venerdì 21 novembre 2008

Ritratto naif au savon de Marseille




Modì, Manu’, Francine.

La terrazza si affacciava sul golfo, quel giorno il mare era di azzurro carico, a tratti sfumato di turchese, e il paese si adagiava dalla collina alla spiaggia, un quadretto naif, di quelli che piacevano a Pierre.

Attraversavamo gli Champs-Élysées calpestando un tappeto morbido di foglie dal colore caldo, ambrato, come un bicchiere di cognac, una mezzaluna sinuosa e ondeggiante come quei giorni a Istanbul. Parigi di assenze. Di cartoline mai spedite, di camere con vista su moschee e minareti.

La parola dei muezzin e nuovi dei. Cartelloni pubblicitari a rincorrere il miraggio di un illuso benessere. Quando anche Parigi era una chimera e le serate davanti alla scritta azzurra del Lido, a tirare l’alba, annunciata dalle campane da l’Ille, Notre Dame, ora pro nobis.

Ci pensammo tardi a collezionare foglie appassite e rughe per i nostri anni a venire.

Biglietti d’aereo comprati così, senza pensare e valigie mai disfatte ai piedi del letto. E noi stare distesi e nudi ad aspettare che gli Champs-Élysées si vestano da sera, per scivolare con una crociera sul Tamigi, certe notti che il sonno non arriva.

Modì camminava lentamente lungo la banchina della stazione per ingannare l’attesa. Manu’era rimasta seduta ai tavolini azzurri del Bar du Cap, a leggere Nice Matin, voleva che l’amica vedesse da sola Francine.

Già Francine, che le aveva telefonato poco più di un mese prima. In fondo Modì un po’ se l’aspettava quella chiamata. Una sconosciuta terribilmente legata alla trama della sua vita, il passato di macerie su cui lei aveva eretto un tempio glorioso, di parole fatue, di attimi così brevi da domandarsi se mai fossero stati tessuto fertile del reale.

Sapere, conoscere quel passato l’aveva salvata. O forse condannata a vagare i gironi del suo inferno personale, ascendente, spirale di parole rubate a un telefono, a una voce che da sola riempiva una stanza, inondandola di sole, facendole venire voglia di ballare, di cambiare il posto dei mobili, di pulire la casa, di sentire nell’aria l’aroma di savon de Marseille.

Lui, a volte vicino, più spesso in mille posti del mondo, e il viva voce con lei che riempiva l’auto di note accordate al tocco sapiente delle sue dita.

La bouganville lungo il muro perimetrale della villa era un trionfo di sfumature lilla. Quell’anno il viola era di moda, se ne doveva ricordare, comprare qualcosa di quella tinta, un maglione o un paio di calze.

Un campanello annunciò una voce metallica che informò dell’arrivo del treno al binario due. Modì alzò lo sguardo incontrando il numero stampato sul fondo bianco: binario due.

Attendevo nell’atrio del teatro il tuo ritardo. Stretta nell’impermeabile fradicio di pioggia

-Perdonami, su facciamo presto, che inizia l’opera-

I fuochi d’artificio salutavano un nuovo anno.

Bon'Année. Bon'Année.

E le bocche si facevano di fumo. Nuvole di drago nel centro di Parigi come per strada a Hong Kong. Tanti anni prima. Ricordi?

Modì si riscosse dai suoi pensieri. Le mani nelle mani e mille pensieri che a ricordarli, in quel giorno sarebbero stati un groviglio scomposto di emozioni da dipanare.

“Menton. Gare de Menton”

Francine portava un vistoso paio di occhiali da sole, per il resto era vestita sportiva. Si scusò del suo abbigliamento osservando Modì, forse un po’ troppo naif, di sicuro terribilmente francese.

Parlarono della moda, per dissimulare l’imbarazzo. Mentre le ruote del trolley le seguivano per le stradine.

Lo studio di Modì si apriva su un’ampia vetrata da dove si vedeva il mare.

Francine osservò discreta che si aspettava di trovare qualcosa del pittore, di quell’uomo che a sua volta aveva provato ad amare.

Modì scrollò la testa, era proprio quello l’errore, l’incapacità di porre la storia nella giusta ottica.

L’amore doveva andare oltre, così lontano dal pensiero comune fatto di quotidianità, qualcosa più simile a immolarsi di assenza. Consapevole di avere così, qualcosa di molto vicino alla metà del cielo. Come diceva nel suo libro. L’atra metà della mela, attenta sempre a non scivolare, mai più, mai più su quelle due parole che avevano decretato l’inizio della fine.

Francine, non capiva, scuoteva il capo e non capiva. Aveva letto il libro e si era riconosciuta, ma oltre non poteva andare e forse nemmeno le credeva.

Modì era lì davanti a lei e non tradiva sofferenza, così le sue parole vergate con tratti naif. Lei in quella terra di Francia, au savon de Marseille.

Andarono a pranzo in un locale sul mare, le raggiunse anche Manù.

Parlarono di viaggi, di politica e poi di lui.

“Grazie”

Lo disse Modì, e Francine non capiva. Una vita intera passata a cercare di cancellare, giorni di solitudine così vicina alla disperazione, del disegno delle vene così prepotente sotto la pelle da voler fermare tutto quel dolore. Poi si affacciarono giorni lividi come onde di rabbia e unghie a graffiare via un volto tanto da non ricordarne che i tratti, sfumati. Naif.

E ora il nulla, l’indifferenza. No, non capiva come Modì avesse potuto pagare un prezzo tanto alto, avvelenandosi d’amore. Perché questo era. E non doveva ringraziarla, perché quando avrebbe capito, sarebbe impazzita. Ma questo lei non voleva dirglielo.

Si salutarono alcuni giorni dopo. Mentre il treno scivolava tra l’oscurità e i riflessi nei vagoni Francine, sfogliò ancora una volta quel libro.

L’autunno era alle porte. Modì si strinse nella sua mantella, rientrando dalla stazione. Avrebbe dovuto andare giù alla grande casa tra i vigneti a Gonfaron. Lui l’avrebbe raggiunta là. Anche se per poco. Era come ricevere il regalo di Natale più atteso. E ora che l’aveva avuto non c’era un libretto d’istruzioni. Quanti funerali con Manu’ per seppellire il ricordo in un cappuccino. Sorrise, quello era il passato. Oggi si stringeva nel suo equilibrio e che Francine non lo volesse ammettere, non importava. Quella donna le aveva insegnato a fare un passo in più.

Amanti. Entrambe. Quasi vedove dello stesso dolore. Ritratti diversi.

In fondo lei rimaneva Modì, per il pittore. La sua Modì.

domenica 2 novembre 2008

L’ombra umida del mare di ponente





Le navi se ne stavano immobili, attraccate ai moli, dove i gabbiani si fermavano a riposare. In attesa di partenze improbabili si imbarcavano sulle cime tese, clandestini di un restare là. Dove non furono mai.
Gli aerei passavano alti lasciando a noi una manciata di scie e l’interrogativo della loro rotta da indovinare. Una manciata di scie nelle tasche e bottiglie abbandonate, vuoti a perdere e lettere, messaggi a mare, da tirar su con un congiuntivo.
Un cane stava accucciato su un mucchio di vecchie corde arrotolate su stesse, come un grosso serpente, da far esibire al suono ondeggiante e ipnotico di un flauto.
Rotte di caduti venti occidentali.
Il cane osservava il via vai dei mezzi pesanti sulle banchine del porto, vestiva i panni di cane guardiano dei grossi silos di grano. Abbaiava agli uomini, mentre una fila disordinata di gabbiani rubava dai sacchi vicino al deposito.
L’uomo passò di là allungandogli una carezza attraverso le sbarre del cancello.
Il cielo si stava coprendo di una sottile velatura, c’erano ancora due ore di luce prima del tramonto.
Poi la notte avrebbe inghiottito tutto, anche le ombre leggere e umide che l’alito del mare appiccicava alla banchina.
Le navi incrociavano nelle acque del porto seguendo le rotte per l’America.
Già l’America che aspettava distesa al di là della nebbia che si levava sull’oceano.
Quell’America che l’uomo teneva in un cassetto da una vita, un indirizzo scritto di inchiostro sbavato sul retro di una busta ingiallita.
Viaggi di carta. Leggeri e impalpabili come le scie di aerei. Porcellane d’ossa.
E l’America. Di là del mare.