giovedì 28 febbraio 2008

L’Harmattan




Compro i vestiti alla moda, quelli visti in centro, da Sasch, scivolati dalle passerelle milanesi.

Boutique illuminate dal taglio obliquo e azzurrino dei faretti, dove le commesse attendono clienti masticando chewingum e ripassando la linea degli occhi con l’eye-liner guardandosi distratte allo specchio.

I brunch sul fiume dove i giovani rampolli della Borsa fanno jogging nella pausa pranzo e attraversano le finestre dell’Idrovolante ancorato al Borgo Medievale, tra radici di platani malati e acqua di Po, che inghiotte i riflessi e regala ombre.

Corrono, con il filo dell’auricolare che sobbalza sulla maglietta sudata, li bevo attraverso il ghiaccio del mio gin-tonic.

Ho sempre viaggiato per lavoro, per passione, per inseguire il vento.

L’Harmattan l’ho conosciuto da ragazza, avevo diciotto anni, nella regione del Sahel e dell’Alto Atlante, tra i monti spogli e impervi, erosi dal vento, di un paese al gusto dolciastro che bruciava nei narghilé, la sera, nei suk, sporchi, pieni di gente e di animali a razzolare tra i rifiuti.

Il mercato dei cammelli era un luogo affascinante, coperto dall’odore acre delle bestie e il lungo mercanteggiare dei venditori.

Si beveva tè alla menta all’ombra dei minareti che rovesciavano la litania dei muezzin.

L’Harmattan si alzava improvviso, nei mesi di Gennaio e Febbraio, colorando il cielo di giallo, soffiava per giorni nelle gole rocciose, sul deserto di sabbia, impedendo alle carovane nomadi di spostarsi.

Si fermavano ad Ajangafà.

Alzavano le loro tende che il vento gonfiava come palloncini, i cammelli stavano vicino, gli occhi vacui e il ronzare del vento tra i tiranti delle tende, l’unica voce.

Portavo un turbante per proteggere la bocca e avvertivo la sabbia infilarsi ovunque che la sera si scioglieva nel piatto della doccia, rossa e appiccicosa.

Al mercato compravamo la frutta, arance rosse, grandi ananas, banane, noci di cocco, quel giorno il vento arrivò improvviso, alzando un’ombra scura di sabbia, gli arabi si aggrappavano alle loro bancarelle di povertà.

Cercai di afferrare una sciarpa caduta a terra e il vento sciolse il mio turbante, lasciando scompigliati i lunghi capelli e scoprendo la mia pelle ambrata, al collo pendeva un ciondolo, l’iniziale del mio nome.

Raccolsi la sciarpa, porgendola al mercante che soffermò lo sguardo su quella piccola lettera dell’alfabeto.

Lo salutai in arabo, chinando la testa, segno di rispetto, come competeva a una donna, in quell’angolo di mondo.

“Kalin upepo” mormorò, spiegandomi che significava figlia del vento, signora della pioggia, indovinando un nome che non era il mio, ma aveva la stessa iniziale.

Mi regalò la sciarpa rifiutando le monete ossidate dal tempo che gli porgevo, ma prese la mia mano e seguì le linee contorte e spinose, sorridendo:

“Lui arriverà con il vento, e sarà l’amore”

Avevo diciotto anni e quelle parole vaneggiarono sogni romantici nel mio cuore di adolescente.

Quella sera piovve acqua e sabbia, il mio battesimo arabo.

Si viaggiava su treni lenti e carichi, verso il Mali, dove la prima classe impregnava l’aria di tè alla menta.

I sedili erano rossi, rigidi e i camerieri portavano livree consumate da un colonialismo ormai lontano che esalava gli ultimi respiri.

Le bande armate e i traditori già si alleavano e sparatorie attraversavano i paesi per la conquista di nuove terre.

Liberarsi dai coloni che li avevano depredati, ora si facevano la guerra per spartirsi un deserto di nulla, nel mercato nero delle armi.

Timbuctu era solo un miraggio vaneggiato dagli uomini blu, la sera, intorno al fuoco.

I controllori erano burberi, studiavano biglietti e documenti con precisione, litigando tra loro e intervallando discorsi da lunghe espressioni dialettali, difficili da interpretare.

E ti seguivano con lo sguardo, sempre.

Mark era il figlio di un collega di mio padre e il mio primo bacio francese, quando Parigi era troppo lontana anche solo per immaginare i passages couverts, Passage Vérot-Dotat con le sue insegne colorate.

Spesso i treni erano costretti a lunghe soste.

Un pomeriggio, io e Mark, scendemmo dal vagone per acquistare datteri dai venditori ambulanti e ingannammo il lungo ritardo di ore facendo l’amore su un treno vuoto, dimenticato alla stazione.

Fuori soffiava il vento caldo portandoci le voci morbide, dolci, di acca mute, di acca aspirate, di una lingua in sanscrito sui miei pensieri.

Mark non lo conobbi in una giornata di vento, ma negli anni è tornato spesso nella mia vita, improvviso, inaspettato, come l’Harmattan.

E una sciarpa di seta bianca.

Legata al collo.

L’ultimo giorno che passai con Mark fu nel deserto, prima che rientrasse con suo padre dopo la firma di un importante contratto per la trivellazione di un pozzo petrolifero.

Un posto dal nome magico e leggendario per i viaggiatori del deserto, Tamanrasset era l'ultimo avamposto della civiltà prima del balzo verso il Sud, verso il vuoto del Tenéré o dell'Air.

Dalla finestra di un piccolo albergo nel cuore del Sahara guardavamo il volo di colombe.

Bianche.

Bianche come mandorle sulla glassa croccante di un dolce di Natale.

Noel.

Quando nasce Dio.

La camicia da notte di seta scivola sulle gambe, mentre nel cuore della notte rispondo al telefono e indovino dal silenzio dell’eco che è una chiamata internazionale e una voce conosciuta mormora:

“Volevo solo dirti buon giorno, sono bloccato a Tamanrasset, soffia l’Harmattan”

Poi cade la linea.

Anche qui oggi c’è il vento, devo prendere la sciarpa.

Una sciarpa di seta bianca, come il volo di colombe in un deserto di ricordi.

Bianca come qualche confuso capello sulla tua testa.

Una sciarpa di seta bianca, sul mio tailleur, comprato in centro, da Sasch.

Vent’anni dopo.

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