mercoledì 10 settembre 2008

11 Settembre. Era l’America


“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”

La mia finestra su New York si apre su uno squarcio di cielo che lo sguardo riesce a ritagliare in quella corsa in verticale fatta di grattacieli, di appartamenti incasellati uno sopra l’altro, di persone, sopra le persone, sopra le persone, su su, seguendo il numero dei piani sul display dell’ascensore.

La personale conquista del cielo dei magnati, degli uomini del petrolio, dalle foto d’epoca che ritraggono operai appesi a colazione su lastre d’acciaio, lo scheletro di nuovi dinosauri, ai ponti in equilibrio perfetto di uomini sulle auto di auto sulle navi, di navi sui treni.

Già perché questa è l’America, questa è New York, Big Apple , mangiata nel suo interno da un grosso verme, la metropolitana, che raggiunge ogni angolo più lontano, il Bronx e Long Island, gli Heights e Wall Street, collegandoli, creando una rete di scambi che sulle cartine sembrano il complicato intreccio di cavi e fili elettrici, non la via sotterranea di una metropoli.

La città che respira uno scarto di odore di mare e sbuffi di vapore, quel che brucia dentro.

Incrocio gruppetti di persone a fare jogging la domenica mattina a Central Park mentre sorseggio un caffé, nel bicchiere di cartone di Starbucks.

Indovino le bandiere che distinguono i volti e le nazioni di migliaia di uomini, dagli occhi a mandorla, dalla pelle color cioccolato, da quel caleidoscopio di razze di nuovi cammellieri e saggi venditori di datteri.

E ogni volta che esco dalla metropolitana a Wall Street, immancabilmente alzo lo sguardo e cerco di colmare il vuoto sul cielo e di abituarmi allo skyline cambiato, deturpato, come una cicatrice invisibile che si è portata via piani e piani di scrivanie, di uffici, di persone e persone e persone tra calcinacci e vetri frantumati. Un gigante buono piegato su stesso colpito al cuore. Muezzin sulle torri a chiamare alla preghiera. L’unica cosa che resta. Mentre un portoricano vende giornali all’angolo di Morris Street e si fa la fila per pranzo dall’indiano che cuoce gli hot-dog all’ombra del presente sopravvissuto. Di un luogo che è tutti i luoghi. Di una città che è tutte le città.

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