Il tempo del vino e delle rose
Parla più piano che non ti sento
sotto sotto sotto sotto bombardamento
Chiudimi a chiave quando mi hai dentro
sotto bombardamento! Ligabue
sotto sotto sotto sotto bombardamento
Chiudimi a chiave quando mi hai dentro
sotto bombardamento! Ligabue
Il vento mi portava il profumo dei gelsomini e dei
frangipane mentre sistemavo le aiuole del giardino, l’ombra del cappello
disegnava un cerchio più scuro sull’erba, il cielo era sgombro di nubi e
l’orizzonte non aveva porte: la terra si stendeva a perita d’occhio verso Aberdare.
Sentii il rumore di una jeep che si avvicinava, lasciai cadere
gli attrezzi da giardinaggio, schermai il sole con la mano per vedere chi era.
Mi pulii le mani sui jeans, ed entrai in casa. Attraversai la cucina, il cuore
di quel luogo, quante cene e feste intorno al grande tavolo.
L’auto si fermò sul retro, sentii le portiere chiudersi.
Quando aprii la porta e vidi Dan e Colin non ci furono
bisogno di parole.
-No- dissi. Non ricordo se urlai, se rimase dentro me con un
eco di vocali a rimbalzare al ritmo dei battiti di cuore che si frantumavamo
come deliri di pensieri spogli dopo una notte di temporale.
Portai una mano alla bocca e rientrai in casa. Sentii i loro
passi seguirmi. Mi appoggiai al marmo della cucina temendo di sprofondare.
Era come se tutto per un lunghissimo minuto si fosse
fermato, nessuno parlava, avvertivo solo il ronzio delle api al di là della
zanzariera, laboriose tra i fiori del gelsomino. Credo di aver girato i nostri
anni in un minuto, in un flash back di immagini, che cadevano come coriandoli,
di un vecchio carnevale, il ricordo in quella foto sul comò.
L’abbraccio di un vento caldo che spoglia i ciliegi, il velo
della sposa rimasto troppo a lungo sul sagrato di un chiesa, per non entrarci
mai.
Una gardenia e un déjà vu.
-Com’è successo?- domandai, attendevo al patibolo una
condanna che sapevo già, solo non ero preparata, e non lo sarei stata mai.
-A Kampala, tra i manifestanti. Hanno sparato sulla folla.-
iniziò Dan guardando a terra.
Colin continuò: -C’erano altri giornalisti, ma lui era in
prima linea.-
Già. Francois era così. Non era un soldato, era un
giornalista. In prima linea lui, in prima pagina dei quotidiani i suoi
articoli, in copertina sulle riviste di mezzo mondo le sue foto-denuncia.
Quando hai per compagna la morte ogni giorno ti anestetizzi
al pericolo, o semplicemente sai che il destino è già segnato. Nelle prime
battute di una storia sai già il suo epilogo. Bisogna stare attenti alle
parole, saperle leggere.
-La mia partita è dietro l’obiettivo della prima linea di
qualunque conflitto.- avevi detto quando ci siamo conosciuti. E mi lasciavi la
possibilità di restare nella tua vita, ben sapendo cosa avrei provato se ti
fosse successo qualcosa, o di uscirne, ben sapendo che non potevo senza provare
altrettanto dolore. Ero ormai legata a doppio filo con te. A volte non siamo noi
a scegliere. Lo fa la vita per noi, perché non ci sono alternative,
scorciatoie, quella è la strada. Quella era la tua partita. E in qualche modo
assurdo un giorno il destino mi dovrà spiegare la mia.
-Dobbiamo andare a Kampala. Prendi qualcosa. Degli abiti-
disse Dan.
Annuii, poi uscii verso il giardino, mi chinai sull’aiuola
per sistemarla e crollai in un pianto senza più parole. Colin mi appoggiò una
mano sulla spalla che strinsi, naufraga di pensieri, di dolore.
-Datemi un minuto.- chiesi.
Tornai in casa passando davanti a una foto scattata in
Italia: Finibus Terrae.
-Un giorno, quando morirò voglio avere questo panorama nello
sguardo.- ti dissi.
-Se muoio voglio che tu ti prenda cura di me, di tutto ciò
che resterà.- le tue parole.
-Se muoio io non voglio che tu venga. Voglio che torni qui,
con una rosa, sul mare.- dissi ancora.
Eramo felici. Quel discorso era un azzardo alla vita. Una
partita a scacchi mai finita.
Quello era il tempo delle rose.
Ben presto capii che non durano a lungo i giorni del vino e
delle rose.
Che dovevo prendere? Nulla, non avresti voluto che
scegliessi per te. Avrei lasciato gli abiti che avevi scelto la mattina, ti
immaginavo, nella fretta di uscire, senza badare a nulla, un caffè, la macchina
fotografica, il telefonino.
-Bonjour- avevi scritto quella mattina. Come sempre.
Afferrai solo una sciarpa, l’avevi comprata tu dagli uomini
blu, i Tuareg, quando soffiava l’Harmattan, eravamo in mezzo al deserto. Me
l’avevi arrotolata intorno al capo passando sulla bocca, per ripararmi. Oggi
mastico sabbia al pensiero di quel momento.
Ricordi appannati del viaggio verso l’Uganda. Il piccolo
aereo sulla pista, il verde brillante sotto di noi. Nessun disbrigo di
formalità doganali, nessuna richiesta di passaporti, Dan aveva un foglio del consolato.
Per la prima volta le porte si aprivano senza che le toccassi, gli uomini in
divisa avevano lo sguardo basso. Ogni tanto la mano di Colin a sostenermi, a
guidarmi.
Passammo per vie secondarie, per porte di servizio. Furono
bravissimi. Evitammo giornalisti e curiosi.
Mi presi cura di te, come avevi chiesto. Ti lasciai la
sciarpa che mi avevi regalato. Dan e Colin ripresero il tuo pc, i quaderni, la
macchina fotografica.
Ti riportammo in Francia.
Le parole ora stanno nella mia borsa mentre incontro Robert,
il tuo amico poeta, in questa Parigi nuvolosa. Mentre arresa piango. E mi
domando dov’è la mia partita? Cosa resta sulla scacchiera quando finiscono le
pedine, quel quadrato bianco o nero.
Cosa resta dello spazio tra le parole?
Arriva un momento in cui bisogna per forza arrendersi e
lasciare volare via il ricordo, come un palloncino strappato dal vento a una
mano bambina.
Bisogna andare avanti, in qualche modo assurdo trovare la
strada, riporre le parole diligentemente vergate su una carta che ingiallirà.
Accettare che mai più sfiorerò le tue mani.
Mai più. Parole di un film muto anni 20, bianco e nero.
Quando le parole arrivano alla fine del foglio si deve
voltare pagina.
In qualche modo è l’unica strada possibile.
Almeno credo.
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