hanno un volo nel pomeriggio per gli Stati Uniti.

Io e Gilda ci fermiamo una notte ancora. Ne approfittiamo per lo shopping natalizio.

La mattina dopo l’addetto alla reception mi porge un biglietto e il bouquet di Lea.

“Se l’avessi lanciato ti saresti defilata.”

Guardo Gilda, le porgo il biglietto ride.

-Ha ragione Lea, io mi sarei defilata e sarebbe toccato a te.- le dico lasciandole i fiori in mano.

Gilda non ride più.

Prendiamo le valige e le buste con i regali. Il taxi procede lentamente nel traffico verso l’aeroporto.

Fermi ad un semaforo osserviamo un ragazzo e una ragazza che camminano sotto la pioggia, senza ombrello. Si tengono per mano. Sono curiosi gli innamorati a Parigi.

Gilda apre lo sportello del taxi, scende, si avvicina ai due ragazzi porgendo alla giovane il bouquet dicendolo loro qualcosa. Poi risale. Il taxista ha osservato la scena dallo specchietto retrovisore senza tradire la minima emozione. Però ora sorride.

Gilda mi guarda.

-Certe catene di Sant’Antonio è meglio non interromperle.- dice.

-Giusto.- dico.

Devo ricordarmi di raccontarlo a Lea.

venerdì 25 novembre 2011

Nata libera


-Quante volte sei passata
quante volte passerai
e ogni volta è sempre un colpo all’anima- Ligabue






-Informiamo i signori passeggeri che l’imbarco del volo 6221 è stato spostato al gate nove-

Ascolto l’annuncio diffuso in aeroporto. La commessa mette i miei acquisti nella busta trasparente e timbra la carta d’imbarco.

Ci sono cose che accadono perché è scritto. Perché lo sapevi. E sono spesso una variabile imprevista nella tua vita. Quando tutto sembra ormai posto su rotte tranquille, quando il pensiero è libero da legami malsani, come febbre di malaria. Accade.

Una mano sul mio braccio. Un volto. La variabile indipendente. Ci sono tanti modi di essere vittime di noi stessi e tanti modi per definire uno stato di malattia che inquina il nostro pensare, chiudendoci in una rete a maglie strette.

-Posso parlarti?- La domanda è semplice, ma apre una serie di porte e di emozioni, rompendo l’argine di ricordi ben catalogati e conservati. Da rivedere quando si ha voglia. Come un album di fotografie. Lì in quel momento non volevo. Tuttavia non avevo scelta.

La mano sul braccio. Guardai il tabellone delle partenze.

Il tempo di un caffè. Nell’equilibrio precario e instabile di un gioco fatto con i bastoncini da Shangai. Immobile il mio pensiero, mentre intorno a me tutto continuava a muoversi.

Frazioni di secondi che sembrano anni, un lampo nel cielo, l’attesa che si fermi la pallina della roulette, adrenalina. E ti sembra che la vita ti passi davanti.

-Informiamo che è iniziato l’imbarco del volo 6221.- e a seguire le procedure richieste per l’imbarco.

La mano ancora lì, sul braccio, la domanda nell’aria, il passato mescolato al presente.

La mia scelta è un no. Negazione, chiusura, fine. E non avverto la drammaticità del primo istante dopo, l’elaborazione del dolore, il vuoto. È un no che mi libera.

Chiamano il mio nome per l’imbarco immediato.

Ora non ho più la mano sul braccio. Solo una voce che chiama il mio nome.

Alzo il passaporto e la carta d’imbarco, mi fanno passare. Il gate è aperto hanno fatto l’ultima chiamata con il mio nome.

La hostess controlla i documenti e percorro il braccio del finger che mi separa dall’aereo.

Mi siedo. Nell’attimo esatto in cui l’aereo stacca da terra mi sento libera.

C’è un posto, dove sto andando, che si chiama Elsa Mere.

Perché in fondo, io so, che sono nata libera.

martedì 22 novembre 2011

Il treno: Lèzard Rouge


A Lea, Gilda, Simone

Cammino senza ombrello, ormai non piove più, avverto sul viso l’umidità e l’aria pulita.

Mi accompagna il rumore del mare, giù sulla scogliera.

Domani partiamo, sto ripassando velocemente cosa mettere in valigia.

A volte hai la sensazione a pelle che le cose stanno per cambiare, che accadrà qualcosa che in qualche modo stravolgerà la tua vita, si muove piano, come un’onda. Impercettibile come la deriva dei continenti. Ma sai che c’è qualcosa chiamato futuro molto vicino. Un volto ancora celato, un biglietto aereo, la presenza di un vento foriero di novità.

Lo sai. Lo avverti.

Ci troviamo in aeroporto. Io come sempre litigo con il peso della valigia in un’equazione di tempo fratto spazio che non dà mai il risultato sperato.

È che non so fare la valigia, mi porto sempre appresso un sacco di cose inutili. Diciamo che nella vita ci si affeziona alle cose inutili al punto di considerarle indispensabili.

Simone sta rivedendo con Lea i passaggi di un’udienza, la vedo preoccupata, anche ora, ora che dovrebbe solo pensare a partire.

Gilda ha raccolto i suoi capelli rossi in una strana acconciatura, che se non fosse frutto del caso sembrerebbe appena uscita da una di quelle riviste patinate che è intenta a sfogliare mentre mastica una gomma.

Certo che siam proprio un gruppo sconclusionato, forse è per questo che siamo amici.

E vorrei vedere il contrario, visto che stiamo per andare in un posto sperduto della Tunisia dove sta lavorando Marco. E che Lea ci ha perso la testa lo sappiamo tutti, però Marco è nostro amico e un capodanno insolito ci può anche stare. È per una buona causa.

Anche se penso alle mie amiche una settimana in beauty farm alle terme.

-Vuoi mettere il fango con la sabbia del deserto?- aveva detto Gilda per convincermi. E lo sapeva che adoravo il deserto.

Gilda poi sarebbe partita qualunque fosse stata la meta, se al check-in ci avessero detto che l’aereo andava nella steppa, non avrebbe battuto ciglio. È splendida. Le invidio questa sua capacità di adattamento.

Mentre con me hanno una pazienza infinita e mi portano pure i vasetti di pesto alla genovese per condire la pasta.

Lea cammina nervosa, parla al telefono con Marco, la linea è disturbata, lei alza il tono della voce e anche a non volere la ascoltiamo.

-No guarda che se è un problema non veniamo più.- dice.

Gilda che fino a quel momento era intenta a leggere alza lo sguardo, interrogativo.

Lea, si trincera dietro le braccia conserte e un singhiozzo in gola.

-Andiamo alle terme?- cerco di stemperare. Ma Lea mi fulmina con lo sguardo.

Decido per un caffè. L’ultimo, italiano e decente prima di partire.

Mi fa compagnia Simone. Lui il caffè lo prende sempre amaro, dice che ci siamo noi a zuccherargli la vita.

Ovviamente partiamo.

Il volo è tranquillo. Dopo due ore atterriamo in Tunisia.

Marco è venuto a prenderci.

Ci dividiamo su due taxi. Marco e Lea. Io, Gilda e Simone.

Mi piace questa terra al limitare del deserto, dal finestrino sfilano le case basse, bianche e squadrate, dalle finestre ovali e le cupole buffe. Sembra uno di quei fondali che si usano per il presepe. Le palme dondolano nel vento e la luna piena rende tutto quasi magico.

-Che bello.- dico.

-Sì, sembra quasi finto.- dice Simone.

La musica alla radio ha un che di ipnotico, appoggio la testa al finestrino e lascio andare i pensieri.

In albergo sistemiamo le nostre cose, Marco ci vuol portare in un locale nella medina.

Il sonno mi passa all’improvviso, siamo catapultati in un caleidoscopio di colori, suoni e profumi di spezie che acquiscono i sensi.

Guardo i tappeti esposti e penso alle migliaia di nodi che li compongono: curioso semplici nodi tengono l’ordito e la trama di quei disegni uniti per sempre.

Guardo Marco e Lea che camminano davanti a me e si tengono per mano. Migliaia di nodi.

Ceniamo in un locale dalle pareti ricoperte di immagini del deserto, una luce ambrata, e il tè a riempire i bicchieri.

Le parole in arabo fatte di acca mute, acca aspirate, rendono ovattato il nostro parlare.

Torniamo in albergo.

Domani prenderemo un treno, Lèzard Rouge. Un salto nel tempo per posti incantati.

Domani finirà un altro anno e mi sento improvvisamente più vecchia.

Ma le cose vanno concluse per aprire la porta a nuovi orizzonti.

Comunque sia andata è finito un altro anno e siamo qui insieme. Un gruppo di amici tenuti legati da migliaia di nodi senza motivo apparente. A formare un disegno.

La mattina dopo ci svegliamo con la pioggia.

-Qui non piove mai.- si giustifica la guida.

-E, ma noi abbiamo la signora della pioggia.- ribatte Lea guardandomi.

Rido, tiro su il cappuccio della giacca e mi incammino.

Simone apre un ombrello e camminiamo insieme, senza dire niente.

Il treno ha il fascino di un non tempo.

Questo, in un modo o nell’altro, è il nostro tempo.

Il tempo di un angolo di cuore, di un viaggio, di un mazzo di basilico sulla finestra di una casa.

venerdì 18 novembre 2011

40 Madison Avenue

E ho visto cose riservate ai sognatori,
ed ho bevuto il succo amaro del disprezzo,
ed ho commesso tutti gli atti miei più puri.- Jovanotti-


La sera aveva acceso la città di luci.

Passando per Central Park Viola teneva le mani in tasca e la musica in cuffia.

Viveva al 40 di Madison Avenue, vicino al Flatiron.

Un caffè a Little Italy con un vecchio amico che le venne incontro porgendole un vaso colorato con una piantina di basilico. Al posto delle rose.

Dissacrante.

Ci sono giorni fatti per essere ricordati con un cerchi sul calendario. E un numero. Da tenere dietro alla porta e giocare sul cuore.

Così, dissacrante.

Come la pelle vestita solo di parole.

sabato 12 novembre 2011

Come picche chiama fiori, quadri chiama cuori

Ouverture

Violoncello. Note basse.

Pianoforte.

Ballerine.

Luce, luce.

Il sole era ormai sceso dietro ai palazzi. La donna stava appoggiata al parapetto della muraglia e guardava il mare. Il porticciolo era disteso e addormentato alle sue spalle.

Un uomo la raggiunse, si salutarono.

Poi scesero la scalinata che porta verso la piazza.

Un tavolino di un bar, due caffè.

Lui lesse attentamente i fogli che lei aveva tirato fuori dalla borsa.

La luce ovattata dei lampioni avvolgeva le case in un caldo abbraccio d’ambra.

-Chiara, sei sicura di voler procedere?- C’era un tono di ansia nella voce di lui.

-Sì.- Lei era determinata.

-Spero tu abbia un buon avvocato.-

-Ho un paio di assi nella manica.-

-Sì, ma i tuoi assi sono sicuramente assi di cuori.-

Come picche chiama fiori, quadri chiama cuori

Tulipano nero, Chiara. Agitata da un vento caldo del sud. Provocazione e battaglia continua la sua vita.

Ossimoro di pelle, parole e avanzi di cuore.

Un cappellaio matto e carte impazzite, sfuggite da un libro dimenticato sulla panchina di un tempo andato.

Come picche chiama fiori, quadri chiama cuori

Violoncello

-Parto domani- disse Chiara.

Lui sospirò rassegnato.

-Capisco. Non condivido, ma capisco. Dove andrai?-

-Roma, penso. Poi Madrid e La Paz.-

Le case intorno stavano silenziose. All’angolo della piazza un gruppo di uomini giocava a carte.

Il vecchio Pucci, il cane di Annina sempre più vecchio.

Leone camminava solo. Ma lui era un’altra storia.

Qualcuno spense le luci del teatro.

Ballerine,

pianoforte,

violoncello

Come picche chiama fiori, quadri chiama cuori

domenica 6 novembre 2011

Gabriella Genisi Giallo ciliegia

“All’angolo sì, in quel punto ambiguo e molto erotico che è la fossetta che si forma tra la piega delle labbra e le guance. Una sorta di zona franca, studiata apposta, per chi vuole osare un po’ di più, pur restando nel recinto del bacio amichevole. Solo che per essere perfetto ‘sto bacio deve essere desiderato da entrambi nello stesso istante. Una specie di miracolo, diciamo. Ma succede, posso garantire.”

E lo so che succede.

Gabriella Genisi e il suo ultimo libro, Giallo Ciliegia.

E il titolo la dice lunga, che il taglio del romanzo ha il respiro del giallo al ritmo del cuore.

Già il cuore. Quell’amore che la sua protagonista, Lolita, dice essere un’abitudine che ha perso.

Ma le cose si perdono per essere ritrovate.

Facciamo un passo indietro.

Ho conosciuto Gabriella un po’ di anni fa, una sera d’estate a parlare di libri nell’agriturismo di un’amica comune, una specie di isola.

Questo va specificato, perché se la conosci è garantito che tra i suoi personaggi scorgi sempre un volto amico, la curva sulla strada che improvvisamente apre l’orizzonte a posti che conosci.

In quegli anni venivo in Puglia in vacanza, e anche questo, va specificato.

E sarà stato il mare, o il richiamo di Caparezza, con il suo Vieni a ballare in Puglia che ho scelto di restare.

Ora ci vivo, e per l’esattezza vivo nella città vecchia.

Leggere questo libro, sulla terrazza della mia casa, all’ombra del campanile della cattedrale, è come essere in un caleidoscopio e le immagini che descrive Gabella sono il mio orizzonte quotidiano.

Racconta Bari, l’autrice, città dove sono tutti avvocati e brava gente, “Come trovarsi in un suq arabo o nella Città dei morti al Cairo, tanto per fare un esempio” luoghi conosciuti, a far la conta come a nascondino tra i locali della città vecchia e il passeggiare sulla Muraglia. In certe giornate livide, come racconta anche Carofiglio.

Ne resti avvolto, dal suo raccontare, al di là del giallo su cui indaga la protagonista, ben studiato, appoggiato in un tempo all’angolo con l’estate, quando si giocano i mondiali di calcio, gli ultimi, per esattezza. Giallo dicevamo di una bella costruzione, tra boss locali, lottizzazione di terreni e un contrabbando dal Montenegro.

Bari è il back-ground su cui corrono le pagine. La città vecchia, i suoi vicoli, le persone, anche la musica, ti accompagnano. È un posto che conosci.

Ne parlavo l’altra sera con amico scrittore. È così, quest’angolo di città è un’isola.

E io che ci vivo lo so bene. Lo pensavo, mentre uscivo afferrando la giacca e le chiavi, per andare a recuperare un amico. Che casa mia non la trovano mai. Ma poi ci tornano sempre.

Una specie di presepe queste case strette le une alle altre, così ben raccontate da Gabriella, e anche solo chi si ferma per un’ora, il tempo di un panino, e non sa quando tornerà, respirare questi vicoli è portarsi via la fotografia più bella della città.

In alcuni passaggi c’è un’ironia a pari col cuore, e una manciata di ciliegie.

“Appunto. Tanto lui torna, statti tranquilla. Sempre se sei disposta a riprendertelo.”

“Ma veramente torna? E tu come lo sai?”

“Quindi te lo riprendi”

Ah, l’amore, trovo questo passaggio la chiave di volta per tante vite, ci siam passate un po’ tutte e mi sa che a questo proposito qualche scusa alle amiche è d’obbligo.

Bello il linguaggio, perché è così che si parla qui, carinissimo l’amicamia, o Nicolamio, tutto attaccato.

E bellissimo il crossover letterario che Gabriella fa con il suo personaggio precedente, dal Pesce rosso non abita più qui, se ne arriva il maggiolone cabriolet bianco, comprato su Ebay da Cleo di Roma.

Un bel romanzo, aspettiamo il prossimo.

Tacco sedici

A Lea e Gilda,

Quel mattino mi ero svegliata con il rumore della pioggia sui balconi.

Mi piace scrivere con questo sottofondo.

Scalza, la tazza di caffè tra le mani, lo schermo chiaro del pc.

E parole, da inseguire, piano.

Il telefono.

È Lea.

-Possiamo venir a far colazione da te?-

Incrocio distratta l’orologio sulla parete, ma che ore sono? Le 8,30. Sabato.

-Possiamo è plurale, chi c’è con te?-

-Gilda. Ti portiamo quei croissant francesi che ti piacciono-

Sorrido.

-Va bene. Con questo tempo non mi va di uscire, mi portereste anche il giornale?-

-Sì dobbiamo parlare-

La voce funerea non promette nulla di buono.

Poco dopo le sento parlare nel mio cortile, posano gli ombrelli. Entrano.

Lo capisco subito dagli occhi di Lea, arrossati, che qualcosa non va.

Gilda intanto tira fuori un paio di decoltè bellissime, in raso blu con un tacco sedici. Vertiginoso. Dice che deve abbinarci una borsa, più tardi andrà in centro.

Preparo il caffè. Lea di siede sul divano, mentre Gilda misura la mia cucina improvvisando un défilé. Ma come fa a star in equilibrio su quei trampoli.

-Marco va a Capo Verde-

Resto con il barattolo del caffè in mano, a mezz’aria. Mi giro.

Gilda alza gli occhi al cielo. Facendo un rapido calcolo, la poveretta sarà stata tirata giù dal letto all’alba e saprà tutta la storia.

Poso il caffè, le guardo interrogative.

-Vero?- domanda banale. Che dà il la a Lea per aprire una filippica sull’effetto che questo viaggio avrà su di lei.

-Ma cioè, voi capite. Io sto male e quello che fa? Va a fare il volontario per due mesi a Capo Verde. Ma dico io, io che devo fare?-

-Però sono isole con un loro fascino. Non è che gli chiedi se mi compra un paio di quei quadri di sabbia?-

-Ma come ti vengono in mente i quadri di sabbia-

E certo, cercavo di stemperare.

-E se fa scalo a Dakar non è che mi porta una borsa di pitone?- fa eco Gilda.

Lea ci guarda stralunate.

-Ma che avete capito? Non va mica a fare il turista low cost. Se ne va a operare in quell’angolo di mondo dimenticato da Dio, e com’è che sapete tutte queste cose su Capo Verde, io manco sapevo posizionarlo sull’atlante quando me l’ha detto-

-Oceano Atlantico al largo delle coste del Senegal- le dico.

-Lo so. Ho solo detto che in quel momento mi ha presa alla sprovvista e non capivo più niente-

Non è Capo Verde il problema lo so, lo sa Gilda e lo sa Lea.

Il problema è che lei vorrebbe la certezza di un amore incondizionato e non si accorge che è così.

Che l’amore ha tagli di luce diversi, come cocci di bottiglia che appena rotti ti possono tagliare, ma se levigati dal paziente lavoro dell’acqua e delle onde possono diventare piccole gemme. I vetrini, un tesoro che raccoglievamo da bambini sulle spiagge. Cocci verdi, gialli, bianchi, marroni, quel che restava delle bottiglie naufragate.

Marco era come un messaggio in una bottiglia, non sempre quello che c’è scritto corrisponde a quello che in quel momento vorremmo leggere. Ma tutto quello che è scritto si può cambiare.

Le parole sono un dono bellissimo.

Un amico a Natale di un po’ di anni fa mi ha regalato una scatolina che contiene delle parole su dei foglietti, prendendone uno ti dovrebbe venire l’ispirazione per scrivere.

L’amore è qualcosa di meraviglioso in cui continuo a credere. E se penso a qualcuno che si ama sono proprio Marco e Lea.

Lea con le sue fragilità così ben nascoste dietro le sue qualità è ovvio che poi Marco a volte finisce per crederla più forte di quello che è.

-Perché non vai con lui?- domando.

Silenzio.

-Non posso, il mio lavoro, i ragazzi, il cane- dice.

-Guarda le cose da un’altra prospettiva- dico.

Gilda che ha sfilato le scarpe gliele porge.

-Provale-

È adorabile, Gilda, così distratta, sembra sempre che viaggi a un’altra dimensione, a un’altra velocità. Gli occhiali vintage con la montatura bianca. A volte sembra uscita da una rivista degli anni 60.

Però ora è drammaticamente seria.

-Provale-

Lea prova le scarpe, e mi viene in mente la scena del Mago di Oz.

Le strade che incrociano quelle delle persone della nostra vita sono imprevedibili. A volte ci sfiora appena, altre ci si scontra. Alcune volte, cara Lea è necessario allontanarsi. Perché le cose si perdono per essere ritrovate.

-Ma poi torna?- chiede Lea.

-E certo che torna- dico -Ragazze, io alle cinque, ho un aereo per Milano-

Mi guardano.

-E quando torni?- chiede Gilda.

-Domani sera-

-E che vai a fare?- chiede Lea.

-Un mio amico presenta il suo libro-

-E tu vai fino a Milano per un libro?- chiede Gilda.

-Dipende dal libro- dico.

-O da chi l’ha scritto- dice Lea.

L’amore è qualcosa che arriva così, quando ormai avevi chiuso le speranze. L’amore non è un pacchetto tutto compreso. A volte è volo low cost per stare insieme poche ore, o tutta la vita, questo lo diremo solo alla fine. Ma comunque vada c’è un destino che ci lega a chi fa parte della nostra vita. E prima o poi ci incontra. E ci tiene con sé. È una promessa Lea.

sabato 5 novembre 2011

Mr Gwyn, Alessanro Baricco

“Erano cinquantadue le cose che Jasper Gwyn si riprometteva di non fare mai più. La prima era scrivere articoli per il “Guardian”. La trentunesima era farsi fotografare con la mano sul mento, pensoso. L’ultima era: scrivere libri. Avrebbe fatto il copista.

Un mestiere pulito.

-Veda se trova qualcosa tipo copiare la gente.

-Sì.

-Come sono fatti.

-Sì.

-Le verrà bene.”

Bari, Libreria Feltrinelli, 4 Novembre 2011

Una folla variopinta accalca la libreria, appesi tra gli scaffali, libri e persone.

Un applauso accoglie Baricco. Si siede, guarda la platea e si mette a raccontare del suo ultimo libro, come di un vecchio amico.

E mentre parla racconta di come è nato Oceano mare, occhieggia su Seta.

Mr Gwyn nasce in una giornata piovosa in cui l’autore a, Parigi, si rifugia in un museo e da un quadro si apre una finestra ed escono parole.

La scelta di Baricco è quella di scrivere sulla stretta linea di confine. “Nel confine c’è una luce particolare. La luce che io voglio, che io cerco. È lì che voglio stare” dice.

Scritto con una certa luce, va letto con una certa luce e non a caso un grappolo di lampadine se ne sta vicino a lui.

Un uomo illumina una storia…

Il suo personaggio è un artigiano, che fa lampadine a mano.

Questo libro ha una luce, una velocità, un’idea di passo come danza. Ce lo svela l’autore.

Inizia a leggere: “Mentre camminava…” passo morbido che ti accompagna dentro le pagine.

Cesellatore delle parole, Baricco, architetto del bel costruire frasi e immagini. Nasce così la sua cattedrale di pensieri. Non così lontana dalla scuola Holden.

Non esiste di smettere…

Legge un altro capitolo e ci apre nuove prospettive, il personaggio principale che fa lo scrittore, decide di non scrivere più. E tutto sembrerebbe drammaticamente finito.

Ma le pagine sveleranno una nuova luce su una nuova strada al giusto tempo che tiene il ritmo tra parole e cuore.

Spesso ho riflettuto su seminare e su raccogliere…

domenica 30 ottobre 2011

Via degli Oleandri

A un’amica…

Il mattino sbadiglia mentre afferro un volo di gabbiani nel quarto di cielo, che sta tra la mia finestra e il campanile.

Il caffè, le notizie alla TV, i miei gatti che attraversano morbidi il mio pensare.

Il telefono.

È Lea. Entra nella mia casa come un vento caldo d’autunno, quello che spazza i viali parigini, mentre tiri su il bavero della giacca e scopri una coccinella tra le dita.

Un portafortuna. Pensi.

Come un ferro di cavallo da appendere dietro alla porta. Hanno detto che così si fa.

Cavalieri e tavole rotonde, voltando un’altra pagina. Di un libro.

Ascolto il ritmo del suo parlare mentre raccolgo note troppo basse per il pentagramma di chi vorrebbe una sinfonia di Vivaldi. E non certo l’autunno.

Un cruciverba di parole, il suo amore, dove cuore non trova la rima in un quattro verticale che inizia per “q”.

Qualunquismo, mi viene da pensare.

Perché dobbiamo sempre legare il nostro star bene o star male al ritmo di un altro?

Dandogli tutte le colpe e contandone le assenze.

La ascolto, mentre tiro su un ramo di buganvillea del mio terrazzo e distratto lo sguardo incrocia il cielo al rumore di un aereo: la sua lunga scia va da est a ovest. Forse nord-ovest.

Penso che sarebbe stato meglio che mi lui avesse regalato un mazzo di margherite o di rose. Sarebbero appassite e non avrebbero dato altri fastidi.

Un altro aereo sale da est e punta a nord.

Seguo la scia.

Già, la scia. Ma perché ci sono immagini che ci obbligano ai ricordi anche quando staremmo tanto meglio senza.

-Ma mi ascolti?-

Lea mi richiama al suo presente, forse un aereo dovrebbe prenderlo davvero. È un po’ che glielo dico, me la immagino all’altro capo del telefono mentre nervosamente tiene un’unghia, come petalo d’oleandro tra le labbra e i denti.

Via degli oleandri, quella casa sul mare toscano che respira di pini marittimi.

E un’isola, gemma verde tra i ricordi, tra i capelli fatti di alghe.

Raccogli conchiglie di presente ascoltane la voce impastata di sabbia e onde.

Trova la nota perfetta e il taglio di luce esatto. Conta le presenze.

Sì. Anche il si è una nota per chi sta seduto su un rigo di pentagramma, tra lo spartito e l’orchestra.

Uno sguardo al cielo che stempera le scie d’aereo. Sì, erano meglio le margherite.

Per giocare a m’ama non m’ama, sull’aia di una danza antica, e la conta sulle dita.

domenica 23 ottobre 2011

Sotto la luna

Carlo Lucarelli

Sotto la luna

“Questi sono i fatti” contò sulle dita “un sottotenente all’Amba Alagi e un caporale dopo l’assedio di Macallè, lì c’ero anch’io.

Ricognizione offensiva, Evangelista torna da solo con un pugno di ascari.

Non si sa se il capitano faccia più paura agli abissini o ai nostri. Avete visto, no? Nessuno vuole parlarne.”

Sullo scenario della campagna d’Africa il racconto si snoda in un clima leggendario, che è quello che resta di tutte le guerre, dopo.

Condito da una buona dose possibilista di strani personaggi al limite di una nave di questo “olandese volante” che vaga senza pace tra le pianure etiopiche.

Licantropi e luna piena, in un dove che si fa mistero e ombra guardando la cartina geografica, in un continente animista, dove tutto può accadere, partorito dalla fantasia di uno stregone come di uno scrittore.

sabato 22 ottobre 2011

Hotel Palestine



Federica era in taxi, le mani strette nelle mani, bianche esangui e il viso perfetto di porcellana, o forse si era fatto di avorio in quel pomeriggio parigino. Invecchiato, all’improvviso.
Le labbra disegnate a cuore, come ciliegie mature, da raccogliere. La linea dell’eyeliner le sottolineava lo sguardo, a mettere in evidenza due occhi chiari, immobili come un lago.
Parigi sfilava dal finestrino mentre seguivano il lungo Senna, guardò la Tuilerie, e la Tour Eiffel svettava in lontananza, l’intreccio morbido di acciaio a disegnarne il profilo.
Le mani strette in grembo, gli occhi obliqui, abituati al pianto, che era un singhiozzo muto in fondo alla gola, come in un film si vedeva proiettata in una realtà che non le sembrava la sua.
Un errore, sicuramente avevano fatto un errore.
Massimo non poteva essere morto.
Il taxi rallentò, svoltò a destra nel vicolo e si fermò.
La giovane donna ne scese con tutto il peso della croce sulle spalle.
Si sentiva come un attimo prima di mezzanotte, quando sai che il conto alla rovescia viene scandito da migliaia di persone, come a Time Square e poi piovono coriandoli,  e parte la musica, e allora tutta quell’adrenalina, ti si scioglie in petto e non sai perché vuoi solo piangere.
Meno dieci
Alzò lo sguardo verso la finestra dove tante volte lui l’aveva salutata.
Meno nove
Quanto ci mette il cervello a comandare alle gambe di muoversi?
Meno otto
Le mani a cercare le chiavi.
Meno sette
Le chiavi cadute a terra, le mani che tremano.
Meno sei
La porta che si apre e lei che entra nel cerchio di ombra dell’androne.
Meno cinque
Lo sguardo sale le scale prima dei piedi.
Meno quattro
Le scale due alla volta.
Meno tre
La porta dell’appartamento socchiusa.
Meno due
I Carabinieri che si voltano vedendola entrare.
Meno uno
Lo sguardo di Iris, la compagna di Massimo: la Maddalena dopo che hanno crocefisso Gesù. Allora Federica capì e la bella maschera del suo volto di attrice si frantumò come un calco di gesso.
Zero
Massimo disteso sul letto. La testa reclinata sul cuscino in una posizione innaturale.
Federica rimase immobile. La morte aleggiava nell’ombra, quasi a scusarsi di ciò che aveva fatto, come il vizio di un bambino distratto che fa cadere il vaso delle caramelle.
La finestra era socchiusa, il vento sollevava leggermente la tenda e i tetti di Parigi occhieggiavano, tra le soffitte e i camini. Poi c’era il cielo.
Federica tornò a posare lo sguardo nella stanza, sul tavolino: la cornice d’argento con Massimo e suo padre sullo sfondo del lago Vittoria. Un foglietto piegato a metà. La siringa con l’ago scoperto. Le fece male il solo vederla, come la Bella Addormentata punta dal fuso.
“Massimo” le sembrò di urlare, ma la voce era appena soffocata. Le mancava l’aria.
“Massimo” questa volta gridò e le fecero male i polmoni quando l’aria li attraversò.
Poco dopo era tra le braccia di Iris: che non aveva più lacrime, solo quello sguardo di Madonna addolorata. Chi poteva consolarla?

Iris aveva gli occhi bassi, le facevano male per il pianto. Le labbra erano una linea sottile ed esangue, le parole pesavano come macigni, lei che con le parole aveva fatto girare il mondo ora era lì in quella stanza in penombra.
“Non ho parole” Massimo diceva così, ogni volta che qualcosa lo sorprendeva, lo ammagliava, lo stupiva.
Ecco, anche lei ora non aveva parole, non ce ne erano più, le avevano usate tutte, se le erano dette tutte, parlavano senza dirsi nulla, il loro amore era cresciuto così tanto da essere passato in un’altra dimensione, al di là dello specchio, come avrebbe suggerito Alice. Si parlavano con gli occhi, si intuivano a un cenno, a uno sguardo. I loro lunghi silenzi riempivano le stanze come note.
La loro storia stava nell’orlo scucito della notte, nel cono rovesciato della luce amica di un lampione, sul cortile. Lei era il negativo di una fotografia, il suo spogliarsi per lui con lo sfondo di quella luce e il suo profilo di cigno nero che lo affascinava.
Cercava convulsa nella mente un ricordo, disperatamente come rovesciare un cassetto per trovare una lettera, un documento, una sciarpa, qualcosa di smarrito, che ti serve subito.
E si graffiava l’anima facendosi largo tra i pensieri che non volevano prendere forma.
La mano premurosa del medico si appoggiò al suo braccio: “Ascolta, è meglio che prendi qualcosa, un calmante”
Lei scosse la testa, avvicinandosi alla finestra per respirare a pieni polmoni.
No, nessun calmante, con Massimo aveva condiviso tutto, il loro lavoro, l’amicizia, l’amore, i giorni di prigionia nello Yemen, poteva ora stordirsi e non vivere con lui anche la morte?
Doveva restare lucida e fissare nella mente ogni attimo.
Cosa le aveva detto prima di chiudere gli occhi per sempre?
Paralava di Federica, della casa in Italia e poi facendosi serio e raccogliendo tutto il coraggio che gli restava l’aveva fatta avvicinare, dandole un bacio sull’angolo delle labbra, dove si disegnava una fossetta quando era seria. “Qui ci sarà sempre il mio buongiorno e la mia buonanotte”
Così aveva detto. Lacerandole il cuore ora i ricordi cominciavano a scendere in caduta disordinata e libera.

Iris si svegliò sudata, le mancava l’aria, avvertì distintamente il ventilatore a pale del soffitto, la zanzariera ricadeva su suo letto. Ci mise un po’ a mettere a fuoco dov’era e che quello che aveva appena vissuto era stato un sogno.
Appoggiò le gambe a terra pensando che non l’avrebbero sorretta, poi si avvicinò alla finestra, Baghdad dormiva, c’era il coprifuoco.
Una lucina verde sul display del cellulare indicava che c’era un messaggio: era di Massimo.
“Buona notte, tienimi con te, che questa notte fuori nel deserto fa paura”
Già quella notte aveva fatto paura anche a lei: presagio?

mercoledì 19 ottobre 2011

In senso in-verso

C'è una credenza che dice che quello che cerchiamo cerca anch'esso allo

stesso tempo di incontrarci e se rimaniamo fermi ci trova.

È qualcosa che ci aspetta da molto tempo. Appena arriva non muoverti.



Dalle pagine sgualcite del nostro quotidiano, scritte su carta riciclata e sempre nuova come le notizie sui giornali, all’alba, entriamo nel nostro caffè, che per anni è stato un punto di ritrovo.

Il vecchio Antonello alza gli occhi dal quotidiano, con quel suo sguardo impenetrabile, e un accenno di sorriso.

Eh, sì son passati un po’ di anni e un po’ di rughe, sulle facce di tutti noi.

-Caffè lungo-

-Macchiato freddo-

-Macchiato caldo-

-Un caffè d’orzo-

Ci guarda scuote la testa si volta verso la macchinetta, tanto li farà tutti e quattro uguali.

Genova se ne sta distesa tra le colline e il porto.

Tengo le mani sulla tazza, a scaldarle, la Lanterna è ancora accesa e il suo fascio intermittente entra nel bar a ondate.

Le andiamo incontro, uscendo dal locale, tirando su il bavero delle giacche a vento, e coprendoci con il cappuccio. Piove.

Le mani affondate nelle tasche e brandelli di poesie recitate su questo teatro senza pubblico e senza applausi. A braccio, come tanti anni fa.

Un gatto ci guarda riparato da una barca tirata in secca e rovesciata.

Franco ricorda il faro di Gian, che non c’è più.

La vita è un senso in-verso quando conta le assenze.

-Qual è il tuo verso?- chiede Carlo a Simone.

Li guardo, vite tenute insieme dalla rima dell’amicizia, quell’esserci comunque ancora ad afferrare un verso che racchiuda il dolore, l’amore, tutto, come un pezzo di pane, come un urlo, come noi.

-La luna in un bicchiere, dimenticata alla fine di una festa-

Un sorriso amaro mi increspa le labbra, come questo mare gonfio di mistral.

Arresi al giorno che non è più da combattere.

Poeti agli angoli del nostro passare, setacciamo la vita raccontandola in versi.

Oggi, come allora.

Quando Gian urlava la sua rabbia lanciando uova e vernice sulla facciata del Tribunale e Simone lo difendeva. Quando il tempo che è passato ci ha lasciato dei grandi ideali libri da scrivere.

Pioggia e mare su di noi oggi, a ricordare.

E un libro di Baudelaire da masticare come sabbia, lo ricordo, buttato distrattamente sul sedile posteriore della tua auto, caffè amaro e le palme.

Mazzi di basilico da comprare al mercato, vicoli stretti come un abbraccio, la musica di De Andrè come un bacio mancato.

Il senso in-verso di noi. Tra note e poesia.