domenica 12 ottobre 2014

Parigi-Dakar, fermo posta hotel de Ville cap.1


Capitolo 1

 
Acqua di mare

 
“La vita è fatta di scelte, noi siamo la somma delle nostre scelte, ma c'è qualcuno che le compie prima di noi, non puoi scegliere quando nascere, non puoi scegliere dove nascere, non puoi scegliere la tua famiglia, non puoi neanche scegliere chi amare, ma puoi scegliere come amare”

Richard Cooper

 

I ricordi a volte hanno la capacità di pararsi davanti agli occhi, improvvisi. Come una porta che credevi di aver chiuso e invece forse era solo socchiusa, così dal filtrare di una luce, il bisbigliare di una voce ti portano indietro, molto lontano, nel tempo.

Luca attraversò la piazzetta di corsa fermandosi alla fontana per bere: avvicinò la bocca allo zampillo sentendo la carezza fresca sulle labbra, sul mento e giù sul collo, lasciando l’alone umido sulla polo chiara.

Come in un déjà-vu avvertì lo stordimento di una giostra di cavalli che gira.

Che gira come in un carillon e con te girano la piazza e le case e le facce della gente che non sai più dove sei.

 
Tanto tempo prima.

Corse giù per Via Zanardelli tra le botteghe, i carrettini di pesce e il chiacchiericcio delle donne sulle porte di casa, scivolò appena sulle chianche umide davanti alla pescheria.

-Ma stai attento ’vuagliò, che ti spacchi la testa!-

Le case sfilavano strette nell’abbraccio dei tufi, poi la sera uno zolfanello accendeva le finestre, quei momenti avevano il sapore delle caramelle Valda nella vetrina sulla piazza e un gioco di biglie colorate.

Poi finalmente il suo campo visivo fu attraversato da un’immagine che si sarebbe portato per sempre con sé: il porto, gli alberi delle barche, il tintinnio delle sartie, il Faro, il campanile in angolo della Cattedrale.

Chinò il capo facendo il segno della croce.

Camminò lungo i pontili di legno che scricchiolavano sotto i suoi passi leggeri di bambino, scalzo.

Lasciava a casa le scarpe per paura che gliele rubassero.

Poi lo vide.

Suo padre, scaricava una pesante cassetta di pesce, le squame brillavano al sole che sembravano il tesoro nascosto di argenti di qualche galeone affondato. Era alto, portava un cappello macchiato di ruggine calato sul viso, a far ombra a quella pelle cotta di sole che tradiva striature di sale, l’abbraccio del mare. La camicia aperta aveva uno strappo, di lato, indossava sandali sbiaditi, faceva il pescatore.

Luca se ne stava seduto su un ceppo di legno da ormeggi, una bitta, dove era legato Il Vecchio, quello era il nome della barca dove lavorava suo padre.

Gli uomini andavano avanti e indietro scaricando il pescato, parlando tra loro e scherzando, c’era odore di alghe e acqua di mare.

-Dì Luca, con quella maglietta bianca qui finisci a sporcarti-

L’apostrofò suo padre.

Lui fece spallucce e salì sulla barca, era umida e scivolò, ma l’uomo lo afferrò saldamente, aveva le braccia forti e mani callose, ma quando riparava le reti sembrava possedesse la maestria delle donne che lavoravano al tombolo.

-Che hai imparato a scuola?- domandò lui.

-Le tabelline. Mi piace la matematica- rispose il bambino, e iniziò la cantilena passando i numeri sulle dita.

-Ma dì un po’, alla tua età conti ancora sulle dita?- lo riprese suo padre mollandogli uno scappellotto tra la nuca e il collo.

Luca rimase lì a massaggiarsi la parte dolorante, domandandosi se davvero suo padre sapesse quanti anni aveva.

Suo padre era rimasto vedovo quando era piccolo, lui era cresciuto con la nonna Lina che lavorava a servizio di una famiglia benestante, i Lambert.

Possedevano un palazzo nel cuore della città, e avevano accolto Luca tra di loro, mangiava al loro tavolo servito dalla nonna che cucinava piatti buonissimi.

Le torte poi erano la sua passione.

Lui crebbe così tra il Tennis Club e il porto, senza appartenere né all’uno né all’altro mondo.

Saltò giù dalla barca, e notò con disappunto che si era sporcato la maglia.

Mentre camminava lungo il porto incontrò Michele, era più grande di lui, viveva in una casa angusta, era un teppistello.

Cercò di evitarlo, ma non sempre si è premiati nei buoni propositi.

Michele lo sfotteva perché sapeva di chi era figlio, ma arrivava al porto sempre vestito bene.

-Guarda chi si vede, il damerino di Palazzo Lambert-

Michele non era solo con lui c’erano un paio di ragazzotti, uno scalzo, l’altro con la maglietta piena di macchie.

Luca cercò di tirare dritto, ma iniziarono a spintonarlo e finì in una rissa.

Uscì una donna tenendo una bacinella piena d’acqua e la lanciò verso il gruppetto che si disperse.

Ora la sua bella polo chiara era un disastro.

Si incamminò verso casa, bagnato con qualche graffio e gli abiti in disordine.

Entrò dalla cucina, sua nonna si voltò sorridente, ma immediatamente mutò l’espressione del suo viso: -Luca, ma insomma cosa hai combinato? Sembra che ti sia azzuffato con un cane- e così dicendo gli si avvicinò e con un lembo del grembiule bianco gli pulì il viso.

-Ora sali su che ti preparo un bel bagno-

La sera aveva il respiro del mare che si agitava lontano come i sogni. In pigiama, in ginocchio vicino al letto recitava le preghiere della sera.

Nonna Lina era il suo affetto più grande, lei gli insegnava le buone maniere, lo riprendeva se sbagliava, lo aiutava nei compiti, e raccontava storie.

Luoghi fantastici coloravano le pareti anonime della sua camera e mondi paralleli si aprivano sulla dimensione della fiaba. Con lei andava al mercato, in chiesa, a portare fiori al cimitero.

Non era ricca ma lasciava sempre qualche moneta ai mendicanti sui gradini della Cattedrale.

O a volte dava piccoli pacchi con gli avanzi ai poveri che si affacciavano alla porta della cucina.

Luca restava in silenzio, ascoltando il pianto dell’Ave Maria.

Poi la voce della nonna lo richiamava, e lui andava a giocare in cortile.

Sua nonna, le ragnatele di rughe intorno agli occhi come reti per la pesca, gli occhi piccoli, attenti dietro le lenti degli occhiali, i capelli raccolti sul capo, grigi, d’argento, diceva Luca.

Nonna Lina aveva le mani svelte e con acqua e semola dava forma alla pasta. Le sue mani, che sapevano accarezzare, consolare, mani callose, mani dove le vene affioravano sulla pelle come la spina dorsale di qualche dinosauro dimenticato. Come dimenticare il suo abbraccio che profumava di acqua di rose, solo poche gocce dietro le orecchie. Un piccolo lusso.

Luca pensava a un tempo andato.

Quelle persone attraversavano la sua mente di bambino, senza fermarsi, ma lasciavano un’impronta indelebile, che subito si sarebbe riconosciuta al tocco discreto del ricordo, come la ruga sulla fronte di un amico. L’eco dolce del tempo che trascorre.

“Iùne monde la lune…” (Uno: salta la luna)


Giocavano, lui ed Elena, segnando l’asfalto con i gessetti, a turno.

Di lei aveva un’immagine che custodiva con affetto, una foto di due bambini paffutelli e seri, in seppia il ricordo.

A San Vito, dove c’era il monastero diroccato, sulla penisola di fronte alla baia dei pescatori.

Trulli, muretti a secco, ulivi.

Elena portava i capelli lunghi in due trecce, e delle buffe scarpette dalla punta tonda e lucida.

Seguiva Luca dappertutto, era il suo eroe.

Lo aspettava, seduta sugli scogli quando lui si tuffava a pescare i ricci sul fondo.

Vedeva la sagoma dai contorni dilatati dell’acqua, nel gioco di luce che creavano le onde.

Poi si salutavano, agli angoli delle strade ricamando brandelli di memoria di un’infanzia che respirava l’odore del mare e giri in bicicletta all’ombra degli ulivi che fremevano le loro foglie d’argento nei pomeriggi assolati.

L’infanzia dal profumo di bimbi.

Fiori di campo stretti nelle loro mani incerte.

Una caramella succhiata a metà.

Notti a tratti svegliate da incubi e temporali

e mani buone a rimboccare le coperte, tessendo serena

la prima luce dell’alba.

Prima di mettere a letto due occhi scuri.

A volte Elena andava a palazzo Lambert, nonna Lina le dava un grembiule bianco mentre lei impastava la semola per le orecchiette.

Era svelta e con le mani creava quel piccolo formato di pasta, i bambini la osservavano ammirati.

Capitava che i fratelli Andrea e Marco Lambert portassero Luca con loro al Tennis Club e lui guardava quel mondo che pareva appena sfiorare come una bolla di sapone, quelle grandi, trasparenti come i sogni che si gonfiano soffiando dentro l’asticella con l’anello.

Acqua e sapone. Luca era così.

E quel mondo sarebbe svanito non appena lui l’avesse sfiorato, così lo guardava da fuori, restava nella cornice e osservava.

Dal buco della serratura.

Elena non ci aveva badato, gli voleva bene e basta.

Poi improvvisamente tutto cambiò, come capita al mare, in certi giorni d’inverno.

Nonna Lina morì un giorno di Dicembre, lasciando cadere un manto di gelo sul cuore di Luca, ma non era neve.

Dovette andare in collegio, si scontrò con una realtà violenta che riaffiora oggi, dai racconti, lasciando trapelare la disperazione di luoghi di tristezza, dove la fede e la religione venivano mistificate, nel nome di un’educazione abbietta.

Spesso i bambini subivano punizioni ingiuste e ingiustificate, poco affini ai valori proposti dall’ordine religioso.

Le suore vestivano di grigio, e quello era il colore dei giorni, tra un Ave e una benedizione.

La madre superiora in particolare era severa e si accaniva su bambini dal destino infelice.

Suor Ada.

Dava vita agli incubi dei bambini, aveva la piega sottile delle labbra, mai increspate da un sorriso.

A chi capitava di bagnare il letto le punizioni assumevano il contorno di violenze.

Spesso legati al letto, insultati e derisi all’ombra della croce, da chi avrebbe dovuto proteggerli.

L’infanzia passata di là, il monastero degli orrori, la cattiveria di adulti consacrati al nulla, perché nessun dio sarebbe mai entrato tra le mura del monastero.

Ma questo certo le suore non lo sapevano.

Non erano gli anni per denunciare, era il tempo dell’omertà, di chi finge di non vedere, di non sentire, in una qualunque provincia del profondo sud, costeggiata dal mare, immersa nel verde degli ulivi.

Un altro Golgota, altre croci.

Luca osservava, soffriva e cresceva, rubando un po’ di blu al mare, ogni volta che poteva.

Notti di fine anno passate da solo, a far scoppiare le miccette dei petardi.

Aspettando di crescere.

 

-Luca? Stai bene? Sembra che hai visto un fantasma.-

La voce di Elena lo riportò al presente. La giostra non girava più, il posto era lo stesso, solo che lui non era un bambino. Aveva fatto un viaggio nei ricordi.

Elena gli posò una mano sulla spalla.

Lei era così. Il presente. Una coperta posata sulle spalle la sera. Un abbraccio. Un porto sicuro.

Ma a volte quando cambia il vento, all’improvviso, il mare si può alzare, diventare pericoloso.

La famiglia di Elena possedeva una grande industria di marmi e pietre per arredamenti e Luca ne gestiva i rapporti di marketing.

Quel viaggio in Kenya non era solo una vacanza, lui avrebbe dovuto seguire alcune pose in opera per un Hotel sulla costa, vicino a Malindi, e un’occasione per vivere la natura e l’Africa con Elena e suo figlio Matteo, dieci anni. Erano gli anni in cui i safari in Kenya andavano di moda, un nuovo modo per fare vacanza per la classe borghese annoiata dei soliti lidi tra Sardegna e Costa Azzurra.

Il Kenya era ancora un avamposto di libertà, di chilometri e chilometri fatti solo di natura lussureggiante, animali, popolazioni incredibili, come i Masai così legati alla terra e alle tradizioni.

Nascevano villaggi e alberghi sulla costa, tra Mombasa e Malindi. I tetti makuti erano ardite cattedrali dal sapore esotico, tra l’intreccio dei tronchi di legno e le foglie di palma essiccate.

Diani era l’idea di fuga, Lamu per quella generazione che aveva vissuto le contestazioni del ’68, era un posto fuori dal mondo. Una sorta di Kathmandu dell’Africa.

Luca aveva sempre preso della vita il lato dell’azzardo, il rischio, amava buttarsi in tutto quello che faceva senza farsi domande, lui sapeva correre ai duecento all’ora sull’autostrada della vita: voleva prendersi quello che credeva essere il suo credito con il destino.

Così erano le corse in auto e la Parigi Dakar, il suo gioco tra vita e morte. Luca aveva guidato una delle prime Range Rover usate in quel massacrante percorso. Ancora non gli sembrava vero che il direttore della Rover, Phil Popham, gli avesse proposto quella corsa. Ecco, lui che non apparteneva né all’uno né all’altro mondo venne presentato, da suo suocero Carmine, a Phil durante una festa del Tennis Club.

La prima fotografia del deserto fu la mattina presto, il freddo che ti prende come una morsa e il silenzio assordante del nulla tutto intorno.

Le auto erano state rinforzate e modificate nel telaio e dotate di serbatoi aggiuntivi, per permettere le lunghe traversate nel deserto.

La caratteristica di quella gara sta nel contrasto: una civiltà di villaggi fatti di fango secco, si apre per un istante su un mondo di modernità.

Gli iscritti alla corsa vengono a conoscenza del percorso solo la notte prima della partenza di ogni singola tappa.

Questo alimenta il mistero, mette i piloti a dura prova con se stessi e il destino.

Pioniere in tutto lo era anche lì in Kenya.

L’Africa non si svela mai completamente nuda davanti a nessuno.

Le maree si inseguono, lasciando in secca i daho o portandoli in alto mare gonfiando le vele latine, come le stagioni della vita.

I bambini corrono scalzi incontro a un pallone e già le ombre coprono la spiaggia.

La frutta sulle bancarelle dei mercati era una festa di colori per gli occhi.

I villaggi erano fatti di povere capanne di paglia e fango, Elena portava Matteo in giro con una guida, il bambino era curioso, faceva domande, gli piaceva quell’aria di libertà che godeva in quel luogo.

Andarono anche a fare un safari e gli animali li colpirono, così incredibili, branchi di zebre e placidi elefanti, i leoni scovati nel bush e le scimmie, così dispettose.

La notte la Croce del Sud è ancora la via da seguire.

 
L’uscita in barca a Pemba era un fuori programma, una battuta di pesca d’altura con gli amici del Mnarani Club di Kilifi.

Avrebbero dormito una notte fuori, nelle tende da campo, come i primi esploratori dell’Africa.

Matteo rimase in albergo.

La giornata era chiara, e le nuvole così basse da toccarle, un fenomeno tipico all’equatore.

Uscirono con l’alta marea.

Le mangrovie affondavano le loro radici nel mare e il sale si posava sulle foglie come una carezza.

L’oceano Indiano vibrava di una serie di colori tra l’azzurro e il verde.

Pemba è un’isola misteriosa, verde e lussureggiante, il suo mare pescoso di pesce spada e marlin. È l’isola dove nasce la magia nera, dove si narra che gli stregoni waganga incontrino gli stregoni di Haiti.

La notte prima erano stati ospiti di un piccolo villaggio. Le capanne fatte di fango e paglia, i bambini scalzi, l’odore della carne di capra abbrustolita sul fuoco. Poi la musica ritmica dei tamburi, un suono ritmico, quasi un richiamo che fece cadere in una specie di trance la giovane che danzava vicino al fuoco. Da dove erano seduti Luca ed Elena non si distingueva il volto della donna, si muoveva con l’eleganza delle fiamme nel fuoco poco lontano. I tamburi aumentavano d’intensità, a un tratto apparvero accanto a lei delle ombre.

-Cosa sono?- domandò Luca alla guida.

-Le anime dei leopardi morte.-

Non ebbe tempo di terminare quella frase che due leopardi sbucarono dal bush si fermarono vicino alla donna in trance, quasi a far visita alle anime defunte, e fuggirono passando vicino a Elena. Lei avvertì un brivido e afferrò il braccio di Luca, che si alzò in piedi.

-Abbiamo visto abbastanza.- disse risoluto alla guida. E si avviarono alla tenda. Con un misto di ansia sottile.

La giovane si fermò vicino al fuoco e avvicinandosi al posto dove erano seduti Luca ed Elena posò una mano sulla terra, scuotendo il capo.

Pescarono un marlin e due tonni pinna gialla.

Elena amava il mare ed era una buona nuotatrice.

Si tuffarono tutti. Solo lei si attardò a risalire. Uno squalo poco più lungo di un metro l’aggredì ferendola all’altezza della coscia. Urlò. Accadde tutto rapidamente, si tuffarono alcuni amici con un fucile subacqueo e un ragazzo keniota con una lancia.

Lo squalo mollò la presa, ma Elena perdeva molto sangue. La issarono a bordo, cercarono invano di fermare l’emorragia. Si trattava dell’arteria femorale. Morì prima di tornare a terra.

Non perse conoscenza e tenne per tutto il tempo la mano di Luca.

-Raccontami cosa vedi- disse.

-L’oceano, Elena, e giù lontano le palme, resisti-

Lei sorrideva, si fidava di lui.

Se ne andò così, con lo specchio del cielo riflesso nei suoi occhi e l’immagine del mare e delle palme, lo sguardo di lui regalatole con le parole.

-Matteo- fu l’ultimo pensiero, il suo bambino.

Luca la tenne stretta a sé, il sangue colava sulle sue gambe.

Elena, i lunghi capelli biondi, i tratti gentili. Accettava Luca per quello che era, avvertiva quel sottile desiderio di fuggire, quel sentirsi inadeguato in tante situazioni, e lo lasciava andare, sempre. Perché sapeva che sarebbe tornato: lei era il suo porto, la sua amica, la sua confidente.

Sembrava impossibile che ora fosse lei a lasciarlo, senza “ma” e senza “se”, una scelta inappellabile.

-Signor Borghese- il giovane ragazzo keniota scrollò la testa, con lo sguardo commosso di chi sa che quello è il cerchio della vita, che ha un suo disegno, anche se ci sembra oscuro e inaccettabile.

 In Africa più che in altri posti la morte è parte della vita. Tutto procede secondo un suo ordine logico.

Il leone prederà la gazzella e quando il leone morirà si farà terra dove crescerà l’erba che sfamerà la gazzella.

Ma questo per Luca non era una consolazione, la vita gli aveva portato via quell’affetto così grande, la vita così avara nel tempo, quella vita che non gli aveva mai regalato nulla.

Pole (piano) dicevano i kenioti a Luca: in quell’intimo senso di pietas, inteso come “io soffro con te”.

 

Nessun commento: