lunedì 4 aprile 2011

Parigi, 102 Boulevard Pasteur

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

Federica era in taxi, le mani strette nelle mani, bianche esangui e il viso perfetto di porcellana, o forse si era fatto di avorio in quel pomeriggio parigino. Invecchiato, all’improvviso.

Le labbra disegnate a cuore, come ciliegie mature, da raccogliere. La linea dell’eyeliner le sottolineava lo sguardo, a mettere in evidenza due occhi chiari, immobili come un lago.

Parigi sfilava dal finestrino mentre seguivano il lungo Senna, la Tuilerie, e la Tour Eiffel svettava in lontananza, l’intreccio morbido di acciaio a disegnarne il profilo.

Le mani strette in grembo, gli occhi obliqui, abituati al pianto, che era un singhiozzo muto in fondo alla gola, come in un film si vedeva proiettata in una realtà che non le sembrava la sua.

Un errore, sicuramente avevano fatto un errore.

Massimo non poteva essere morto.

Il taxi rallentò, svoltò a destra nel vicolo e si fermò.

La giovane donna ne scese con tutto il peso della croce sulle spalle.

Si sentiva come un attimo prima di mezzanotte, quando sai che il conto alla rovescia viene scandito da migliaia di persone, come a Time Square e poi piovono coriandoli, e parte la musica, e allora tutta quell’adrenalina, ti si scioglie in petto e non sai perché vuoi solo piangere.

Meno dieci.

Alzò lo sguardo verso la finestra dove tante volte suo fratello l’aveva salutata.

Meno nove.

Quanto ci mette il cervello a comandare alle gambe di muoversi?

Meno otto.

Le mani a cercare le chiavi.

Meno sette.

Le chiavi cadute a terra, le mani che tremano.

Meno sei.

La porta che si apre e lei che entra nel cerchio di ombra dell’androne.

Meno cinque.

Lo sguardo sale le scale prima dei piedi.

Meno quattro.

Le scale due alla volta.

Meno tre.

La porta dell’appartamento socchiusa.

Meno due.

I Carabinieri che si voltano vedendola entrare.

Meno uno.

Lo sguardo di Iris, la compagna di suo fratello: la Maddalena dopo che hanno crocefisso Gesù. Allora Federica capì e la bella maschera del suo volto di attrice si frantumò come un calco di gesso.

Zero.

Massimo disteso sul letto. La testa reclinata sul cuscino in una posizione innaturale.

Federica rimase immobile. La morte aleggiava nell’ombra, quasi a scusarsi di ciò che aveva fatto, come il vizio di un bambino distratto che fa cadere il vaso delle caramelle.

La finestra era socchiusa, il vento sollevava leggermente la tenda e i tetti di Parigi occhieggiavano, tra le soffitte e i camini. Poi c’era il cielo.

Federica tornò a posare lo sguardo nella stanza, sul tavolino: la cornice d’argento con Massimo e suo Padre sullo sfondo del lago Vittoria. Un foglietto piegato a metà. La siringa con l’ago scoperto. Le fece male il solo vederla, come la Bella Addormentata punta dal fuso.

“Massimo” le sembrò di urlare, ma la voce era appena soffocata. Le mancava l’aria.

“Massimo” questa volta gridò e le fecero male i polmoni quando l’aria li attraversò.

Poco dopo era tra le braccia di Iris: che non aveva più lacrime, solo quello sguardo di Madonna addolorata. Chi poteva consolarla?

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