domenica 25 novembre 2007

Da Montmartre a Montparnasse andavamo a piedi



“Si deve appartenere al proprio tempo. Ogni epoca ha prodotto i suoi capolavori che non sono i nostri” Jean Planque

Jean Planque lavorava per la Galleria Beyeler, lo conobbi al mercato delle pulci di Losanna, l’occhio attento di chi sa riconoscere un Dubuffet, bozzetto stropicciato tra vecchi ritagli di tempo e cianfrusaglie inutili.

Falsi, riproduzioni curiose, pezzi superflui.

Vecchi.

Non antichi.

Si fermava con minuziosa curiosità sulle cornici, alzandole in controluce, cercando qualcosa di prezioso o dimenticato.

Ha raccolto per anni una collezione di piccoli capolavori, figli minori di grandi geni, Degas, Picasso, Monet.

Cammei, scolpiti come parole sul guscio duro e fragile di conchiglie.

Dalla tasca del cappotto mi porse un foglio ingiallito, piegato in due.

- Questa è Sabine- mormorò.

Si trattava di un falso, certo, anche se la firma in calce era davvero ben fatta.

Mi spiegò che cercava l’originale, non per denaro, poteva valere poche centinaia di franchi, ma per la storia che celava.

Un amore tormentato, una passione di un tempo andato.

O forse la suggestione di chi per anni cerca di svelare misteri là dove sulla tela sono semplici macchie di colore.

Sabine lavorava da un pittore, per qualche soldo, amata ad ore. La sera serviva ai tavoli nel quartiere di Montmartre, i capelli raccolti alti, fissati sulla nuca, a mostrare gli zigomi acerbi in contrasto con il corpo, morbido, minuto.

Lui, il pittore, amava dipingerla sproporzionando il gioco degli zigomi, una provocazione, come i lunghi colli di Modigliani.

Le regalava uno sguardo di superbia, gli occhi erano così chiari da sembrare la superficie increspata dei mari del nord. Lineamenti duri a sposare l’abbondanza delle forme, la generosità delle curve tra le lenzuola. Dopo.

Pre-cubismo?

Dicevo, la sera lavorava in un bistrot, si respirava odore di sigari, gli scrittori ebrei stavano sempre in un tavolo vicino alla finestra dai vetri appannati, parlavano piano, fitto tra loro.

Cercavano ispirazione. Si diceva.

Intanto nei loro bicchieri restava l’aroma di assenzio.

I pittori sorseggiavano vino scadente e cercavano donne facili con cui fare nottate. O forse solo la notte.

Nei vicoli i gatti miagolavano, magri, affamati e le risate dei locali ondeggiavano tra le fiammelle delle candele e lische di pesce, avanzi di povertà.

A volte qualche ragazzo un po’ brillo cercava di abbordare Sabine, ma c’era sempre chi sapeva, chi li zittiva.

-Come? Non era al corrente? Lei era la modella nella stanza del pittore.

-Excusez moi- mormoravano abbassando lo sguardo.

Poi lo rialzavano, immaginandola a fare muffa su una tela nella cornice erosa dai tarli. Magari appesa al Louvre. Pittori.

Fece un provino per Le Chat Noir e la scelsero per una parte, le scrissero.

Arrivò la lettera e la padrona di casa la portò su nella soffitta, sotto i tetti di Parigi, dove viveva, apostrofandola:

-Dì un po’, non avrai creato qualche problema? Io qui la Gendarmerie non ce la voglio-

Sabine non sapeva leggere. Infilò la lettera all’interno della cornice di uno specchio senza aprirla.

Sfumò l’occasione di una vita.

Il teatro rimase immobile, chiuso in una scatola, così l’eco di giovani passi fruscianti in taffettà, il parterre silenzioso, gli applausi in tasca, musica ferma di un carillon spezzato.

Ci fu la guerra e di quelle tele non si parlò più.

Poi un incendio a cancellare la parentesi parigina.

Qualche fortunato deve conservare i ritratti appena abbozzati di Sabine.

Perché un amico mi ha mostrato la lettera nello specchio.

Nulla va guardato con superficialità tra le bancarelle dei mercatini di cose vecchie.

Da Montmartre a Montparnasse andavamo a piedi.

Contando il resto di una vita in avanzi di monete straniere al mercato. Soldi sulle dita, abaco di pensieri.

domenica 18 novembre 2007

Una barca vacia sin palobres
















Una barca vacia sin palobres

llevadas en alto del viento

fregando los piedros del mar,

nido de gaviotas solitarios,

para encontrar el camino

de plata de los olivos.

Recogo ibiscus

como menchas del corazòn

sobre la tierra àrida.

Y me siento naufraga,

come una barca vacia sin palobras.

Una tela apoyada

a una melancolìa,

humedesco mis cabellos,

mojadas con agua de mar,

a dibujar una emociòn:

tu ausencia






(Immagini di Barcellona-2006)

domenica 11 novembre 2007

Rennes-le-Château et huile de Lavande

















Era estate quando navigarono mari di lavanda in terra di Francia.
Citron nei cesti dei contadini.
All’abbazia di Notre Dame de Senanque le campane tenevano il tempo con il cicaleccio delle donne e i rosari da sgranare come petali di gelsomini.
Al frinire incessante delle cicale, rispondeva l’eco lontana di Nostra Senõra del Pilar.
Molto lontana.
Si arrampicava una via dal mare, nascosto in gusci d’ostrica dal riflesso perlaceo e attraversava campi autunnali e solchi di terra.
Semi nudi a germogliare parole di pane quotidiano.
ECCE PANIS ANGELORUM FACTUS CIBUS VIATORUM
Un uomo camminava, seguendo la voce dei fari di Provenza, luce silenziosa per i viandanti.
Portava monete romane nella tasca e il sigillo di Salomone sulle labbra.
Santiago era un altro cammino, per piedi scalzi e orme fedeli.
Al di là delle montagne, più in là dell’inverno si stendeva la terra di Bianca di Castiglia.

Huile de Lavande

A Rennes-le-Château la nebbia saliva leggera de un automne in cornice e monete nascoste.
Dipartimento dell’Aude in Linguadoca.
Asmodeo a bere dalle acquasantiere. Béranger Saunière era morto molto tempo fa, e la sua lingua prima di lui.
Con lui una leggenda.
Da disseppellire, (Gesù cade per la terza volta)
da cercare, (abbi pietà di noi)
da interpretare. (cantate un canto nuovo)
Le donne a pregare.
Miséricorde, pitié
Irriverente e blasfema l’offesa degli altari a celare sigilli di cera.
L’uomo in ginocchio a raccogliere una benedizione, nella navata laterale, tra la terza e la quarta mattonella di marmo, dove il pavimento è tagliato in rombi bianchi e neri.
Bianchi e neri.
In scacco la vita.
Un fascio di luce a cadere nel solstizio d’inverno, nell’ora perfetta e l’ombra esatta del segno di Croce.
Parlava latino l’iscrizione sulla parete, e tra le lettere, la serratura.
Rotolato un calice tra le note prigioniere del coro.
Una donna vestita di nero nascosta tra le sue rughe.
Una donna qualunque. Qualunque donna.
L’uomo si rialzò, percorse la navata e uscì.
Molti anni dopo.
L’ombra dei Pirenei cadeva verticale, nella sera di Dicembre.
Incontrò quell’uomo su vie romane, nel riflesso di una vetrina.
Gli domandò del tesoro di Rennes-le-Château.
-Era l’amore. E mi ha lasciato molto povero-
Se ne andò, e con lui l’aroma di huile de lavande.
Di una donna qualunque. Qualunque donna.








Amen












Le immagini sono tratte da: http://www.cathares.org

venerdì 9 novembre 2007

Bulle de champagne

















Pour l’amour d’une bulle

Lisa era arrivata alle prime ombre della sera, di una notte magica.

L’aeroporto e le valige, poi il bus, le auto, i turisti, e infine eccola, la Tour Eiffel.

Era a Parigi.

La notte più folle dell’anno.

Aveva cercato di non pensare, di non sperare, guardando i palazzi e i monumenti sfilare davanti al finestrino.

I capelli raccolti in un basco bianco, come le sue unghie, troppo corte, troppo poco parigine.

C’era un vociare allegro intorno a lei, a intermittenza i flash illuminavano il buio, cartine della città, e qualche brindisi in anticipo.

Souvenir.

L’autobus fermò davanti a le Méridien.

Lei guardava l’orologio, poi decise così all’improvviso, scese, la sacca a tracolla, le mani in tasca, la bocca che si faceva fumo.

Nei suoi vent’anni, maldestri, inesperti e colpevoli.

Che poi erano venticinque, ma il tempo lo aveva fermato là, in quei cafè parigini.

Cinque anni prima.

Sì, cinque anni prima aveva vent’anni.

Lei era lì per scrivere, lui tornava da una guerra, l’ennesima, l’ultima missione.

Narrano leggende metropolitane che da Montmartre si erano spostati a Montparnasse, e lì si aggiravano, come in sogno, anime stravaganti o raffinate, estete o blasfeme, eretiche o condannate, di poeti e artisti, ballerine e nobildonne, clochard e spacciatori, condottieri e uomini dell’Est.

La sua anima era nata lì.

In una soffitta sulla Senna.

Léonard l’aveva ritratta, vestita, spogliata, in lacrime, stanca e felice.

Colori.

Luci e ombre di quella Parigi a gambe aperte, un po’ puttana, un po’ signora irriverente e stanca.

Forse l’aveva anche amata, facendone dono, presentandola a Pierre, Napoleon, nome in codice.

Lisa si fermò davanti all’Arco di Trionfo, gli Champs Elysées ridevano di luci e lei era ubriaca di gioia e suoni, un’altra notte, l’ultima, forse.

C’era folla, e cominciava a piovere.

Di un pianto sottile, che il basco riparava, appena i capelli, sfuggiti, a incorniciarle il viso.

Davanti a Fragonard si esibivano ballerini sudamericani e l’aria profumava di fragranze provenzali, nipote di quella terra che amava.

Fece le scale di corsa, due gradini alla volta, premendo il dito sul campanello.

Il viso di Léonard non era stupito.

“Napoleon?” domandò.

“Certo, anche per me è una gioia vederti, sto bene, sì…e tu?” la provocò lui.

“Scusa, rifacciamo, ciao, come stai, io bene, allora dov’è Napoleon?” e attraversando la stanza arrivò davanti alla porta del bagno cominciando a spogliarsi.

“Ho bisogno di una doccia, se non ti dispiace”

Léonard scosse la testa, sì, era matta, matta davvero.

Uscì poco dopo con i capelli avvolti in un turbante, scalza, gocciolando acqua.

“Pierre stasera è al Lido, ma sa che sei qua?”

Lisa non ascoltava più, dalla sacca tirò fuori lo smalto rosso e le sue mani diventarono molto parigine.

Uscirono lei e Léonard, per le vie affollate, tenendosi sottobraccio, raccontandosi un po’, mentendo, ridendo, ricordando.

Cenarono all’angolo di una malinconia, anche le candele sui tavoli.

Camminarono lungo gli Champs Elysées, fermandosi davanti alla scritta azzurra del Lido.

Voci e fumo, belle donne e sigari, calici e festa.

Pierre la vide subito, alzandosi scocciato, le mascelle rigide, sorrise a un paio di persone che lo avvicinarono, ma mentre copriva il terreno tra loro due si capiva che era guerra.

“Lisaaa, ma che piacere” disse afferrandola malamente per un braccio e chiudendola contro una parete, spalle al muro.

“Che diavolo ci fai qui?” sibilò.

Poi tornarono con gli altri ignorandosi per cinque minuti.

Fu tregua armata, il resto della sera.

Aggirarsi, studiarsi, colpire per primi.

Rimasero fuori tutta la notte.

Il mattino dopo si svegliò tardi anche l’alba.

Rientrarono a casa di Léonard, solo per litigare.

Si può essere fedeli ad un’ amante?

C’erano ancora molte cose di Pierre, in quell’appartamento, comprato insieme, due amici e una donna.

Lei, Lisa.

Quando era arrivata Napoleon affittò per loro una soffitta a le Tuileries.

La tenne nella sua vita e in quella stanza come un quadro, per quattro anni.

Sfibrandosi, fin all’ossessione di lei.

Troppo lei.

Sfumata, percepita, non definita, l’infinito, questo era lei.

Aveva conquistato terre, non poteva conquistare o possedere un’idea.

Lei era un calice di champagne che va bevuto con tutte le sue bollicine.

Se lasciato lì, svapora.

Muore.

Diventa un vino di terz’ordine.

Il vecchio ascensore scricchiolava, mentre a piedi saliva la vecchia Madame Lora con due baguette, li osservò, salutando Lisa.

“Mona Lisa, è tornata?”

Pioveva.

Attraversarono gli Champs Elysées fin all’obelisco, litigando più volte e facendo pace.

Nei giardini de la Tuileries lui le si avvicinò.

Lei aspettava un bacio, almeno uno.

Lui le tolse un capello scuro dal cappotto chiaro.

Lisa chinò il capo piangendo.

“Compriamo una casa” disse lei.

“Per restare da soli? Dai Lisa sii realista, tu e il tuo lavoro io con il mio, rischieremmo di non trovarci mai”rispose Napoleon.

Lei, gli occhi e la voce di pianto, lo prese per mano correndo verso la ruota panoramica, lui si lasciò travolgere, un’altra volta, una ancora, l’ultima si promise, ubriaco di lei, una bambina le guance rosse e quel sorriso.

Quel sorriso.

Poi entrarono al Louvre e lei rientrò nel quadro.

Sotto c’era scritto: Mona Lisa.

Oggi, il primo gennaio il Louvre è chiuso e lei può piangere senza dover regalare al mondo il suo sorriso.

Quel sorriso.

Che Leonardo dipinse e Napoleone amò.



(Parigi, 31-12-05)