domenica 22 aprile 2012

Il tempo del vino e delle rose


Parla più piano che non ti sento
sotto sotto sotto sotto bombardamento
Chiudimi a chiave quando mi hai dentro
sotto bombardamento! Ligabue

Il vento mi portava il profumo dei gelsomini e dei frangipane mentre sistemavo le aiuole del giardino, l’ombra del cappello disegnava un cerchio più scuro sull’erba, il cielo era sgombro di nubi e l’orizzonte non aveva porte: la terra si stendeva a perita d’occhio verso Aberdare.
Sentii il rumore di una jeep che si avvicinava, lasciai cadere gli attrezzi da giardinaggio, schermai il sole con la mano per vedere chi era. Mi pulii le mani sui jeans, ed entrai in casa. Attraversai la cucina, il cuore di quel luogo, quante cene e feste intorno al grande tavolo.
L’auto si fermò sul retro, sentii le portiere chiudersi.
Quando aprii la porta e vidi Dan e Colin non ci furono bisogno di parole.
-No- dissi. Non ricordo se urlai, se rimase dentro me con un eco di vocali a rimbalzare al ritmo dei battiti di cuore che si frantumavamo come deliri di pensieri spogli dopo una notte di temporale.
Portai una mano alla bocca e rientrai in casa. Sentii i loro passi seguirmi. Mi appoggiai al marmo della cucina temendo di sprofondare.
Era come se tutto per un lunghissimo minuto si fosse fermato, nessuno parlava, avvertivo solo il ronzio delle api al di là della zanzariera, laboriose tra i fiori del gelsomino. Credo di aver girato i nostri anni in un minuto, in un flash back di immagini, che cadevano come coriandoli, di un vecchio carnevale, il ricordo in quella foto sul comò.
L’abbraccio di un vento caldo che spoglia i ciliegi, il velo della sposa rimasto troppo a lungo sul sagrato di un chiesa, per non entrarci mai.
Una gardenia e un déjà vu.
-Com’è successo?- domandai, attendevo al patibolo una condanna che sapevo già, solo non ero preparata, e non lo sarei stata mai.
-A Kampala, tra i manifestanti. Hanno sparato sulla folla.- iniziò Dan guardando a terra.
Colin continuò: -C’erano altri giornalisti, ma lui era in prima linea.-
Già. Francois era così. Non era un soldato, era un giornalista. In prima linea lui, in prima pagina dei quotidiani i suoi articoli, in copertina sulle riviste di mezzo mondo le sue foto-denuncia.
Quando hai per compagna la morte ogni giorno ti anestetizzi al pericolo, o semplicemente sai che il destino è già segnato. Nelle prime battute di una storia sai già il suo epilogo. Bisogna stare attenti alle parole, saperle leggere.
-La mia partita è dietro l’obiettivo della prima linea di qualunque conflitto.- avevi detto quando ci siamo conosciuti. E mi lasciavi la possibilità di restare nella tua vita, ben sapendo cosa avrei provato se ti fosse successo qualcosa, o di uscirne, ben sapendo che non potevo senza provare altrettanto dolore. Ero ormai legata a doppio filo con te. A volte non siamo noi a scegliere. Lo fa la vita per noi, perché non ci sono alternative, scorciatoie, quella è la strada. Quella era la tua partita. E in qualche modo assurdo un giorno il destino mi dovrà spiegare la mia.
-Dobbiamo andare a Kampala. Prendi qualcosa. Degli abiti- disse Dan.
Annuii, poi uscii verso il giardino, mi chinai sull’aiuola per sistemarla e crollai in un pianto senza più parole. Colin mi appoggiò una mano sulla spalla che strinsi, naufraga di pensieri, di dolore.
-Datemi un minuto.- chiesi.
Tornai in casa passando davanti a una foto scattata in Italia: Finibus Terrae.
-Un giorno, quando morirò voglio avere questo panorama nello sguardo.- ti dissi.
-Se muoio voglio che tu ti prenda cura di me, di tutto ciò che resterà.- le tue parole.
-Se muoio io non voglio che tu venga. Voglio che torni qui, con una rosa, sul mare.- dissi ancora.
Eramo felici. Quel discorso era un azzardo alla vita. Una partita a scacchi mai finita.
Quello era il tempo delle rose.
Ben presto capii che non durano a lungo i giorni del vino e delle rose.
Che dovevo prendere? Nulla, non avresti voluto che scegliessi per te. Avrei lasciato gli abiti che avevi scelto la mattina, ti immaginavo, nella fretta di uscire, senza badare a nulla, un caffè, la macchina fotografica, il telefonino.
-Bonjour- avevi scritto quella mattina. Come sempre.
Afferrai solo una sciarpa, l’avevi comprata tu dagli uomini blu, i Tuareg, quando soffiava l’Harmattan, eravamo in mezzo al deserto. Me l’avevi arrotolata intorno al capo passando sulla bocca, per ripararmi. Oggi mastico sabbia al pensiero di quel momento.
Ricordi appannati del viaggio verso l’Uganda. Il piccolo aereo sulla pista, il verde brillante sotto di noi. Nessun disbrigo di formalità doganali, nessuna richiesta di passaporti, Dan aveva un foglio del consolato. Per la prima volta le porte si aprivano senza che le toccassi, gli uomini in divisa avevano lo sguardo basso. Ogni tanto la mano di Colin a sostenermi, a guidarmi.
Passammo per vie secondarie, per porte di servizio. Furono bravissimi. Evitammo giornalisti e curiosi.
Mi presi cura di te, come avevi chiesto. Ti lasciai la sciarpa che mi avevi regalato. Dan e Colin ripresero il tuo pc, i quaderni, la macchina fotografica.
Ti riportammo in Francia.
Le parole ora stanno nella mia borsa mentre incontro Robert, il tuo amico poeta, in questa Parigi nuvolosa. Mentre arresa piango. E mi domando dov’è la mia partita? Cosa resta sulla scacchiera quando finiscono le pedine, quel quadrato bianco o nero.
Cosa resta dello spazio tra le parole?
Arriva un momento in cui bisogna per forza arrendersi e lasciare volare via il ricordo, come un palloncino strappato dal vento a una mano bambina.
Bisogna andare avanti, in qualche modo assurdo trovare la strada, riporre le parole diligentemente vergate su una carta che ingiallirà.
Accettare che mai più sfiorerò le tue mani.
Mai più. Parole di un film muto anni 20, bianco e nero.
Quando le parole arrivano alla fine del foglio si deve voltare pagina.
In qualche modo è l’unica strada possibile.
Almeno credo.

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