venerdì 31 dicembre 2010

Buon Anno





Buon Anno Nuovo....

sabato 25 dicembre 2010

Buon Natale

Buon Natale.............

giovedì 25 novembre 2010

Havana Club


















Prepara le carte e le cerate che ce ne andiamo via da questa terra. Metti nel sacco un anejo, uno jen jen imbalsamato e una foglia di tabacco. Stacca quel ritratto del Che e regalalo a un turista, ora che solo un souvenir resta del sogno socialista.
R. Goracci

L’autunno stava appeso ai rami neri degli alberi come un ultimo frutto maturo sotto la pioggia battente mentre il silenzio si accompagnava tra le vie strette dei vicoli del centro, tra le case vecchie e muri color pastello che colavano il rimpianto coloniale. Odore di sigari.

Il trolley camminava docile nella mano bianca.

La bocca si faceva di fumo.

La porta del locale cigolò nell’aprirsi, i pochi avventori sollevarono lo sguardo distratto. Le pale del soffitto muovevano l’aria umida. Un complessino nell’angolo accordava gli strumenti.

Il rum nei bicchieri aveva il colore caldo di un abbraccio. Quel sapore caldo di un paese orgoglioso, di uomini curvi a tagliare la canna da zucchero, di sere a spiare la luna tra le palme.

“Ho ordinato anche per te” disse lui a giustificare i due bicchieri.

Lei spostò la sedia, appese il cappotto e l’ombrello.

Appoggiò il viso tra le mani e sorrise. Come certe Madonne dietro gli altari.

Sorseggiarono il rum nei bicchieri.

Quando uscirono della pioggia restavano solo le pozzanghere, mentre il mare allungava le sue onde sul Malecòn.

venerdì 20 agosto 2010

La victoria estratégica. Fidel Castro























Havana, August, 10th 2010


L’isola grande mi cammina dentro mentre cedo la mano alla lusinga della speranza. Perché certi luoghi, certe persone sono compagnia silenziosa anche tra le pieghe di una cartina geografica o nella sigla di un biglietto aereo.

Cuba è uno di quei posti. Con la sua storia che tutti credono a grandi linee di sapere, che alcuni associano a luoghi comuni, che altri coniugano con la politica.

Se devo dare un colore a quest’isola è il verde e non il rosso.

Se devo dare una faccia è Fidel, non il Che.

Un’isola che si sposa e divorzia continuamente con i suoi grandi contrasti, natura patrimonio dell’Unesco, e un embargo che la piega da quasi cinquant’anni, povertà decorosa e alberghi a cinque stelle, la bottiglia di rum appoggiata al bancone dei locali come da noi il bricco del latte.

Camminando per l’Havana in un pomeriggio dopo la pioggia mescolata tra i turisti, ripercorrendo la storia di un quarto di secolo passata sulle case coloniali, tra le auto che regalano l’ebbra sensazione di un salto nel tempo, resto a un tavolino del Floridita a sorseggiare una bevanda a base di cocco e rum, ripercorrendo l’eterna rivalità patinata e ambrata tra Havana Club e Bacardi. Una guerra affascinante fatta di marchi registrati all’ombra del lavoro nei campi infiniti di canna da zucchero.

Fuori scorre la città vecchia, brulicante di gente, anche sotto la pioggia.

Mi incammino guardando il cielo farsi più chiaro verso il tramonto.

Imbocco una piccola calle e affaccio lo sguardo nella sala vuota di un ristorante: le pale del soffitto ronzano veloci, alcune cameriere sedute ai tavoli asciugano le posate e le ripongono in bell’ordine, tenendo lo sguardo fisso al televisore. Mi fermo, entro scendendo un paio di gradini e resto anch’io rapita dalle immagini, Fidel Castro, camicia verde d’ordinanza, presenta il suo ultimo libro a un gruppo di giornalisti venezuelani, una donna, alcuni uomini, di cui uno con la benda su un occhio.

La victoria estratégica, è il titolo di un volume di 900 pagine, corredato di foto, copie di documenti, al di là del credo politico o di come la si pensi, un pezzo di storia.

Per un attimo mi domando se sia un vecchio filmato, ma Fidel parla dei recenti incendi che hanno colpito Mosca.

Il comandante segue il filo dei suoi pensieri e sostiene: “La comunicazione è l’arma della rivoluzione” definendo “un periodo speciale” la rivoluzione, ma anche un grande sacrificio.

Sorrido pensando a come il passare del tempo modifichi le apparenze, segnando un volto di rughe, per esempio, ma non può cambiare il cuore.

Lui, l’uomo che ha lottato per “Cuba libre”, imbracciando fucili, infiammando le masse, sicuramente commettendo errori, e come lui stesso ha scritto, “la storia mi assolverà”, oggi combatte a parole la sua personale rivoluzione, la sua battaglia contro il tempo. Evocando il passato tra le pagine del suo libro, la sua vita, dalla lettera scritta da bambino a Roosevelt, ai giorni al Pico del Turquino.

Pagine che scorrono tra le dita, un giorno dopo l’altro, il tempo del ricordo, dove la parola è la sua arma.

“Il mio problema è il consenso del tempo. La nozione del tempo è sparita. Il tempo è un’invenzione dell’uomo” dice.

E mi piace pensare che consacrando le grandi conquiste al tempo entrano di diritto nella leggenda, sono fatte della stessa materia dei miti.

Per due ore il canale venezuelano trasmette le immagini di Fidel e le sue parole.

Osservo i pochi avventori come me fermi, in piedi, sulla porta che ascoltano, le cameriere che intercalano sospiri alle parole di quello che era un affabulatore di pensieri. Anche se la messa in onda dell’intervista avrà fatto saltare la quotidiana puntata di una telenovela sudamericana.

Finchè la giornalista, riprendendo le parole di Fidel, chiude ricordando che i tempi televisivi hanno uno spazio e che è stato ampiamente superato. Tutti ridono.

Esco che si è fatta sera.

L’indomani mattina sul Granma, il quotidiano di Cuba, si annuncia la presentazione del libro di Fidel Castro.

All’aeroporto Josè Martì acquisto una copia del volume. Che ha un peso, non solo per il numero di pagine, ma perché evoca giorni di morte, di paura, di lotte, di qualcuno che ha creduto che, “Sì, se puede”

Un uomo che non si è piegato a una guerra più grande, dove Cuba è stata una pedina.

E dopo 50 anni, dopo che all’ONU 182 su 191 paesi hanno votato contro l’embargo rimanendo un grido inascoltato, al di là di quello che può essere il credo politico, nella comodità delle nostre vite appena scalfite da quello che la TV porta per pochi minuti nelle nostre case, dalla guerra nel golfo come un video game, ai morti di Haiti, dagli sconvolgimenti climatici alla caduta delle torri gemelle, c’è un posto nel mondo che per la volontà di pochi subisce da anni il giogo dell’embargo.

È giusto che qualcuno decida per un paese, umiliandolo e attendendo la caduta della Fenice?

È giusto che dopo che è caduto il muro, dopo che Mandela ha lottato per la libertà dell’uomo, Cuba sia ancora colonia politica?

No.

Per questo dico,

Viva Cuba Libre.

E che sia libertà dall’embargo.

mercoledì 23 giugno 2010

Les champs de lavande. Oil on canvas



Ci terrei a precisare

che ho comprato questa tovaglia
con il suo semplice disegno ripetitivo
di fiori viola scuro non menzionati da alcun botanico
perché mi ricorda quel vestito stampato
che indossavi l’estate che ci siamo conosciuti

(un vestito
– hai sempre sostenuto –
che non ti ho mai detto che mi piaceva).
Be’, mi piaceva, sai.

Mi piaceva.
Mi piaceva un sacco, che ci fossi tu dentro
oppure no.

Andrew Motion

Non aveva nulla di particolare perché gli uomini si fermassero a guardarla, il vestito semplice le accarezzava il corpo in un’esplosione di fiori lavanda su sfondo bianco.

Les champs de lavande. Oil on canvas

Lui la guardava scendere verso il molo.

-Che veniva voglia di raccoglierli quei fiori, a uno a uno, come papaveri in un campo di grano quando l’estate è alle porte.

I capelli le scendevano lungo le spalle nude, come cielo nuziale entrare in un raggio di sole dal rosone sulla facciata della cattedrale e posarsi tra incenso e fiori e candele inginocchiate ai piedi dell’altare di dimenticate preghiere. Sì dimenticate.

Mentre fuori la calura rendeva fragili ed evanescenti i contorni del paesaggio.

Un ritratto sbiadito, come vecchie foto di inizio secolo.

A Montmartre.

Il campanile della cattedrale svettava sopra le case del borgo e di là gettava un occhio benevolo sul mare dove le imbarcazioni del porticciolo ondeggiavano appena.

Lei si incamminò sulla stretta passerella lasciando impronte umide dietro di sé. Che subito svanivano. Inghiottite dal sole.

-Come nella sua vita- pensò lui.

Lo raggiunse.

-Ciao- disse solo.

-Ciao-disse solo. Lui.

Poi tutto tornò a tacere.

I cani sonnecchiavano all’ombra degli olmi sulla piazza.

Immobili. Le cicale frinivano senza sosta.

Ma non le vedevi.

Erano invisibili.

Come loro.

Come cielo nuziale, velo di stelle cadenti. Disilluse e discese.

venerdì 4 giugno 2010

Daiquiri a Mallory Square. Aperitivo al tramonto



I Caraibi sono il rifugio che preferisco. Un paio d’ore di strada da Miami per essere alle Keys.

Già, le porte.

Key West mi accoglie con la lentezza tipica delle terre del sud, i commercianti davanti ai loro negozi, i locali affollati di turisti, e il mare sempre vicino. Verde smeraldo come certi acquarelli che ti vendono i pittori naif. Giù alla spiaggia.

E là che sto andando, l’orizzonte si sta tingendo di arancio, sfumando via via verso il quarto di cielo ancora azzurro. Ma qui la notte cala presto, un taglio netto dalla luce al buio.

A Mallory Square c’è sempre gente. Soprattutto a quest’ora. Lo hanno trasformato in una specie di raduno. Non c’è mai bassa stagione. Vengono qui al calar del sole anche se piove. Applaudire il sole che affoga tra le onde è un cimelio da portarsi a casa, al pari delle magliette dell’Hard Rock Cafè.

Ci sono i turisti giapponesi che fotografano tutto, gli intellettuali con in tasca il biglietto stropicciato per la visita alla casa di Hemingway. Insomma un caleidoscopio di persone, anime, con i loro bagagli di pensieri, di stanchezza, di ricordi.

Mi piace venire qui, staccare dalla città, dall’acciaio e dal cemento del mio ufficio che mi costringe in giacca e cravatta ai 22 gradi stabili del climatizzatore, quando fuori i ragazzi si sfidano sul surf.

Mi siedo in un angolo in disparte, non ho bisogno di vedere, so già, conosco quell’attimo in cui il sole viene inghiottito dall’oceano e tutto intorno si fa oro e arancio e rosso.

Socchiudo gli occhi con le gambe a penzoloni sull’acqua.

“Ma come fa a guardare il tramonto con gli occhi chiusi?”

Non mi ero accorto della sua presenza, si era avvicinata silenziosa. Certo che scocciatrice, con tanto posto proprio qui doveva mettersi?

Aprii gli occhi inquadrandola nel mio sguardo, era scalza, teneva stretto a sé un telo da mare, aveva nuotato, sicuramente. Certo che si viene a fare ai Caraibi? Aveva i capelli ancora umidi che scendevano da uno chignon improvvisato, carota. Sì il colore dei suoi capelli mi ricordava le carote. Una gonna lunga arrivava ai piedi e una maglietta sbiadita non nascondeva le macchie del costume bagnato.

“Posso?” mi domandò indicando con la mano il lembo di molo.

“Non penso sia riservato, prego” le dissi. Sperando che una volta seduta mi avrebbe lasciato solo con i miei pensieri. Con quelli ero venuto per il week-end.

“Allora perché stava con gli occhi chiusi? Non è una meraviglia questo tramonto”

Ecco, mai fidarsi di una con i capelli carota avrebbe detto mia nonna, troppo chiacchierone, troppo allegre, troppo.

“Stavo pensando. E poi vedo questo tramonto da un sacco di tempo ormai”

“Ah, che meraviglia. Abita qui?”

“Più o meno. Vivo a Miami, vengo qui nel week-end”

“È fortunato sa. C’è gente che potrà vedere questo spettacolo una sola volta, o che ha lavorato duramente per permettersi questo viaggio”

Non ci avevo mai pensato. Al fatto che fossi fortunato. Ma si sa ognuno il suo bicchiere lo vede con i suoi occhi. Il mio mi sembrava sempre mezzo vuoto.

La vidi frugare nella borsa, tirò fuori due bicchieri di plastica e una bottiglietta di aperitivo.

Non ci posso credere, pensai. Aggrottando la fronte. Lei se ne accorse. Sorrise.

“Scusa, sai, penserai che sono una scocciatrice. Mia nonna lo dice sempre che chiacchiero troppo e che a volte alla gente non va di starmi a sentire”

Ecco sua nonna sarebbe andata d’accordo con mia nonna.

Aprì la bottiglietta e ne versò il contenuto nei bicchieri. Me ne porse uno.

“Grazie” mi sorpresi a rispondere. E fui sorpreso anche di avere sete, sentivo la gola secca e non era solo per il calore.

La guardai meglio, aveva un bel taglio del viso e gli occhi erano chiari, la pelle era macchiata di rosso, come chi non conosce gli effetti del sole di quaggiù. Aveva un brillantino al naso che luccicava quando si girava verso il sole.

Mi parlò dei suoi viaggi, dei posti un cui era stata, per lavoro o per passione.

Aveva un modo i parlare che mi piaceva.

Si fermò solo quando il sole toccò l’oceano. Non applaudì. Il vento le faceva muovere le ciocche di capelli intorno al viso. Mi riscoprii a pensare che potevo essere ovunque. Su un lembo d’Africa, o nelle terre d’oriente, in un’isola, o nel deserto. Mi girava la testa.

“Scusa, ti ho annoiato”

“No, parlami ancora”

La luce sfumò a poco a poco.

Ce ne andammo che il cielo si vestiva di scuro.

Le tesi le mani per aiutarla ad alzarsi. E tenni la sua mano nella mia mentre camminavamo per Duval Street.

Dormii con lei quella notte. E la mappa del suo corpo rimase tra le lenzuola stropicciate.

Con lei camminai sul sentiero per Santiago, divisi una notte a Parigi.

Ogni tanto mi squilla il telefono e mi propone un viaggio. È la mia bussola. Cerca il nord. Dice.

Io non so cosa sto cercando.

Abbasso il finestrino della mia auto, l’aria del mare mi avvolge. È venerdì sto andando alle Keys.

A vedere il tramonto.

mercoledì 5 maggio 2010

L’isola grande



L’isola grande stava sotto la carezza degli alisei, un quadro naif il mare color carta da zucchero, le barche pastello, da sembrare irreali, o al più un bellissimo acquerello.

La pioggia si faceva coperta leggera e teneva la gente in casa, così le sue strade erano deserte, bagnate di onde trasparenti e rintocchi di gocce. Un canto nuovo, ritmo sull’ombrello, al tempo con i tacchi. La senti? È la pioggia che sale dal mare e profuma di salsedine e di legna bruciata.

L’isola grande si raccoglie intorno alla sua piazza, le luci per la festa, i tavoli dei caffé all’aperto, vuoti. Come se tutti fossero presi da mille impegni, come l’ora della siesta, come quando un acquazzone ti sorprende e svuota le vie.

Leone se ne stava accucciato sotto la tettoia di un ristornante. Sonnecchiava.

Viola aveva l’orlo dei pantaloni intriso d’acqua e la pioggia le bagnava i piedi nudi, ma la pioggia d’estate non è mai fredda. Il cuore accordato con un diapason di un maestro d’orchestra maldestro e sbadato.

Lui stava nel suo studio. In fondo al molo.

Gli aerei atterravano, si sentiva il rumore dei motori. Quando si atterra le isole sottovento non sono altro che una manciata di scogli, perle annerite dal tempo. L’isola grande aveva la sagoma familiare di una tartaruga.

Pioveva. Ancora. Lavando via ricordi e malinconie dalle corolle chiuse degli ibischi.

Camminava sotto la pioggia che le si faceva compagna nella sua cantilena. La sua vita vergata fitta, in un passato prossimo. Che non sapeva mai se lui tornava o andava.

Lo studi stava in penombra, le finestre bagnate di pioggia e di mare, lacrimavano una vecchia canzone, la foto in cornice di un viaggio in Africa, aveva fermato un attimo, di terra rossa e elefanti a Tsavo. Tanto tempo prima.

Lui la accolse nel suo abbraccio, respirando l’umidità degli abiti e il suo profumo. Come al Café de Paris, quell’inverno che aspettava già Natale.

Stavano così, fermi al centro della stanza, lui le accarezzava la schiena, chiusi in una bolla, solo lo scroscio della pioggia sul molo che ora crepitava fitta, confondendo i contorni delle baracche sulla sabbia, delle barche, del paese in lontananza.

Pioveva forte sul molo, crepitando sulle tettoie. Ancora.

E il mondo si era come fermato.

Solo l’intreccio di mani in penombra disegnava la voglia di labbra cercarsi.

Un acquazzone si rovesciava per le vie.

Mentre l’ombrello se ne stava appoggiato fuori, sulla veranda. Chiuso.

Come gli ibischi delle aiuole della piazza.

L’isola grande respirava l’abbraccio degli alisei.

venerdì 2 aprile 2010

Via delle Margherite


Lui

Sei

il mio vestito della festa.

Sei

lo spazio bianco tra le righe vergate fitte e gli errori della mia vita. Vedi quello spazio ha ancora tanto da dire.

Sei

il giro di tango sensuale quando gli orchestrali se ne sono già andati. Suonano per noi le vie deserte, i passi, i petali caduti.

Sei

la mia rabbia per i tuoi anni acerbi incamminati a vedere il mondo, che io già conosco, e aspetterò paziente che tornerai a raccontarmelo.

Sei

il riso sul sagrato della chiesa, cibo per i passeri.

Sei

una stazione del mio viaggiare. E vorrei che fossi nata in tutti i posti dove andrò.

Sei

il tempo buono, nuda sul mio petto e sei anche la tempesta di occhi in pioggia, di “mai più”, di porte sbattute.

Sei

nella mia vita pur sapendo che non è il nostro tempo.

Sei

la mia debolezza, il mio peccato, il mio perdono. Il mio rimpianto.

Perché, dimmi, io e te, cosa siamo?

Lei

Noi siamo il tempo di due tazzine di caffé posate su un tavolino all’aperto, al centro di una piazza.

Zucchero?


mercoledì 31 marzo 2010

Luna piena di Marzo



Il profumo del mare saliva i gradini umidi e entrava nella stanza in penombra.

L’albero di limoni sotto alla finestra mostrava generoso i suoi frutti.

Un limone, nel palmo della mano, a ricordare che il mondo è tondo nel giro inverso di passi stanchi che Viola ancora sapeva riconoscere. Li sapeva riconoscere ancora prima di udire la voce, e avvertiva i segni di un volto familiare sotto la carezza delle dita.

Passi.

Giù dal borgo dei pescatori che caparbi ancora sfidavano il tempo, rattoppando le reti in uno scampolo di Provenza posata sulle spalle, come lo scialle della sera, lo sguardo sul mare.

Di lì passava il bene e il male, il passato e il futuro.

Le strade fatte di pietra, consumate per il lento passare. Passare e passare ancora.

I gatti raccoglievano i raggi obliqui del sole che si appoggiava al tramonto.

Passi.

Tormentati sulle scale, rincorse di cuore, perdonami l’anima in un bouquet di margherite.

Danza allegra di petali, per un gioco antico.

M’ama, non m’ama.

Indovinare la voce prima che la mano si sia posata sul legno della porta, prima che il rumore delle scarpe sul tappeto dei ricordi lasci arresa l’anima. In balia delle onde quando soffia il vento di terra.

Aspettando che si alzi la luna dal mare. Viola ne disegnava il contorno perfetto.

Luna piena di Marzo.

Ora come allora.

Gli ulivi nel vento attendevano.

Lama sottile, mistero stentato, neanche Dio poteva fermarsi a riposare sulla sedia del tempo.

Uno scorpione tatuato sulla caviglia, tenuto stretto dalle maglie di un cavigliera.

Legami mai spezzati di un dio all’altare germogliato dalle mani.

Sei allacciato alle mie scarpe mentre spengo sigarette a metà su promesse mancate.

Chi sei?Che vieni al mio altare quando è luna piena di Marzo.

venerdì 29 gennaio 2010

L’inverno del mare


Andavo a piedi dal mago di Oz

con le scarpe spaiate

Il porto di Victoria Harbour sembrava una creatura viva, dal cinquantesimo piano del grattacielo che si affacciava sulla baia.

L’inverno del mare, così certi posti vivono il legame dell’abbraccio della città con la lunga distesa azzurra in movimento. Niente turisti in ciabatte e cappellino.

Acciaio e cemento in verticale, così lontano dall’atmosfera dell’Hotel Britannia, a Parigi.

Strano, che lui ci stesse pensando proprio in quel momento. Dall’altra parte del mondo. Quando certo non poteva raggiungere Montmartre a piedi.

Andavo a piedi dal mago di Oz

con le scarpe spaiate

Nuvoloso il tuo parlare oggi, quasi una preghiera.

In strada si andavano mescolando gli odori dei cibi cotti dagli ambulanti.

Il tempo era come una benda sul corpo, da srotolare piano, per preservare la pelle. Ad angolo retto con il tempo la figura nello specchio, ha tratti obliqui e giovani.

Un’alchimia che qualche shamana gli aveva suggerito, quando ancora c’erano sogni buoni sul cuscino. E riconoscersi era un gioco tra la folla festante degli Champs-Elysées. Dove aveva perso il cuore, in un caffé parigino, all’ombra di Notre Dame.

Ricordo

Andavo a piedi dal mago di Oz

con una caffettiera di latta, che voleva un cuore

Lei riponeva sulla credenza antica le tazze in bell’ordine, la vecchia caffettiera e i cucchiaini per rimestare lo zucchero filato dei ricordi, in quella grande casa di Provenza. A Gennaio anche il mare viveva il suo inverno.