Visualizzazione post con etichetta Picasso. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Picasso. Mostra tutti i post

venerdì 20 novembre 2009

Si firmava Pablo Y Ruiz



Zingaro bugiardo a cercare tra i colori il taglio netto di luci orfane alla finestra di un tramonto, di giorni felici.

I passi due alla volta dispari con il cuore e i rintocchi di S.Maria del mar.

Parole mendicate sui gradini della chiesa “Io ti…” restano ferme nella gola come marmo appeso al collo da far naufragare pensieri sterili.

“Io ti…” di un tempo andato, tanto tempo fa.

Grandi falsi d’autore.

Parole nuove

Scendimi in verticale il tempo del perdono.

Bugiardi gli occhi e le parole. Quelle mai dette. Dimenticate, quotidiani sui treni, già vecchi.

Uno specchio incrinato a falsare anche il presente. Un taglio sul viso.

E un altro quadro.

Vernici a seccare. Giù in strada. La tela su una sedia e il sole obliquo d’autunno a tagliare di netto la luce sul carrer.

Violinisti e monete straniere.

Eco di mare dalla bocca delle conchiglie

La cenere appesa alla bocca consumava il presente, mentre il mare andava e veniva sulla battigia, seguendo un filo di pensieri, forse appesi a un quarto di Luna, ancora nuova. Curioso il tempo delle cose dopo milioni di anni.

Il tempo dei colori, indelebili, che restano dopo di noi.

Ah, la notte, buia di mare appeso agli scogli. Di gatti lamentosi. Non dormono.

Tratto perfetto, nascosto, inseguito da linee, confuso sussurro di chiaro-scuro.

Un tratto su un foglio, che non sapeva stare fermo. Inseguiva se stesso. Come un mago a cercare magia da due soldi da un cappello rovesciato.

Cornice perfetta orlata di tarli. Il presente.

Gli occhi del tuo tempo già stanchi di astratta perfezione, il cammino indeciso di un cuore in scacco con il tempo. Il non tempo dell’amore.

Vieni e perdona questo spirito errante, mano naif sui giorni uguali, a mendicare un’opera buffa.

Sì, che non sia tragedia.

“Io ti…” che ormai hai dimenticato, tra fessure socchiuse, tra le palpebre e gli occhi.

Avvelenato di colori e forme. Sedeva il pittore. Sedeva a un passo dal mare. E aveva perso il conto dell’eterno movimento di onde. Che vanno, vengono. Moto perpetuo dell’acqua.

Ne aveva perso il conto, come chi ogni notte conta le stelle, e poi si confonde e ricomincia. La danza antica.

Una tela. I colori. E un’idea. Sempre la stessa.

Si firmava, Pablo Y Ruiz.

sabato 7 novembre 2009

Storie da un penny e Bourgogne



“Cuerpo de mujer mìa, persisteré en tu gracia.

Mi sed, mi ansia sin lìmite, mi camino indeciso!”

(P.Neruda)

L’autunno aveva sfumato la città di bronzo e rame. Parigi aveva l’aroma ambrato, come un bicchiere di cognac da sorseggiare la sera, come si faceva su, in Normandia, davanti al camino, arrostendo castagne.

Viola girò la chiave nella serratura della sua piccola bottega, il campanello trillò quando aprì la porta.

L’odore dei colori a olio le si posò addosso come sulla tela, profumo levigato di vernici e legno, di polvere e di muffa. Il segno del tempo trascorso. Non passato.

No, perché il passato era ancora molto vicino, era un tempo imperfetto fatto di avverbi di tempo come “mai più”, gusto di assenzio e uno zuccherino al laudano.

Aveva un atelier in Rue d’Orsel, un capriccio per la sua famiglia, per lei un piccolo orgoglio.

Era riuscita ad allestire una serie di mostre itineranti, di pittori minori, sconosciuti, riscuotendo un discreto successo.

Il fascino del diverso. La nuova moda, cavalcando l’onda del “trendy”, cucendo il fascino e il mistero sulla vita di pittori Don Giovanni e gigolò, artisti squattrinati come a Montmartre. Mezzo secolo prima.

Anche Picasso aveva un debole per Parigi

Accese le luci, controllò le mail, sfogliò Le Figaro, poi si ricordò del pacco che le aveva consegnato il corriere la sera prima. Pioveva. La carta si era inumidita. Aveva preferito aspettare ad aprirla per non rischiare di sciupare il contenuto.

La lettera diceva poco dell’autore, ma non aveva importanza, era lei che creava leggende, che popolava i castelli di fantasmi, che girava Parigi come una gitana.

Una volta chiese anche l’elemosina all’uscita di un chiesa per capire cosa si provasse a leggere gli sguardi sfuggenti della gente che finge di non vedere. Clochard, anime trasparenti. Antipatiche se parlano, se chiedono con la mano tesa perché diventano lo spettro di una drammatica presenza.

Le diedero poche monete che si affrettò a versare nella questua recitando l’Ave.

Parigi quel giorno doveva essere bellissima si fermò a pensare Andrè affacciandosi alla finestra del suo albergo su Central Park. Fotografò con lo sguardo il caleidoscopio di colori autunnali, un bicchiere di brandy nel cuore di Manhattan.

È triste bere da soli

Spense la sigaretta. Rimase un attimo immobile, quasi a inseguire un pensiero. Poi afferrò la sciarpa e la giacca. Lasciò le chiavi alla reception e uscì.

Lei rispose al terzo squillo.

“Hallo?”

“Ciao”

“Ciao. In che parte del mondo sei?”

“A new York, e tu?”

“A Parigi”

“Vorrei che fossi in ogni città in cui vado”

Se prolungassimo all’infinito le strade, cercando il punto che unisce due distanze e insieme le separa, sarebbe più facile incontrarsi, quasi per caso. Un gioco di linee.

New York era magica in quel periodo dell’anno, l’atmosfera di un Natale in anticipo si respirava ad ogni angolo e Viola guardava rapita le strade dal finestrino del taxi.

La mostra itinerante, le linee morbide del Guggenheim, la folla e i suoi quadri.

Lo vide. Era di spalle. Parlava con un giornalista.

Viola passeggiò tra le tele.

Anche lui la vide.

“Ciao”

“Ciao”

Il colore vestiva le tele spogliando i pensieri gravidi, muti come mimi sulla Rambla, tanto tempo prima, una città al di là dell’oceano, in Europa. Ricordi.

Quando uscirono pioveva.

Si fermarono sulla Quinta a sorseggiare un brandy.

Avevano un tavolo prenotato a Brooklyn.

Avrebbe atteso a lungo

giovedì 11 dicembre 2008

Pinturas. Oil on canvas



Al MoMa c’era una mostra itinerante e il pittore se stava seduto a terra con le gambe incrociate su una stuoia in smidollino chiaro. Pareva uno di quegli incantatori di serpenti che ti trovi davanti in certi bazar e mercati all’aperto viaggiando verso oriente.

Cercatori di perle

Dalle vetrate scure si intravedevano i grattacieli e la vita che scorreva attraverso le finestre.

Olio su tela, due mani a sorreggere il mento, allungato e un po’ triste di due occhi che frugavano oltre me, come se dietro ci fosse il vero interesse dello sguardo.

Pezzi di vita, scampoli di un normale presente con la messa a fuoco sbagliata, uno di quegli scatti che ti sfugge, mentre non pensi, non inquadri. Colpendo in pieno un sentimento. Qualcosa di Roma, distratta madrina di una sera di Novembre, o forse sullo sfondo il chiarore di certe vie di Montmartre.

Così una manciata di attimi a ricomporre un vita. E due mani a riscaldarsi o a celare un volto. Forse solo a nascondere uno sbadiglio.

Cacciatori di perle si raccontavano aneddoti su alligatori albini nelle fogne di New York

Canovaccio sgualcito e macchie di colore. Pinturas. E il lamentoso intercedere ritmico di un flamenco. Comprare una rosa sulla Rambla e andare a letto quando l’alba incalza.

Dipingere così, imbrattando il presente per renderlo irriconoscibile, salire la scala mobile della metro e trovarsi trapiantato a Central Park.

Questa sera hanno acceso l’albero di Natale davanti al Rockfeller Center. Come accade da un po’ di sere ormai. Volevo raccontartelo, mentre passeggio sulla Quinta e penso che stasera andrò a cena nel Queens.

Stretto nelle mani il volantino che racconta una mostra itinerante. Pinturas. Qualcosa di buono per essersi guadagnato una sala a New York. Ma tu lo sai bene, sfondi solo se passi da queste parti e se qui rimani appeso alle pareti. Abbastanza a lungo per diventare storia contemporanea. No il nome ora mi sfugge, ma è un artista indiano. Un orientale. Lo sai che però ho un debole per Pablo.

Picasso aveva un debole per Parigi

Qualche vecchia foto, cartoline scritte con un inchiostro spesso ma senza sbavature, quello che la clemenza del tempo aveva lasciato. Di loro due. Li incontrai a Parigi. Poi ne persi le tracce.

domenica 25 maggio 2008

Mujeres sobre fondo negro


“Il seguito lo conosci già, perché lo abbiamo vissuto assieme. La sera in cui ci siamo conosciuti mi chiedesti di raccontarti la mia vita. È lunga ti ho avvertito. Non importa, ho molto tempo, hai detto, senza sapere in che pasticcio ti mettevi con questo piano infinito.” I.Allende



Voltate sulla faccia del tuo desiderio,

le mani strette a pugno,

i corpi inarcati e tesi,

deflessi alla tua voglia,

insaziata,

colpevole,

assolta.

Ora

corde morbide di un arco a riposo,

gambe arrese, mani aperte a contare le cinque dita.

Due bocche, quattro porte sulle labbra,

di una pelle chiara,

sullo sfondo di lenzuola bruciate.

Nera la passione

della tua frontiera

di donne su sfondo nero,

dipinte e conquistate,

ora

giacciono nella tua mente,

ricordo obliquo e scuro,

in questa cucina,

pennelli e colori,

ancora bagnati di voglia,

Malaga o Madrid,

ceramiche, da firmare con un nome.

Le tue mani tremano nell’assenza

e frughi ogni anfratto, ogni bozzetto,

fino ad impazzire, di lei,

di lei.

Fermata in quel secondo esatto del suo viverti addosso.

Respiri un’altra sigaretta, è lì, da dove non potrà più fuggire.

Lì che migliaia di occhi distratti non sapranno,

ne seguiranno l’armonia di curve,

apprezzeranno la bellezza,

invidieranno il genio.

Ne hai ucciso anche l’ultimo riflesso,

è lì.

Sono lì, nel giro ovale di una ceramica,

senza ideale inizio

o

giusta fine.

Sono solo

Mujeres sobre fondo negro

(Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)

giovedì 10 aprile 2008

Hombre sobre azul

Picasso






La notte cola piano i gradini sulle ombre morbide degli avanzi di un vino straniero.

Ecco cosa resta dell’azzurro ferito dalla scia di un aereo,

su questa scala a scendere di pietra

l’ombra di una chiesa,

un uomo.

Le due del mattino, non suonano di

notte

le campane di questo paese,

note,

che il colore della tua ombra domani sarà eredità d’azzurro.

Hombre sobre azul

Del tuo viso appoggiato alle mani,

pesa il tuo viverti solo ma basti a te stesso,

ombra d’uomo

nel riflesso di quel che resta di lacrime

cade in “si” bemolle,

mollemente appoggiato al mio cuore.

Scende il sipario di palpebre sugli occhi

e quando le ciglia solleveranno il velo rammendato

non sarai più lì,

o forse avrò solo spostato lo sguardo di qualche grado

sulla bussola a inseguire cardinali i punti opposti al nostro esserci.

Rintocco a svegliare il giorno,

vecchi i tuoi pensieri lasciati come muffa sui gradini di pietra,

di una vita senza assi per il full,

chiodi sulle dita,

per un bozzetto fermato

a

ingiallire.

In verticale il mio parlare,

rovescia il foglio e sfila hombre sobre azul,

il tuo lento morirmi dentro.

Ad occhi aperti

dormire gli incubi,

che in fondo la cenere è quel che rimane di una sigaretta.

Hai da accendere?

(Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)

domenica 6 aprile 2008

Il pittore e il gatto naif

Picasso



Pinar del Rìo.

Lei stava distesa su un fianco la mano a sorreggere il viso e i capelli ad accarezzarle la schiena nuda.

Le gambe giocavano a nascondino con le lenzuola stropicciate, come una vestale a uscire dal marmo prima che lo scultore l’avesse plasmata.

Capricciosa come una voglia di fragole, posava per un ritratto che voleva.

Il pittore guardava la luce calda che filtrava dalla finestra, al Pinar del Rìo cadeva obliquo il tramonto, e le piantagioni di tabacco sembravano un esercito di mendicanti alla sua cena povera.

Dalla porta socchiusa entrò il suo gatto, vide la coda alzata seguire il perimetro del letto.

Miagolò.

Si leccò una zampa. Lei lasciò cadere una mano ad accarezzare il mantello soffice, lo sguardo annoiato.

Allungò l’altra mano per prendere il bicchiere sul comodino: vuoto, solo l’aroma del rum a ubriacarla. Puntò verso il pittore l’indice e il pollice mormorando Bang-bang.

Si alzò, le curve del suo corpo scivolavano lungo il corridoio.

Il rumore della doccia e la suo voce che cantava “Goodbye Philadelphia…”

E l’America si srotolava su lunghe vie d’asfalto, e deserti e ponti e città.

Lui tracciò poche linee sul foglio, la curiosa visione naif di cacciatore e preda, le movenze feline della donna e la sua voglia. Di un pomeriggio e la sua isola. Di movimenti nel letto sensuali come un tango di sguardi e di mani che seduce, anche dopo mille anni.

A Santo Domingo, poi i pittori vendevano tele ai turisti. Ma questa è un’altra storia.



Dal quaderno di Pablo Y Ruiz

giovedì 13 marzo 2008

El violinista del carrer



Ho visto passaporti

sostare alla frontiera di una malinconia

e

valige piene di sogni e di preghiere.

Vecchie case inginocchiate,

di guerra e bombardamenti,

abbandonate all’ombra di una promessa.

Ho raccolto note

tra le canzoni

di un violino appoggiato tra il collo e la spalla,

l’archetto a disegnare vetri appannati di perché,

cappelli rovesciati di monete e di preghiere,

da contare come carezze per un cane.

Sono le voci dell’Est.

Ho visto il suo passaporto

sostare alla frontiera di una malinconia,

quando si traduceva Neruda, regalo di un amico lontano,

“Mi sed, mi ansia sin limite, mi camino indeciso!”

Era il violinista del carrer,

figurina sfuggita all’orchestra nomade,

spartiti stropicciati, tagliati di linee,

dove le note restano a giocare sulla scala dello scivolo di una melodia.

E un angolo di piazza ti rapisce per mano

come un Minuetto, che non sai più il posto dove vivi,

distratto nella memoria di un’aria lontana.

Lui è il violinista del carrer,

una moneta perché suoni la tua malinconia e la mia assenza.

Di passi sulle Ramblas, tra mimi distratti,

lampioni di Gaudì a Placa Real,

semafori spenti sulla Diagonal,

el Paseo de Gracìa, la sera, era solo un quartiere.

(Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)



Barcellona, Aprile 2006


sabato 15 settembre 2007

Las Meninas










“E se non stai buono” aggiunse Alice “ti faccio andare nello specchio” Lewis Carrol

Dentro la cornice nera come fuliggine c’è la prova dell’illusione, fatta di realtà virtuale e presunta.
La sala è buia, il quadro è al centro della scena, ma dov’è la scena?

Las Meninas

Museo del Prado e una pioggia battente all’uscita mentre Foucault appoggiava la pipa alle labbra, lasciando disperdere nell’aria onde di tabacco trasparente.
Quell’ora incerta, di luce obliqua, molto prima del tramonto rovesciata da un cielo di piombo a tuffarsi in una pozzanghera.
I pensieri in ordine e un’occhiata alle finestre alte, solo custodi di un mistero, un enigma, un gioco forse, si trattava di cogliere la giusta strategia.

Partire

Mille chilometri di terra aspra rubata al mare.

Il mare

Il mare

Il mare

Barcellona viveva di un violoncello solo per Maisky sulle Rambla, e bozzetti di Picasso come souvenir.
Foucault e Théophile seduti su vecchie sedie impagliate giocavano a scacchi, tagliando in rombi la prospettiva di un tempo imperfetto e pittori distratti.

Distratti,

distratti.

Las Meninas, fatta a pezzi di cubismo nel gioco di colori di Picasso.
Dov’è la soluzione, per finire la partita?
Prendiamo tutti i personaggi e buttiamoli a terra come carte di tarocchi, l’Infanta, Maria Augusta, i nani, il pittore, il cane, Nieto, i sovrani, i due servitori scatola cinese, camera oscura, dipinto nel dipinto.
10 personaggi.
Davanti al quadro, dentro, dietro la tela.
Spettatori confusi, senza posto a teatro, a vagare le sale di un palazzo, come il gioco di un caleidoscopio di colori e sala degli specchi.
Las Meninas, fermo immagine su un angolo di corte, di vita andata, erosa dai tarli.
Seduti per ore davanti a un quadro, Foucault e Théophile con il marchio della croce di Santiago sulle dita, cammino coraggioso di luce perpetua.
Misurazioni matematiche e cambi di prospettiva, dov’è la coppia riflessa nello specchio?
Non è davanti allo specchio.
Non siamo noi gli spettatori, ma la coppia regnante, celata nello specchio che li nasconde finchè
Nieto solleva la tenda e li mette in luce.
Presto venite, noi siamo al posto dello specchio.
Dentro o fuori dall’immagine?

Prigionieri

Noi siamo in questo spazio dove passa il nostro tempo.
Cercando disperatamente di sfuggire alla morte.
Foucault si fermò sulla soglia, Margherita, sua nipote, sedeva sul grande tappeto, aveva figurine nelle mani e narrava:

Sono stanca di parlare con la bambina nello specchio. Non vuole darmi le sue carte con il Re e la Regina, ecco ora le volto le spalle così non la faccio più amica.

Noi siamo gli spettatori e la malinconia produce un distacco tra il personaggio e chi lo guarda.
Foucault ebbe un’intuizione, fuori Parigi era allagata da un temporale, pensò che sì, ne avrebbe discusso con Théophile, non appena fosse entrato nello specchio.
Noi, in questo tempo imperfetto.



Foucault 1926-1981

Théophile Gautier 1811-1872

Las Meninas 1656-1657




martedì 17 luglio 2007

Mujeres sobre fondo claro








Tra le stanze del Museo di Picasso a Barcellona, leggendo un libro di Simona Vinci, nelle ombre di pomeriggi curvi sulla strada.

"Tu eri la mano che entrava dentro di me come sembrano fare le mani dei guaritori filippini, senza bisogno di bisturi, soltando facendo pressione sulla carne, ma eri anche incapace di gestire quel potere, tanto quanto io ero impotente di fronte all’avanzare delle tue dita dentro i miei tessuti: se ti avessi lasciato continuare sarei morta dissanguata" Stanza 411

Donne posate sulla ceramica
dal tuo pennello, a percorrerne le forme,
quasi casuali, curve e lunghezze,
il movimento fermato per sempre.
Le mani a seccare, mai rughe ad attraversarle,
gli occhi goccia di colore,
per fare il giro del mondo con lo sguardo
prima che la pittura asciughi.
Cos’è rimasto riflesso nell’iride?
L’ultima immagine prima di diventare cieche,
forse le tue mani,
in primo piano su questa fotografia,
nessun anello, nessun legame,
compagna fedele una sigaretta a metà,
cenere gli anni rimasti
e
capelli in stille d’argento
che un mago beffardo osò sfidarti.
Istantanea di chiaro-scuro.
Malaga,
in bianco
e nero.
Mujeres.
Mujeres su sfondo claro,
diafane di pomeriggi accartocciati di lillà,
come lividi sotto la pelle,
ombre pallide, che fanno male.
Le hai dipinte, amate, ammirate,
tutte e nessuna,
non contavano niente
e
lei lo sapeva.
C’è la tua firma, lì, in basso,
quasi tratto distratto.
Che rimane delle tue mani?
Senza fede, senza compagnia,
quei corpi arresi attendono, sulle lenzuola bianche,
che sangue ancora le attraversi.
Pennelli e colori rinsecchiti,
eco di passi scalzi in cucina,
sono rimaste solo loro,
Mujeres su sfondo claro,
ma non racconteranno mai cosa videro,
il segreto è in un po’ di tempera secca
al posto degli occhi.
Ma per capire, bisogna imparare a vedere,
nell’impasto di acqua e fango,
a cuocere creta,
stilla d’argilla,
frantumata dalle mie mani stanotte,
Mujeres su fondo claro, su questo pavimento
in cocci a picco negli occhi,
chiusi.
Ecco, ora chiusi.
Acqua a lavare quel che resta di schegge di polvere.
Acqua e sale a percorrere una via,
dalla virgola degli occhi, al mento,
forse lacrime.
Sicuramente sangue,
dita a ferirsi su tagli sbagliati, di donne,
in cocci sul pavimento.
E tu,
in un altro quadro.
Autoritratto.
Volo ad Est, a comprare il tuo essere uomo,
a pagare mujeres su fondo claro,
il tuo disprezzo.
Il mio silenzio
e
poi, mai più




( Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)

venerdì 8 giugno 2007

El pianista del Café Numancia







Tormentati i tasti

sotto le sue mani,

nel gioco bianco e nero,

in accordo di do, indomito e ribelle,

di lei, il corpo disegnato ad ogni ritorno perduto di nota,

avvolta di fumo, di bollicine di vino sulle labbra,

Café Numancia, da dividere in scalzi mattini,

rose bianche sui tavoli

a chiedere perdono

e

candele in ginocchio.

Mezzanotte

tormentate le dita di donna

a intrecciare le sue,

senza accordo,

ultima nota del suoi vent’anni,

ribelli,

maldestri,

colpevoli.

Rose rosse,

a camminare funambolo senza pensieri,

che l’azzardo è ardito,

cadendo in ricordi di lettere sgualcite a ripercorrere l’asola vuota degli anni,

latta da prendere a calci che la vita

ha sempre in mano il capo a cui appendere denti come fili di perle,

che a sorridere non servono più.

Corsa in metropolitana e ad ogni stazione seguire sullo schermo quella storia spezzata,

immaginando i segmenti perduti per sempre

e gondole spaiate, che le note scivolano dispari,

e chi resta dietro,

è solo.

Velette bianche e guanti a nascondere il tremito delle mani.,

e le gardenie non san parlare, sul doppio petto blu.

Sola, una nota appesa al di là di lui,

si bemolle,

quando la vita gli ha opposto un no,

che lui non ha saputo suonare,

ballata per pianoforte incompiuta.

E’ rimasto così, nota nell’aria di un pentagramma dispari.

Chi rimane dietro, non ha mani da stringere.

L’amore in spartiti

del pianista del Café Numancia

(Dal quaderno di Pablo Y Ruiz)

lunedì 14 maggio 2007

Desnudo tendido con Picasso sentado a sus pies



Si colora di stanco la carta con il trascorrere delle stagioni, alberi di gesso e linee a carboncino a confondere la coniugazione dei verbi.
Che poi finiamo sempre con il rincorrerci nel passato, protesi al futuro, dimentichiamo il presente.
Noi, un presente imperfetto, calligrammi di pensieri, troppo arditi, e poco consapevoli che a volare bastano due ali.

Passato prossimo

Seduto in quell’ombra contempla tutti i loro giorni, raccontando di un tocco leggero, non è una carezza, è solo una presenza.
O un’assenza, ombra sulla pelle.
Lei, il viso voltato e fiori ancora alzati, dal calice pronto a raccogliere lacrime.

Fiori recisi, in un vaso.
Pronti a morire,
domani,
se è necessario.
Lui,
chiuso nei vestiti, solo una mano confonde una voglia,
presenza distratta, fuori campo di un desiderio erotico.
Lei nuda,
ancora spogliata da quegli occhi, che ne percorrono ogni morbida curva, soffermandosi sui muscoli, giocando tra i nervi.
Pelle
Pelle
E’ pelle a toccarsi, una mano, tutto un corpo.

A pelle

La forza smisurata, di un attimo bloccato, un fotogramma.
Fermo - immagine
Perché a noi non è dato sapere che resterà di quei fiori.
La voglia, è il desiderio inespresso, quel tocco che non arriva.

F-e-r-m-o immagine

Noi siamo in questo spazio in cui passa il nostro tempo, anzi siamo quotidianamente immersi nel nostro “non” tempo.
Arte moderna, non è importante cosa rappresenta, ma cosa comunica.
Fiori
Forse appassiranno.
Pelle e rughe.
Il sublimare dell’acqua.
Surrealismo?
Inghiottiti nel Cubismo che attende Pablo e suoi anni a venire.
Scatole cinesi, dove nascondere i sentimenti, ombre, grigio, grigio.
Il Futurismo in contrapposizione, in critica.
Ecco la chiave.
Un bozzetto che parla di oggi, datato 1901.
Desnudo tendido con Picasso sentado a sus pies
17,6 x 32,2 cm, acquarello su carta.
Eravamo lì, ecco perché si parlava di Futurismo, le somiglianze, le distratte vie di fuga.
I ritorni.
Siamo un presente imperfetto, chiusi nel guscio fragile di una piazza, Malaga o Parigi, gira su due dita il mappamondo.
Il cielo fa conta di nuvole oggi, rovesciando ombre sui palazzi, ingiallisce la carta dei miei bozzetti.
Camminiamo, in un tempo a parte, paralleli e meridiani e un altro volo, a poche ore da qui.

Clessidra

Contami gli attimi, perché solo quelli abbiamo.

“Aspettami alle Partenze, ti raggiungo lì, perché non verrò per restare, non ci saranno Arrivi, solo attese di Partenze”
-Bevi la mia voglia, in questo calice amaro.


Non ti serve spogliarmi, perché resto nuda, nel tuo sguardo e tu chiuso nei vestiti non sai toccarmi, a un passo da me.
Carezze ruvide, in carta vetrata a limare i pensieri, levigando sentimenti, parole, sesso.
Solo l’essenza. (o assenza…)
Poche gocce di noi sui polsi, dietro le orecchie.
Desnudo tendido…

-Parlami
“Ti sto parlando”

Silenzio, solo i rumori della piazza, la domenica mattina, un palloncino giallo, un cane buffo, seduti ad un lungo cafè, dove danzano camerieri e vassoi, noi trasparenti come bolle d’acqua in questo bicchiere.
Bolle d’acqua.
Che siano solo bolle d’acqua?
Quegli attimi fragili come uova di cioccolato.

-Parlami
“Ti sto parlando. Non senti questo silenzio, questa mia mano che è a un passo da sfiorarti, spoglia tutti i pensieri e raccogli le mie parole lasciate a metà, come monete sui piattini di un cafè.
Il resto di una vita, in bolle d’acqua. Non ho più niente da dire.
Lo sai.”
-Lo so.

Sapevano veramente?
Vendevano parole, avrebbero scritto libri.
Da lasciare in giacenza nell’anima.

L’anima è qualcosa che raramente lasciamo abitare agli altri.
Questo essere artista...al di là dell’immagine
I sogni e la realtà sono creta nelle mie mani.
Io parte di un tempo imperfetto, con un uomo dal vicino passato.
Aspettando quel movimento che si chiama Futurismo.

Il futuro è qui

Ieri era scritto.
Voci di monete.

Domani?
Sempre e mai?
Avverbi di tempo.
Io sono sogno, lui lo sa, e i sogni durano dal crepuscolo all’alba, come le amanti.
Io vesto le ombre.
Il proibito.
Lui non sa che domani potrei svanire, in altro sogno.
Oggi, oggi sono qui, appoggiata al sipario, come ali di farfalla.
Che vive solo un giorno.
A strapparmi le ali, per vedere al di là di noi.
Non immortali, come quei fiori, in primo piano, sul Desnudo tendido.
A fermare i suoi vent’anni.

-Quando devi andare, vai

Nessun saluto, nessun addio, perdersi così davanti a una vetrina, a un tratto mi sono voltata, non scoprendolo al mio fianco.
La folla lo aveva inghiottito.

Fermo immagine.





F-e-r-m-o immagine