giovedì 3 maggio 2012

Ritagliando cuori su vetri appannati


La sera era caduta presto tra le montagne che si tingevano d’azzurro in quella luce lavanda che si faceva crepuscolo, cornice sull’orizzonte.
L’aeroporto era vicino, si vedevano le reti di recinzione, il filo spinato e le luci che segnavano le piste. Guardavo fuori dal finestrino del taxi mentre sollevavo lo sguardo dagli appunti che stavo scrivendo.
Chiusi il notes, e tirai su il bavero della giacca.
Lea, Gilda e Marco erano già arrivati. Mi era arrivato un loro sms poco prima. Mi aspettavano al caffè del piano terra.
Faceva freddo. Appoggiai un dito al vetro appannato  e disegnai un cuore, retaggio di giochi infantili, tentazione adulta di sfuggire, almeno per un po’, al presente.
L’aeroporto di Malpensa era poco affollato, così ne approfittai per guardare le vetrine mentre mi tiravo dietro il trolley, docile come pensieri al guinzaglio.
Da lontano vidi la massa scomposta e negletta dei capelli rossi di Gilda, pare Medusa uscita da un libro del tempo che fu. Agitò la mano per richiamare la mia attenzione. E non solo la mia a giudicare dalle occhiate che riceveva. Mi avvicinai al tavolino dove erano seduti, Marco si alzò per salutarmi chiudendo il Corriere della sera, accanto a lui a terra una busta del duty-free, Lea aveva le gote rosse, la sciarpa avvolta intorno al collo, mi abbracciò e mi bisbigliò all’orecchio qualcosa all’indirizzo di Marco, lo capii da come alzò gli occhi al cielo.
Gilda mi mostrò una serie di gadget inutili che aveva appena acquistato.
Presi un caffè. È un rito e lo sanno. Infatti iniziarono a prendermi in giro sul fatto che sia l’ultimo caffè decente per una ventina di giorni.
L’aeroporto è quel luogo magico che ti pone in una dimensione di precarietà, non sei più qui, ma non sei ancora arrivato da nessuna parte, eppure è una porta ineludibile del nostro passare.
Ci avviammo al controllo passaporti.
Contando la tua assenza, numero dispari del nostro passare.
Marco mi domandò dov’eri.
Gli risposi che sei in ritardo, come al solito.
Aspettavamo che aprisse il gate. Il nome scritto in alto sul monitor aveva il sapore esotico. A Milano nevicava. Stavamo chiusi nelle nostre giacche a vento, buttati sulle poltrone, con un libro nelle mani, la musica in cuffia, sigarette spente appese alle labbra. Eri l’assenza, il tuo ritardo pesava come le nuvole scure. I biglietti, la fila, attraversare il flinger. Tu, che arrivi come sempre per ultimo. Quando io ero già andata a sbattere i pugni sul tavolo del destino. Non parli, ti siedi accanto a me, una mano distratta sul mio ginocchio, e hai già detto tutto.
Saliamo in aereo. La neve ora è una pioggia sottile.
Avverto il peso dell’ultimo passo sulla pista e poi la scaletta.
Lea, Marco e Gilda hanno la fila da tre. Tu ed io a fianco in quella da due.
Ti siedi vicino al finestrino.
Le solite procedure per l’imbarco, poi l’aereo punta verso il cielo e siamo in quota.
Ti appoggi alla mia spalla con gli occhi chiusi. Un po’ invidio la tua capacità di dormire in ogni situazione, anche la più scomoda. Io come sempre mi guardo in giro, chiacchiero con Lea.
Marco legge a voce alta un trafiletto del giornale: -Dovremmo aggiornare le nostre pagine facebook per scrivere se siamo donatori di organi.-
Ecco che esce il suo spirito medico.
-Se dovessi morire, salvami il cervello- risponde Lea.
Avrei scommesso tutto che avrebbe detto il cuore.
Gilda gli fa eco: -Io voglio che mi salvi gli occhi.-
-E tu?- mi domanda Lea.
Penso alle mani che scrivono, ma rispondo: -Il cuore.-
E di nuovo mi prendono in giro per quanto sono romantica.
Tu hai una mano aperta e dormi. Con una penna disegno un cuore sul palmo. La chiudi, solleticato dal tratto.
Sì, penso salvami il cuore.
E ricordo quando bambina mi divertivo a disegnare sui vetri appannati della cucina nelle sere d’inverno, quando la condensa del vapore creava un velo tra me e il mondo e potevo passare un dito lasciando un segno. Immancabili le sgridate, chissà perché quei vetri, a detta loro, erano sempre appena stati lavati, ma loro non sapevano che l’indomani, passato il vapore, non sarebbe rimasta più traccia del mio passare.
Ora come allora disegno cuori su vetri appannati. Si, salvami il cuore.