martedì 19 aprile 2011

Passaporto per Tel Aviv


“Lei lo ha scritto, sopportando di non sentire mie notizie per mesi pur sapendomi in zone di guerra…aspettando i miei ritorni, ascoltando ogni volta le mie preoccupazioni, coccolando i miei sogni e le mie follie.

Senza mollarmi mai anche quando lo avrei capito cento volte” Gino Strada

Quella notte era stata stretta a lui per ore, fino a quando l’alba l’aveva scoperta ancora sveglia.

Avevano tutto della vita, gli anni più belli, l’incoscienza, le storie da raccontare, l’incapacità di fare compromessi, per loro la vita era bianco o nero, il grigio era per gli indecisi.

Forse solo il tempo non avevano. Il tempo di stare insieme, di approfondire, di parlarsi.

Reporter in terre di confine, di guerra, a caccia della notizia, lo scoop, per il quale si giocavano tutto, la vita, l’amicizia, l’amore.

Tutto aveva un prezzo, anche il dolore.

Mentre fuori il cielo si faceva più chiaro si strinse un po’ di più all’uomo che dopo poche ore sarebbe partito. Sarebbe tornato? Ecco, cominciava a fare la sentimentale.

Una china pericolosa dalla quale non sarebbe risalita facilmente.

Aspettava, immobile che lui dicesse qualcosa, le sarebbe bastata una parola, mendicata fino all’ultimo.

Suonò la sveglia. Si alzarono in silenzio.

Il cielo grigio dalla finestra, il caffè, da girare piano.

Massimo prese la borsa e la mise a tracolla, gli occhiali da sole sul naso scoprivano un po’ del mare agitato dei suoi occhi.

Iris stava appoggiata alla porta.

Lui portò due dita alla fronte per salutarla.

“Ciao” disse lei.

Per chi lavora in posti dimenticati da Dio, tra mine antiuomo e cecchini pronti a sparare dirsi “arrivederci” suona come una condanna, come un sinistro presagio.

Giornalisti entrambi, andavano e tornavano dalle terre di confine, insieme e mille volte da soli.

Lei restò per un po’ a soppesare nell’aria la sua assenza: il segno della testa sul cuscino, l’accappatoio vicino al suo, le tazze della colazione che parlavano di loro.

Uscì, camminando a passo svelto.

C’era un posto che amava, una spiaggia incastonata dalle rocce calcaree, figlie di una dinastia estinta, del mito e del tempo.

Guidò con gli occhi annebbiati di lacrime, e per la prima volta sentiva pesante come un macigno quella partenza.

La spiaggia era deserta, le onde accarezzavano appena la battigia, e il lungo disegno di alghe lasciava indovinare i capricci della maree.

Lei gliel’aveva regalata a Massimo quella spiaggia.

Non un libro, o un disco, o qualcosa di utile. No, al ritorno dal loro viaggio a Creta gli regalò quella spiaggia, raccontandogliela come la porta di Atlantide, favoleggiando antichi fasti.

Per chi la scommessa con la vita la tiene sempre bene in vista, quel regalo era un azzardo, qualcosa di tangibile. Come l’amore? Si ritrovò a pensare Iris.

Già l’amore, quando pensi che sia come tirare via un manifesto sperando di trovare sotto un nome, un volto, e sempre più spesso c’è solo una facciata di mattoni.

Quando tornò a casa trovò le chiamate dal giornale.

Richiamò.

Massimo era stato fermato alla frontiera Israeliana.

Qualcuno doveva fare il suo lavoro.

A lui ci avrebbero pensato poi, male non gli avrebbe fatto restare a pensare in qualche cella squallida, in un posto dove essere il nemico non è certo un lato positivo, soprattutto se sei suo prigioniero.

Iris partì, controllò il passaporto, il visto e anche lei con la borsa a tracolla si avviò all’aeroporto.

“Tu pensa solo a fare quel reportage, che Massimo lo riportiamo indietro noi” l’ammonì il caporedattore.

Sorrise. Avrebbe fatto entrambe le cose. Ma avrebbe scelto lei in quale ordine.

Lo sapevano entrambi.

Bianco o nero.

Ma sapevano che il tempo era qualcosa di inafferrabile? E ogni attimo poteva essere l’ultimo.

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