venerdì 14 agosto 2009

Le donne di Algeri




Nella gabbia vicino alla finestra un uccello cantava

Penso si trattasse di un usignolo, non meglio specificato il suo canto simile a un pianto, dalla traduzione dall’arabo di vecchie lettere.
Sì, penso un usignolo.
“Era l’usignolo, non l’allodola” parole dal palcoscenico, vecchio teatro di dispersi.
Fatma percorreva con un’andatura lenta il sottile tratto di sabbia che la separava dal mare, dove allevava malinconia e solitudine come vacche magre.
Fatma la pazza.
Fatma che attraversava le vie di Algeri con lo sguardo fisso.
Da tanti giorni. Da quando avevano bruciato la sua casa.
1945
Via dal fumo che stordiva e faceva sbattere le braccia delle donne contro le pesanti grate, dove potevano vedere senza essere viste. Vite parallele.
Bianche colombe per l’ultimo volo.
La città brucia.
Scappare via, scappare.
Scalza, con l’abito lungo della notte, imbastito nell’orlo del buio, la strada fino al mare.
All’alba, che poteva essere il tramonto, la lettera scrive che il sole si faceva scaglia dorata tra le onde.
Stava un uomo fermo vicino agli scogli. Alzò lo sguardo, aveva il viso sporco di fuliggine.
Fatma si fermò. Con un gesto antico e lento levò una mano sul capo, scoperto.

La fedeltà non è un chador

Poche parole, come si conveniva.

“Che Allah ci protegga”

“Sia come tu dici”

Una pioggia do proiettili crepitò sulla sabbia. L’uomo cadde.
Dietro le grate delle case le donne di Algeri sono fantasmi dei muri. Aroma di cus-cus nei cortili chiusi. Le senti ridere nei bagni pubblici, simili agli hammam. Acqua. Assenze. Dis-presenze.
Nude presenze, ombre di hennè a disegnare la pelle, seni come coppe rovesciate, quarti di luna, vetri di aridi deserti. Coltivando oasi nelle gobbe ondeggianti dei cammelli.
Pensieri.
La gabbia aperta: l’usignolo vola per un po’ nella stanza e poi rientra alla sua prigione.
Come le donne di Algeri.