venerdì 11 luglio 2008

Era solo un gerundio


Fummo già creta, costole della terra e di barbariche invasioni, prigionieri nell’odore di muschio e di sesso.

Passaporti

Che già seppellii briciole di ossa, quel che restava di noi dopo, per far nascere l’albero di un figlio, orfano di parole. Le avevamo già dette tutte nel lento disgregarsi dei nostri discorsi deliranti. Era solo un gerundio. Proposizione implicita. La malaria ci assaliva con ondate nere mentre affondavamo le dita come radici di mangrovie, sputando sale dalla pelle.

Pane azzimo quello scarto di presente coltivando un fazzoletto di cielo tra palazzi verticali. Zingare con i bambini in braccio, nuove madonne a mendicare.

Non ci indurre in tentazione

Solo un vecchio orologio da tasca batteva ritmico i minuti e le ore dal fondo di un cassetto dove ogni sera lo riponevi dopo aver dato la carica.

Le travi del soffitto piovevano polvere di tarli.

Fummo più vecchi, fummo amanti e acerrimi nemici e ancora amanti, nella tragedia umana del nostro sopravviverci.

Non ci indurre in tentazione

E quando terminò l’orgoglio, quando avidi bevemmo l’ultima goccia di liquido seminale, quando il cuore guarì i lividi, arresi ci amammo.

Con passione e furia, con l’urgenza di un tempo avverso, non nostro, era solo un gerundio.

Al vecchio monastero di Colonna i pescatori riponevano le reti.

Istantanee

Così, sfiniti amanti, passandoci uno zuccherino al laudano su labbra livide.

Così guarderai le mie curve morbide come le donne di Botero.

E l’amore di parole lavate con il sapone di Marsiglia, appese al collo ad asciugare vergogna di schermaglie e regole infrante, come vecchie porcellane inglesi. L’ora del tè era solo un gerundio.

L’amore.

Che ci sconfessammo tutta la vita, negandoci l’odio, l’unico rancore che potesse salvarci.

E fummo schiavi della terra.

Arrivammo all’altare quando dio se ne era già andato.

Nessun commento: